Oltre i Limiti: La Vita e l’Arte di Juergen Teller in “I Need to Live”

Oltre i Limiti: La Vita e l’Arte di Juergen Teller in “I Need to Live”

Il titolo della mostra fotografica I need to live racchiude in modo icastico molta della poetica di Juergen Teller, che attinge linfa vitale da un viscerale senso di trasgressione. In un’intervista per Vanity Fair il fotografo racconta infatti di averlo ricavato da una discussione con la moglie Dovile, la quale gli aveva fatto notare la stupidità di fumare durante un periodo influenzale. Alle prediche della donna aveva infatti replicato proprio “I need to live”.

Evidente la trasgressione di un realismo che rispetta un’estetica dell’understatement, la quale conferisce valore artistico anche a quegli aspetti della realtà considerati più bassi e deprezzabili. Tra i tanti esempi offerti dalla mostra il più emblematico è il video trasmesso su maxi schermo, nel quale il fotografo defeca nei pressi del circolo polare artico, aiutato dall’attore svedese Alexander Skarsgård.

E come in questa stravagante ripresa, spesso è sfumato il confine che separa la vita personale dalle opere del fotografo tedesco. È il caso della grande fotografia nella quale è nudo mentre beve birra sulla tomba del padre, o quella di sua figlia neonata, Iggy, che indossa una tutina con la stampa del dito medio dell’omonimo cantante.

Spesso, infatti, a rendere la realtà quotidiana degna di interesse fotografata, sono accostamenti dal sapore surreale, che in modo folgorante rivelano una verità all’osservatore che sa coglierla. Ciò accade ad esempio nella foto scattata al Louvre, raffigurante l’attrice Charlotte Rampling e la modella Raquel Zimmermann  davanti alla Gioconda: in questo caso è immediato come un corpo senza veli (che può essere il corpo di chiunque) attiri la nostra attenzione prima di una delle opere più importanti della storia dell’arte. O ancora, è straniante l’atmosfera generata dalla serie fotografica di un ammasso di crocifissi e figurine sacre, che rivela la dimensione consumistica e obsolescente degli oggetti, anche quelli ai quali viene attribuito un valore sacro. 

La nudità è al centro dell’attenzione in buona parte della mostra, ed egli stesso se ne fa portavoce in più di un ritratto, come quello in cui è sdraiato di fianco, su un materasso, con dei palloncini in mano. E ad essere immortalate nude non sono solo modelle come Kate Moss, ma anche qui il realismo irrompe, presentandoci, senza veli, una Vivienne Westwood non più giovane, che posa come nella scena del ritratto in Titanic

Questa voglia di spogliarsi e rivelare, unita alla ridefinizione di ciò che è degno di essere soggetto di uno scatto, racchiude la volontà di mettere in discussione le convenzioni per creare liberamente. Juergen Teller infatti, attraverso questi atti di libertà, stabilisce ciò che è rilevante per i propri occhi, aldilà di ciò che dovrebbe esserlo, spinto da un prorompente need of life..

Tra Pittura e Poesia. L’Arte dei Preraffaelliti in mostra a Milano

Quando si parla di Preraffaelliti, si pensa subito all’Inghilterra vittoriana e a un certo gusto artistico mirante a una rivalutazione del passato in chiave moderna.

Questo è il senso della mostra allestita dal 19 giugno al 6 ottobre 2019 nelle sale del piano terra di Palazzo Reale. Curata da Carol Jacobi e promossa da Comune di Milano e 24Ore Cultura, la mostra presenta circa ottanta opere, provenienti dalla Tate Gallery di Londra, esemplificative di quei diciotto pittori che presero parte alla cosiddetta “Confraternita dei Preraffaelliti”.

Walter Howell Deverell, Un animale domestico, 1853, Londra, Tate Gallery
Walter Howell Deverell, Un animale domestico, 1853, Londra, Tate Gallery


Questi artisti presero le mosse della loro scelta estetica e artistica da un preciso fenomeno storico, che tutti conosciamo attraverso l’anno in cui questo si svolse, ovvero il 1848. Questi dodici mesi furono un susseguirsi di tumulti, moti e ribellioni, borghesi e popolari, contro i potenti ritornati sui loro troni e nei loro palazzi dopo il Congresso di Vienna. Le Cinque Giornate di Milano, i moti a Brescia, nello Stato Pontificio e a Napoli, in Italia, scossero gli animi dei Liberali e di tutti coloro che sognavano la nascita di un Paese unito e indivisibile, come sostenne Mazzini, ma anche nel resto d’Europa questa ventata di novità, purtroppo soffocata nel sangue, mosse le coscienze culturali e artistiche nella volontà di riunificazioni nazionali e di un primo abbozzo di un continente coeso e senza barriere. In Inghilterra la situazione era diversa, ma non meno “agitata”. Al potere c’era una monarca rigida ma amante dell’Arte, Vittoria, e, anche oltremanica, gli operai degli slums descritti da Dickens cominciavano a ribellarsi alle condizioni di vita e lavoro disumane nelle periferie di Londra e di Manchester.

Queste istanze le seppero cogliere diciotto artisti, per lo più figli di classi agiate, ma anche di estrazione popolare, accomunati dagli studi presso la Royal Academy di Londra. Per loro, lo stile e i dettami ancora di fine ‘700, ispirati alla ritrattistica di Gainsborough e al vedutismo di Turner, che l’Accademia proponeva, parevano superate. Come nel resto d’Europa con il movimento romantico, anche in Inghilterra questo gruppo di artisti decise di tornare al Medioevo, ma con un intento meno politico dei loro colleghi italiani, tedeschi e francesi. Gli inglesi, molti dei quali reduci dal Grand Tour italiano tra Roma, Firenze e Napoli, guardavano allo stile, più che al messaggio, e trovarono la risposta alla loro ribellione nella Pittura italiana dal ‘300 all’inizio ‘400, toscana e umbra. In sostanza, tutta quella Pittura italiana prima dell’avvento di colui che cambiò, per sempre, i canoni artistici e stilistici del Rinascimento, Raffaello. Da qui il nome del gruppo: Preraffaelliti.

 

La mostra si muove, dopo un’introduzione biografica dei diciotto artisti, attraverso sezioni tematiche dedicate agli argomenti affrontati da questi ragazzi che, meglio di ogni altro, costituirono la prima vera avanguardia artistica sul territorio britannico. I Preraffaelliti si configurarono, sin da subito, in segno di devozione verso quel periodo di transizione tra Medioevo e Rinascimento, come una confraternita, ma la loro fu sempre una scelta stilistica, e non certo religiosa, vista la laicità totale del Movimento. Erano confratelli come lo erano i loro pilastri artistici e culturali. La loro Arte si può definire come Medioevo Moderno, perché si muove su due binari paralleli: i Preraffaelliti scelsero il Medioevo toscano come principio ispiratore della loro Pittura, con riferimenti che spaziavano da Dante a Petrarca, da Giotto a Simone Martini, ma seppero trasformarlo, calandolo nella realtà inglese di metà XIX secolo, attraverso un sapiente uso di riferimenti letterari e filosofici, ma anche con l’ironia con cui affrontavano i cambiamenti sociali. Seppero essere una forza di cambiamento nella rigida e statica società artistica inglese e, forse, i Preraffaelliti si dimostrarono un po’ come la propaggine inglese del Romanticismo, vista la poliedricità dei loro lavori, anche se definirli “romantici” è una forzatura, in quanto non possedevano molte delle caratteristiche dei colleghi del Continente, a partire dal forte impegno politico. Certo, erano interessati a tematiche sociali, ma la loro direzione fu quella di un nuovo realismo, diverso da quello crudo di matrice francese, più legato a un’aura estetizzante e, per certi versi, già Liberty, che alla denuncia diretta di Courbet e di Millet.

John Everett Millais, Ofelia, 1851-52, Londra, Tate Gallery
John Everett Millais, Ofelia, 1851-52, Londra, Tate Gallery


Il primo nome di punta della Confraternita fu Dante Gabriel Rossetti, figlio di un esule e carbonaro abruzzese. Fu lui a contribuire alla nascita di un’associazione mirante a rivoluzionare l’Arte in Inghilterra, con l’aiuto di altri due sodali, poi divenuti maestri della Pittura Preraffaellita, William Holman Hunt e John Everett Millais. Tutti e tre frequentavano i corsi di Belle Arti della Royal Academy di Londra, dove si dedicavano, per tutto il giorno, a riprodurre, a disegno, opere antiche e medievali italiane. Proprio da questi disegni prende le mosse la prima sezione. Ben presto si unì a loro un nuovo sodale, Ford Madox Brown, grande amante dell’Arte medievale italiana e personaggio ribelle, che, reduce da un viaggio a Firenze, realizzò opere come la bellissima Nostra Signora dei bravi bambini, in cui lo stile ispirato a Beato Angelico e a Melozzo da Forlì si fonde con il realismo evidente nell’aver ritratto, tra i piccoli astanti, anche la figlia e nell’allusione al bagno dei pargoli ogni sabato sera. Quest’opera è emblematica della definizione di Medioevo Moderno: stile antico, tema e personaggi moderni. Nella prima sezione emerge subito anche un grande interesse della Confraternita per la Letteratura, e per drammi personali reinterpretati in chiave teatrale. Capolavoro, in questo senso, è l’Ofelia (1851-52) di Millais, opera ispirata alla vicenda dell’Amleto di Shakespeare, in cui l’artista ritrasse la pittrice Elizabeth Siddal nei panni dell’eroina che si uccise in quanto respinta da Amleto. Per le scelte, Millais lavora su un substrato romantico, ma il naturalismo e le acque nitide del fiume prefigurano il Decadentismo di fine secolo.

William Holman Hunt, Claudio e Isabella, 1850, Londra, Tate Gallery
William Holman Hunt, Claudio e Isabella, 1850, Londra, Tate Gallery


La seconda sezione è dedicata al rapporto, strettissimo, tra Pittura e Poesia nell’estetica preraffaellita: non solo, gli artisti si ispiravano alla Letteratura, ma erano letterati loro stessi, scrittori di prosa o poeti, e, per tale motivo, confrontavano il realismo dei loro soggetti con le fonti privilegiate, Dante, Boccaccio, Chaucer, Shakespeare, ma anche moderni come Browning, in un costante dialogo tra Italia e Inghilterra, quasi a concepire Londra come una seconda Firenze. E qui entra in scena il terzo grande attore della vicenda, l’Amore. Un Amore romantico, certo, mai espressamente carnale e fisico, ma sempre sentimentale, figlio di quell’Amor Cortese dei grandi romanzi del ‘200, ma calato nel contemporaneo. Le storie d’Amore dipinte dai Preraffaelliti erano raffigurazioni di amanti separati dal denaro e dalla cupidigia, piuttosto che dal destino, ma anche di personaggi infedeli, come segno di ribellione nei confronti dell’establishment culturale dell’epoca.

A seguire, una parte è dedicata a quello che era la Fede religiosa, per i Preraffaelliti. La loro era una Fede laica, in grado di attualizzare i testi sacri come la Bibbia, che ritenevano una grande fonte d’ispirazione. Per tale motivo, giunsero a raffigurazioni sacre molto realistiche, che suscitarono critiche per la concreta attualizzazione della scena, come prova la Lavanda dei Piedi di Brown o la Sant’Agnese di Cadogan Cowper, giudicata scandalosa per una modella minorenne nei panni della santa e di un’attrice per l’Angelo che le appare.

Ford Madox Brown, Gesù lava i piedi di Pietro, 1852-6, Londra, Tate Gallery
Ford Madox Brown, Gesù lava i piedi di Pietro, 1852-6, Londra, Tate Gallery


I Preraffaelliti, come già anticipato, seppero calare la vita moderna in una patina di antichità. Anzi, forse, più di altri, furono i cantori della Modern Life inglese, e, per tale motivo, seppero cogliere i profondi cambiamenti sociali e sociologici dell’epoca nei loro dipinti, a partire dal dramma dell’emigrazione, per arrivare a una concezione di amore non convenzionale, che sfocia in una denuncia, velata, nei confronti della mancanza di diritti basilari delle donne, in primis quello di voto. Non a caso, nessun membro dell’associazione ebbe una vita sentimentale stabile, quasi in contrasto con la concezione vittoriana della famiglia. Emblematico è Amore d’aprile di Arthur Hughes (1855-56), opera raffigurante un incontro tra amanti in una Natura lussureggiante, ma anche l’enigmatica Tenete vostro figlio, Signore di Brown e la criticatissima Valle del Riposo di Millais, in cui due suore sono intente a scavare una fossa in un cimitero con un realismo giudicato eccessivo a causa delle braccia muscolose di una delle due religiose. Hunt realizzò un quadro, La nave, di ritorno da un viaggio in Oriente, concependola come “vascello della salvezza”, e come metafora della vita, con una palese allusione all’emigrazione britannica verso Australia e Sudafrica, così come emblematica del dramma dell’espatrio è Un ultimo sguardo all’Inghilterra di Brown, in cui raffigurò un amico con moglie e figlio, diretti nel Nuovo Mondo.

Arthur Hughes, Amore d'aprile, 1855-56, Londra, Tate Gallery
Arthur Hughes, Amore d’aprile, 1855-56, Londra, Tate Gallery


 

Ford Madox Brown, Cattivo soggetto, 1863, Londra, Tate Gallery
Ford Madox Brown, Cattivo soggetto, 1863, Londra, Tate Gallery


La sezione successiva è dedicata al “plein air”. I Preraffaelliti, incoraggiati dal loro primo grande critico, John Ruskin, furono pionieri nell’esporre dipinti eseguiti all’aperto e non in studio, e, in ciò, anticiparono i Macchiaioli toscani, che ne furono influenzati, specie nelle vedute, a causa della loro devozione e fedeltà alla Natura. A Firenze, alcuni artisti Preraffaelliti frequentavano la folta e culturalmente elevata comunità britannica presente in riva all’Arno, come prova la bellissima veduta della città di John Brett.

John Brett, Veduta di Firenze da Bellosguardo, 1863, Londra, Tate Gallery
John Brett, Veduta di Firenze da Bellosguardo, 1863, Londra, Tate Gallery


La Confraternita si sciolse nel 1863. I Preraffaelliti, però, mantenendo uno stile di vita bohemien, continuarono a frequentarsi, approfondendo motivi e scelte stilistiche precedenti, come fece, per esempio, Dante Gabriel Rossetti, che abbandonò il realismo delle prime prove per affinare il suo amore per Dante Alighieri, per la figura di Beatrice, per la Vita Nuova e per i racconti arturiani, tra cui quello inglese di Thomas Malory. Ne uscirono opere ancora di taglio tardogotico, con fondi dorati e iscrizioni arcaiche in caratteri medievali, ma, in cui, la concezione di Amore è quella romantica. Le prove migliori sono la bellissima Paolo e Francesca, in cui campeggia la scritta “o lasso” sopra la testa di Virgilio, o la suggestiva Roman de la Rose, perfetta attualizzazione delle storie cavalleresche cortesi del ‘200.

Dante Gabriel Rossetti, Lucrezia Borgia, 1860-1, Londra, Tate Gallery
Dante Gabriel Rossetti, Lucrezia Borgia, 1860-1, Londra, Tate Gallery


 

Dante Gabriel Rossetti, Roman de la Rose, 1864, Londra, Tate Gallery
Dante Gabriel Rossetti, Roman de la Rose, 1864, Londra, Tate Gallery


 

Dante Gabriel Rossetti, Il sogno di Dante alla morte di Beatrice, 1856, Londra, Tate Gallery
Dante Gabriel Rossetti, Il sogno di Dante alla morte di Beatrice, 1856, Londra, Tate Gallery


La Parte finale della mostra è dedicata alla fase tarda della produzione dei Preraffaelliti, che sperimentarono nuove gamme stilistiche e cromatiche, anche in relazione al nascente design e alle arti applicate, fatte conoscere dalla mente geniale di William Morris, con il suo movimento Arts & Crafts, il vero trait d’union tra Otto e Novecento britannico. Ne emerse anche una nuova raffigurazione della donna, più interiorizzata, ma anche più femme fatale, ormai vicina all’estetica decadentista che cominciava a emergere, anche grazie a un giovane scrittore che promuoveva tale concezione estetizzante della vita: Oscar Wilde. Stilisticamente, Rossetti, da Preraffaellita, divenne Postraffaellita, passando attraverso il filtro del Sanzio per scegliere, nei ritratti, i modelli veneti di Tiziano e Giorgione, con donne in carne e ingioiellate, che identificano, in chiave moderna, divinità antiche, come Monna Pomona e Monna Vanna, ormai modelle simbolo di uno stile di vita e di abbigliamento alla moda; anche la figura di Beatrice divenne icona di stile, e il capolavoro che chiude, ciclicamente opposto all’Ofelia di Millais, la mostra, ne è la prova: Beata Beatrix (1864-70). A concludere l’esposizione, una piccola sezione dedicata all’eredità che i Preraffaelliti lasciarono a due movimenti artistici che, negli anni ’80, iniziavano a nascere: il Simbolismo e l’Impressionismo. Opera emblematica di questo lascito è la fantastica Dama di Shallow di John William Waterhouse, raffigurante un racconto di Alfred Tennyson. La Natura, rigogliosa, sembra già anticipare le pennellate di De Nittis, mentre la figura femminile è una modella in stato di trance, a metà strada tra un’eroina del Decadentismo letterario e una delle figure dipinte da Franz von Stück.

Dante Gabriel Rossetti, Monna Vanna, 1866, Londra, Tate Gallery
Dante Gabriel Rossetti, Monna Vanna, 1866, Londra, Tate Gallery


 

Dante Gabriel Rossetti, Beata Beatrix, 1864-70, Londra, Tate Gallery
Dante Gabriel Rossetti, Beata Beatrix, 1864-70, Londra, Tate Gallery


 

Dante Gabriel Rossetti, Monna Pomona, 1864, Londra, Tate Gallery
Dante Gabriel Rossetti, Monna Pomona, 1864, Londra, Tate Gallery


 

Dante Gabriel Rossetti, Aurelia (L'amante di Fazio), 1863-73, Londra, Tate Gallery
Dante Gabriel Rossetti, Aurelia (L’amante di Fazio), 1863-73, Londra, Tate Gallery


 

John William Waterhouse, La dama di Shallott, 1888, Londra, Tate Gallery
John William Waterhouse, La dama di Shallott, 1888, Londra, Tate Gallery


Preraffaelliti. Amore e Desiderio
Palazzo Reale, Piazza Duomo 12, Milano
Orari: Lunedì 14,30 – 19,30
           Martedì – mercoledì – venerdì – domenica 9,30 – 19,30
           Giovedì e sabato 9,30 – 22,30
Biglietti: Intero € 14,00; Ridotto € 12,00
Info: www.mostrapreraffaelliti.com

La fotografia concettuale di Pierluigi Fresia in mostra a Milano

Galleria Milano ritorna attiva con una mostra nel solco della tradizione sperimentale che ha sempre contraddistinto lo spazio espositivo di Via Turati.

Pierluigi Fresia, Blackboard, 2018
Pierluigi Fresia, Blackboard, 2018


Pierluigi Fresia, Blackboard, 2018
Pierluigi Fresia, Blackboard, 2018


Dal 22 maggio alla fine di luglio, infatti, sono qui esposti alcuni lavori di Pierluigi Fresia, sotto la curatela del professor Francesco Tedeschi, ordinario di Storia dell’Arte Contemporanea all’Università Cattolica. Si tratta di una mostra importante, e di un ritorno, in quanto è la prima esposizione realizzata dopo la scomparsa, alla fine di febbraio, della mente creatrice della Galleria Milano, Carla Pellegrini. In fondo, la mostra è dedicata anche a questo straordinario personaggio della Storia dell’Arte milanese. Senza Carla, Galleria Milano non sarebbe mai esistita e, proprio nel suo nome, lo spazio espositivo ha deciso di continuare la sua attività tra mostre ed eventi culturali.

Pierluigi Fresia, Ibidem, 2019
Pierluigi Fresia, Ibidem, 2019


Out of place è il titolo della mostra dedicata alle opere di Pierluigi Fresia. L’artista è nato ad Asti nel 1962, ma vive e lavora sulla collina torinese, tra la città e il Monferrato. Formatosi come pittore, il suo lavoro ha poi impiegato nuovi mezzi e media, dal video alla fotografia, creando un amalgama in grado di mescolare le diverse forme espressive, sulle quali viene a stratificarsi anche l’uso, comunicativo e creativo, della parola. Fresia ha allestito, negli anni, numerose mostre nel Nord Italia, dalla sua città adottiva, Torino, a Genova, Bologna e, ora, Milano.

Pierluigi Fresia, Ibidem, 2019
Pierluigi Fresia, Ibidem, 2019


L’Arte di Pierluigi Fresia è una forma di espressione concettuale, mirante a scoprire i significati reconditi del suo fare fotografia. E, per questo, si può parlare di fotografia concettuale. Out of place altro non è che una nuova indagine su quello che è il tema più caro al lavoro di Fresia, ovvero la fugacità del reale, attraverso tre serie di fotografie da lui realizzate tra il 2017 e il 2019, Afasia, Blackboard e Ibidem.

Pierluigi Fresia, Afasia, 2017
Pierluigi Fresia, Afasia, 2017


La ricerca artistica di Fresia è uno streben romantico concepito come tensione verso l’invisibile e l’impercettibile, verso un concetto che, concretamente, noi non possiamo vedere e toccare ma che, con la mente, possiamo immaginare direttamente. È proprio questo l’Out of place, ma non dobbiamo immaginarlo come un elemento trascendente, bensì come qualcosa che è puro frutto della nostra immaginazione. Le fotografie di Fresia raffigurano uno scenario grigio, a cui va a sovrapporsi un segno bianco, grafico, che ne definisce i contorni e che cerca di dare una dimensione più “con i piedi per terra” e concreta a qualcosa che, in realtà, è intangibile. Si tratta di quelli che lui stesso chiama “segni di transito”, espressioni che delineano un contorno tangibile a qualcosa che, in realtà, non lo è. Nella serie Afasia sono segni, simili a graffi, su soggetti immersi nella nebbia, mentre in Ibidem questa filosofia di fare Arte si configura in note a piè di pagina incomplete, quasi commenti testuali lasciati all’immaginazione dell’osservatore, e, ancora, in Blackboard, i “segni di transito” sono graduali cancellature su una lavagna, che, su di essa, lasciano una piccola e impercettibile traccia: una superficie nera con pochi puntini, che lascia immaginare un riferimento a un cielo notturno, al Cosmo con tutte le Stelle o a galassie lontane. Tutto questo procedimento non mira, con intento moralistico, a ricordarci che il tempo scorre e che dobbiamo morire tutti, ma a farci da promemoria sull’inesorabilità del passare dei giorni e dei mesi, con il senso di perdita che la vita si porta dietro, entrando in collisione con quel tentativo, quasi utopia, dell’artista, di fermare questo orologio, in una dimensione di “oltre-vita”, quindi “out of place”, fuori posto. E proprio questo tentativo ci porta a definire la fotografia di Fresia come una forma di Arte concettuale, che resiste allo scorrere del tempo, delle stagioni e delle tendenze creative, ma che ci ricorda come dobbiamo cogliere l’attimo e vivere la nostra vita godendocela fino all’ultimo istante. In fondo, proprio come ha fatto Carla Pellegrini, vivendo per l’Arte fino al suo ultimo respiro, e alla quale dedico questo articolo.

Pierluigi Fresia, Afasia, 2017
Pierluigi Fresia, Afasia, 2017


Pierluigi Fresia. Out of place
Galleria Milano, Via Turati 14 – Via Manin 13, 20121 Milano
Orari: martedì-sabato 10.00 – 13.00; 16.00-20.00
Ingresso libero

Tra strada e protesta: l’Arte di Banksy in mostra a Milano

Street Art. Una parola che divide tra detrattori, spesso caricati di pregiudizi anche ideologici, e sostenitori di una forma creativa nuova in grado di riqualificare spazi urbani.

Anche in Italia questo fenomeno è recentemente esploso, tanto che le nostre città sono diventate campo di sperimentazione per nuove forme di comunicazione visiva su muro, specie nelle periferie. Ne sono prova i lavori eseguiti nel quartiere romano di San Basilio oppure i piloni della Sopraelevata, nel cuore di Genova, ma anche opere comparse in cittadine di provincia trasformate in musei a cielo aperto. La vera capitale della Street Art italiana è, però, Milano che, specie negli ultimi anni, ha visto fiorire moltissimi progetti di decorazione di muri liberi altrimenti in preda al degrado o addirittura di centraline dei semafori che hanno dato un tocco di vita e di colore a incroci apparentemente anonimi.

Milano non poteva essere la sede migliore per ospitare una mostra dedicata a uno dei padri della Street Art mondiale, Banksy. Dal 21 novembre 2018 al 14 aprile 2019, il MUDEC di Milano ospita questa grande esposizione, curata da Gianni Mercurio, che intende presentarsi come un percorso per immagini all’interno del pensiero artistico dell’artista: sono, infatti, esposte circa ottanta opere, tra dipinti e prints numerati, insieme a circa sessanta copertine di vinili e CD, oltre a una quarantina di memorabilia dell’artista.

Donut, 2009, Milano, Collezione Privata
Donut, 2009, Milano, Collezione Privata


Di Banksy si sa pochissimo, o meglio, quasi nulla, visto che nessuno è mai riuscito a svelare la sua vera identità. Potrebbe essere un artista, potrebbe trattarsi di un collettivo o di una crew, ma nessuno sa dire chi, in realtà, sia Banksy. Di certo esiste la sua fama mondiale, accresciuta, sicuramente, da questo volersi nascondere e dal non voler rivelare la propria identità, ma ciò fa parte del suo gioco artistico e della sua filosofia creativa, mirante a far prevalere il concetto sulla personalizzazione, il “cosa faccio” e il “come lo comunico” sul “chi sono” e “quanto sono quotato dal mercato”. Banksy è uno Street Artist, uno dei padri di questa forma creativa contemporanea, ma il suo raggio d’azione va oltre l’Arte. Con le immagini, si rivela un filosofo contemporaneo, un saggio che parte dalla strada per farci capire tante cose sul Mondo di oggi, ma anche un politologo che non parla nei talk show televisivi urlati, ma che comunica per immagini semplici e iconiche. Del resto, la sua massima più significativa è “A wall is a very big weapon” (Un muro è una grandissima arma), che testimonia come il suo modo di fare Arte sia, più che pura prassi creativa, protesta visuale, un tumulto iconografico mirante a farci scoprire le contraddizioni della nostra epoca e i cambiamenti del Mondo. Questa protesta parte dal graffitisimo di New York degli anni ’80 e ’90 e dall’Arte di Jean-Michel Basquiat, che l’artista ignoto ammira per la semplicità comunicativa, per i colori sgargianti e per il primitivismo. Banksy, però, va oltre. Arricchisce qualcosa di puramente fine a se stesso, seppur di rottura, con una voglia di denuncia e di critica sociale che esca dal solito circuito delle gallerie e dei collezionisti, rendendo questo intento visibile a tutta la cittadinanza e trasformandola in pura democrazia visuale. La tecnica scelta è stata quella dello stencil, ovvero l’uso di immagini stampate su carta adesiva, da attaccare su muri liberi. In questo modo, Banksy si è rivelato come il più illusionistico e scenografico tra gli Street Artists, proponendo veri e propri effetti ottici tipici del trompe-l-oeil.

Love is in the air (Flower Thrower), 2003, Butterfly Art News Collection
Love is in the air (Flower Thrower), 2003, Butterfly Art News Collection


Per Banksy, l’opera acquisisce significato se ha una valenza di critica politica e sociale. In primis se critica e combatte senza armi le ingiustizie del Mondo, affrontandole in maniera diretta. Migrazioni, Terzo Mondo e guerre sono suo argomento privilegiato. Notorio è il pacifismo dell’artista, che ha sempre realizzato opere con cui ha manifestato la propria opposizione a qualsiasi conflitto, da lui sempre ritenuto ingiusto. Sul tema bellico, Banksy ha realizzato uno dei suoi capolavori sul muro che separa Israele dai Territori Palestinesi, con l’obiettivo di denunciare le difficili condizioni degli abitanti della Cisgiordania in seguito alla creazione della barriera da parte dello Stato ebraico. Da sagace osservatore della realtà e suo feroce critico, Banksy ha arricchito lo spunto politico con quello, forse, più significativo: la satira. Bansky è un comico che non fa ridere con le battute da cabaret ma con curiosi stencil che raffigurano episodi al limite del surreale e, proprio sul muro arabo-israeliano, abbiamo prova di tutto ciò, con giocosi effetti ottici che aprono, oltre la barriera, panorami marini o montani o con una bambina palestinese che, con ironico rovesciamento, perquisisce un militare di Gerusalemme. La sua opera più suggestiva in terra palestinese, però, è la fantastica bambina che, attaccandosi al filo di un palloncino che si staglia verso il cielo, si libra in volo a superare quell’orribile barriera tra due popoli e due Stati, mandando un messaggio molto chiaro: la Politica divide e costruisce muri, l’Arte unisce e li abbatte. In mostra c’è un’intera sezione dedicata alle opere di Betlemme e al Walled Off Hotel, l’albergo aperto da lui stesso a Betlemme, davanti al muro, per attirare l’attenzione sulle sue opere e sulla situazione del conflitto tra Israele e Palestina.

Rude Copper, 2003, Butterfly Art News Collection
Rude Copper, 2003, Butterfly Art News Collection


 

Flying Copper, 2003, Butterfly Art News Collection
Flying Copper, 2003, Butterfly Art News Collection


Bansky ha sempre assimilato gli uomini a topi e scimmie, animali vittime di cupidigia, potere e consumismo, disposti a farsi la guerra pur di affermarsi l’uno sull’altro: la prova sono le sue immagini, in mostra, di topi che disegnano cuori o scimmie che denunciano, con cartelli ironici, i cambiamenti climatici. Non manca nemmeno il senso di oppressione che caratterizza la realtà di oggi, ossessionata dalla sicurezza e dalla paura: la prova migliore è l’opera raffigurante, tramite stencil, Judy Garland, nel Mago di Oz, affiancata da un poliziotto antisommossa che le controlla la borsa, ma anche il tipico bobby londinese che mostra il dito medio allude a questa situazione di disagio umano, da cui Bansky ne esce sempre con l’arma comica dell’ironia. E’ ancora la guerra, però, a farla da padrona: l’artista è rimasto impressionato dalle manifestazioni che invasero il centro di Londra contro la Seconda Guerra del Golfo e la politica bellica di Tony Blair, tanto da realizzare, in questa occasione, i famosissimi Smiley copper, immagini di poliziotti dei reparti antisommossa, con casco e fucile per lacrimogeni, ma con curiose ali e, al posto del volto, uno smiley simile a quello che tutti noi ci scambiamo su Whatsapp e Messenger. Allo stesso evento fa riferimento anche il famoso Flower Thrower, manifestante col volto coperto che, al posto di gettare una molotov, lancia un mazzo di fiori: una versione contemporanea di quel motto delle manifestazioni degli anni ’60 in cui si cantava “metteremo fiori nei vostri cannoni”. Attraverso l’ironia, Bansky entra nel mondo del punk e della sua cultura, simbolo, totally British, di rottura con il sistema: Winston Churchill con la cresta verde sembra Johnny Rotten dei Sex Pistols, così come la denuncia dell’alcolismo a Londra è condotta attraverso le parole dei Clash, “I fought the Law, and the Law won” (Ho combattuto la Legge, e la Legge ha vinto”). Ovviamente sono irrisi i simboli della monarchia inglese, con la regina Elisabetta trasformata in scimmia che ride beffarda davanti all’entrata in guerra dell’Inghilterra a fianco degli Stati Uniti contro l’Iraq di Saddam Hussein e Queen Victoria, simbolo da sempre di pruderie moraleggiante (e moralista), che diviene, con un simpatico fotomontaggio, icona hard mentre ha un rapporto saffico con una ragazza e siede, in autoreggenti e reggicalze, sul suo volto.

GIrl with red Balloon, 2004, Butterfly Art News Collection
GIrl with red Balloon, 2004, Butterfly Art News Collection


La logica conclusione è la vena pop di Bansky, con Kate Moss ritratta come la Marilyn di Warhol, accanto alla scena comica di John Travolta in Pulp Fiction, mentre spara con una banana al posto della pistola, insieme alla sua vena creativa come autore di copertine di album musicali, come Think Tank dei Blur.

Mosquito, 2002, Anversa, Artificial Gallery
Mosquito, 2002, Anversa, Artificial Gallery


Appendice alla mostra, secondo lo stile tipico delle mostre del MUDEC, è una sala immersiva in cui sono proiettate le immagini in video delle sue opere su muro, da quelle in Palestina a quelle che ha realizzato in Inghilterra, tra cui spicca il recente murale di Dover in cui, sul muro di un palazzo popolare, un uomo su una scala stacca una stella dalla bandiera dell’Unione Europea, con palese riferimento alla Brexit e alla disaffezione verso l’Europa in un Vecchio Continente su cui, ormai, soffiano i venti del sovranismo e del nazionalismo.

Rat, 2015, Anversa, Artificial Gallery
Rat, 2015, Anversa, Artificial Gallery


A visual protest. The Art of Banksy
MUDEC, Via Tortona 56, 20144 Milano
Orari: lunedì 14.30 – 19.30; martedì – mercoledì – venerdì – 09.30 – 19.30; giovedì – sabato – domenica – 09.30 – 22.30
Biglietti: Intero  € 14,00, ridotto  € 12,00
Informazioni: www.ticket24ore.itwww.mudec.it | Tel. +39 0254917


 

Il rapporto tra Milano e il cinema in mostra a Palazzo Morando

Milano, per la Storia del Cinema italiano, ha sempre avuto un ruolo di primo piano, sia come set per le pellicole che come spazi di produzione.

Vittorio Gassman sul set del film "Audace colpo dei soliti ignoti (1959), Archivi Farabola
Vittorio Gassman sul set del film “Audace colpo dei soliti ignoti (1959), Archivi Farabola


Le vicende che legano la Settima Arte al capoluogo lombardo sono al centro della mostra Milano e il cinema, allestita nelle sale al pianterreno di Palazzo Morando dall’8 novembre 2018 al 10 febbraio 2019. Curata da Stefano Galli e organizzata dal Comune di Milano e Direzione Musei Storici (nell’ambito dell’iniziativa Novecento italiano), con il patrocinio della Regione Lombardia e con la collaborazione di archivi storici fotografici ed editoriali, la mostra si propone come un percorso storico, per luoghi, ma soprattutto per film, del rapporto che lega Milano al Mondo del Cinema italiano. Si tratta di un racconto fotografico, condotto in particolare attraverso rare foto di scena effettuate durante le riprese o tramite fotogrammi delle pellicole, ma anche con l’esposizione di manifesti originali, locandine e memorabilia vari, che rendono ragione di quanto Milano, prima dell’ascesa romana, fosse la vera capitale italiana della Settima Arte.

Esterno del cinema Excelsior, Milano, 1973, Archivi Farabola
Esterno del cinema Excelsior, Milano, 1973, Archivi Farabola


Fino a circa quindici anni fa, Corso Vittorio Emanuele era un pullulare di sale cinematografiche, dall’Odeon in Via Santa Radegonda fino all’Excelsior della Galleria del Corso, ma anche in zone più distaccate non mancavano i luoghi di proiezione, dal mitico Maestoso di Piazza Lodi al Colosseo di Piazza Cinque Giornate e allo Splendor di Viale Gran Sasso, oltre ai numerosi cinema d’essai e a luci rosse di cui Milano era piena. Al giorno d’oggi, l’esplosione di Netflix e il concentrarsi delle sale nei grandi multisala di periferia e dell’hinterland hanno inferto un colpo mortale a questi vecchi cinema, spesso costretti a chiudere per trasformarsi in grandi store di brand di moda o, addirittura, lasciati al degrado e all’abbandono, come prova il caso del De Amicis di Via Camminadella. Alcuni resistono, l’Odeon, il Colosseo, il Ducale di Piazza Napoli, così come, tra le sale minori, l’Ariosto e il Beltrade di Via Oxilia. Bene, la mostra non vuole essere una rievocazione nostalgica dei tempi che furono, ma un racconto di quanto Milano ha dato al Cinema, e quanto esso ha dato alla metropoli.

Dario Fo e Franca Rame in Piazza Mercanti durante le riprese del film "Lo svitato" (1955), Archivi Farabola
Dario Fo e Franca Rame in Piazza Mercanti durante le riprese del film “Lo svitato” (1955), Archivi Farabola


In origine, infatti, sin da fine ‘800, Milano era stata la prima città italiana a installare proiettori in sale destinate al pubblico e a importare l’invenzione francese dei fratelli Lumiere: la prima venne realizzata a Turro, tra gli attuali Viale Monza e Via Bolzano, con una maestosa copertura che arrivò dalla Stazione Trastevere di Roma, in via di ristrutturazione. Per tale motivo, iniziò a svilupparsi una nuova industria cinematografica, con piccole case di produzione e teatri di posa, di cui i più famosi erano collocati accanto alla chiesa di San Cristoforo, in quello che oggi è un distretto creativo, mentre allora era una zona ampiamente periferica e malfamata. Tale industria iniziò a lavorare a numerosi film muti, con attrici famose come Lyda Borrelli, e sopravvisse fino all’ascesa del regime fascista. Mussolini, nel nome della retorica trionfalista, decise di spostare a Roma l’industria cinematografica italiana, fondando quella che, oggi, è Cinecittà. Milano conobbe circa vent’anni di declino ma, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, in città, rinacque una fiorente filiera di produzione cinematografica.

Comparse che interpretano degli spazzini fotografate in Piazza del Duomo durante la lavorazione di una scena del film Miracolo a Milano di Vittorio De Sica, 1951; ©ArchiviFarabola
Comparse che interpretano degli spazzini fotografate in Piazza del Duomo durante la lavorazione di una scena del film Miracolo a Milano di Vittorio De Sica, 1951; ©ArchiviFarabola


Il percorso fotografico della mostra parte proprio da qui. A fine anni ’40, i film “dei telefoni bianchi”, così chiamati per gli apparecchi di bachelite adoperati dagli attori per chiamarsi durante le riprese, non vennero più girati solo a Roma, ma anche a Milano. La vera esplosione, però, avvenne con gli anni ’50, quando Milano tornò a essere luogo di produzione e set per tantissime pellicole, e il neorealismo diede una svolta a questa tendenza. Si creò una dicotomia, quasi un duello, tra Milano e Roma. Se la capitale rimase il luogo privilegiato per la produzione dei grandi kolossal o per i capolavori di Rossellini, Germi e De Sica, Milano divenne un luogo di cinematografia indipendente e un set per tantissimi film e attori che fecero Storia, dallo stesso De Sica a Lucia Bosè. I film degli anni ’50 erano pellicole per lo più di evasione, storie d’amore, costruite sullo sfondo di una città ancora alle prese con la ricostruzione post-bombardamenti, come provato dal primo film del maestro Michelangelo Antonioni, Cronaca di un amore, ma non mancarono anche pellicole che raccontavano il boom economico della città, come Miracolo a Milano, di Vittorio De Sica. Da citare anche uno degli episodi più comici del nostro cinema, come Totò, Peppino e… la malafemmina, la cui scena cult è quella con i due protagonisti napoletani, Totò e Peppino De Filippo, che, cercando di fare i settentrionali, chiedono, in Piazza Duomo, a un “ghisa” informazioni in un grammelot misto di francese, partenopeo ed espressioni più o meno lombarde. Di questo periodo sono anche le prime comparse, sul grande schermo, di quelli che sarebbero stati numi tutelari dello spettacolo milanese, come Dario Fo e Franca Rame.

Adriano Celentano fotografato con la troupe in Piazza Duca d'Aosta durante la lavorazione del film Super rapina a Milano di cui è interprete e regista; accanto a lui, Pietro Vivarelli (regista non accreditato); Milano; 27/08/1964;
Adriano Celentano fotografato con la troupe in Piazza Duca d’Aosta durante la lavorazione del film Super rapina a Milano di cui è interprete e regista; accanto a lui, Pietro Vivarelli (regista non accreditato); Milano; 27/08/1964;


 

Manifesto del film "Cronaca di un amore"
Manifesto del film “Cronaca di un amore”


 

Manifesto del film "Miracolo a Milano"
Manifesto del film “Miracolo a Milano”


Gli anni ’60 segnarono l’esplosione di un cinema diverso, più legato ai cambiamenti della città, sia dal punto di vista urbanistico che da quello demografico: irruppero, nella Storia del Cinema, i primi fenomeni migratori dal Sud verso il Nord, ed emblematico è Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti, così come il personaggio milanese del “cumenda”, l’uomo arricchitosi con il boom economico che, dal nulla, era diventato ricco, magistralmente interpretato da Tino Scotti e che avrebbe fatto scuola per gli anni ’80, con i personaggi interpretati da Guido “Dogui” Nicheli, ma anche per imprenditori che avrebbero scalato le vette del potere politico in nome del “mi consenta” o del “ghe pensi mì”. La protagonista, però, rimase sempre Milano, non più solo una città legata al centro produttivo, ricco e dei locali, ma anche dei quartieri periferici e dei casermoni dormitorio in cui Rocco e i fratelli vivono e scoprono la vita autentica, oltre che delle industrie, come l’Alfa Romeo del Portello, dove molti meridionali realizzarono il loro sogno d’integrazione che li ha portati, talvolta, a essere più milanesi dei milanesi stessi. Il film di Visconti è un caso archetipico, ma anche altre pellicole immortalarono una Milano “in fieri”: è il caso di Ieri, oggi, domani, sempre di De Sica, da molti ricordato per il celebre spogliarello di Sophia Loren davanti a Marcello Mastroianni: i due attori hanno girato anche alcune scene a Milano, in particolare una che li raffigura a bordo di una bellissima spider nera, simbolo del miracolo economico, sul cavalcavia che conduce da Rogoredo a San Donato, sullo sfondo del nuovo centro direzionale ENI, chiamato Metanopoli. Forse un altro simbolo, per antonomasia, della Milano che cambiava e che diveniva, ancora di più città internazionale, cosmopolita e accogliente.

Totò e Peppino De Filippo durante le riprese di Totò, Peppino e la… malafemmina, 1956; ©REPORTERS ASSOCIATI & ARCHIVI
Totò e Peppino De Filippo durante le riprese di Totò, Peppino e la… malafemmina, 1956; ©REPORTERS ASSOCIATI & ARCHIVI


 

Manifesto del film "Audace colpo dei soliti ignoti"
Manifesto del film “Audace colpo dei soliti ignoti”


 

Manifesto del film "La vita agra"
Manifesto del film “La vita agra”


 

Manifesto del film "Rocco e i suoi fratelli"
Manifesto del film “Rocco e i suoi fratelli”


Negli anni ’60 e all’inizio dei ’70, Milano fu anche il set per molti film di protesta, legati alla contestazione giovanile, ma anche il luogo privilegiato per nuovi terreni di ricerca e sperimentazione cinematografica, come l’animazione, in cui spiccò il genio di Bruno Bozzetto e nel cui solco vennero create trasmissioni televisive cult per tanti bambini di allora, come Carosello, lo spettacolo dopo cui i nostri papà e le nostre mamme dovevano sempre andare a letto.

Cinema Capitol (Cinema Capitol via Croce Rossa, anni '50
Cinema Capitol (Cinema Capitol via Croce Rossa, anni ’50


Gli anni ’70, per Milano, furono un periodo molto vivo, ma, spesso, anche drammatico, con una contestazione sempre maggiore e, sovente, con scontri tra esponenti di opposte fazioni. In un momento come questo, accanto al cinema più legato al sociale, si affiancò un genere, quello “poliziottesco”, in cui si raffigurava la Polizia come unico rimedio contro il crimine dilagante: titoli come Milano Calibro 9 segnarono un’epoca, con attori come Tomas Milian, Luc Merenda, Gastone Moschin, Barbara Bouchet e molti altri. Di questo periodo, sono esposte, in mostra, alcune locandine storiche.

da sin.) Renato Salvatori, Luchino Visconti, Claudia Cardinale e Alain Delon in una pausa durante la lavorazione del film Rocco e i suoi fratelli (1960) di Luchino Visconti; Milano, 26/02/1960; ©Archivi Farabola
da sin.) Renato Salvatori, Luchino Visconti, Claudia Cardinale e Alain Delon in una pausa durante la lavorazione del film Rocco e i suoi fratelli (1960) di Luchino Visconti; Milano, 26/02/1960; ©Archivi Farabola


 

Manifesto del film "Milano calibro 9"
Manifesto del film “Milano calibro 9”


Gli anni ’80 segnarono la nascita della “Milano da bere”, per citare uno spot di un noto amaro, e varie pellicole misero in evidenza il fenomeno della scalata sociale sullo sfondo dei cantieri del nuovo centro direzionale di Porta Garibaldi, come Yuppies dei fratelli Vanzina. Tra gli attori compaiono i nomi di Massimo Boldi, Jerry Calà ed Ezio Greggio, che frequentarono la vera fucina cinematografica della Milano degli anni ’80, ovvero il Derby di Via Monte Rosa. Questo locale divenne, con il passare del tempo, un vero e proprio cabaret, da cui presero le mosse attori come il simbolo degli anni ’80 milanesi, Renato Pozzetto, Cochi Ponzoni, Teo Teocoli, ma anche un figlio di emigrati pugliesi che, meglio di altri, interpretò alla perfezione il ruolo del nuovo milanese “cient’ pe’ cient'”: Diego Abatantuono. Di quest’epoca, spiccano le foto di scena del capolavoro di Pozzetto, Il ragazzo di campagna, con Artemio che arriva in Piazza San Babila in trattore, o quelle di Un povero ricco, con la bellissima Ornella Muti in short che attende lo stesso Pozzetto a Porta Venezia. Di Abatantuono meritevoli sono le foto di Ecccezzziunale… veramente, soprattutto quella che lo ritrae insieme agli amici storici del Derby, Boldi, Teocoli e Ugo Conti.

Locandina del film "Un povero ricco"
Locandina del film “Un povero ricco”


 

Manifesto del film "Lui è peggio di me"
Manifesto del film “Lui è peggio di me”


La logica conclusione della mostra sono le immagini della Milano della droga e dello sballo di Fame chimica (2003), ma anche di quelle di Call me by your name (2017) di Luca Guadagnino, in cui la meraviglia di Villa Necchi Campiglio si fonde con l’atmosfera fatata in cui vivono i borghesissimi e annoiati protagonisti, o ancora di più, a chiusura del cerchio, la scena degli Sdraiati (2017) di Francesca Archibugi, con la battaglia tra vecchi e giovani che si svolge sullo sfondo di una futuribile Piazza Gae Aulenti.

Milano e il Cinema
Palazzo Morando, Via Sant’Andrea 6, 20121 Milano
Orari: martedì-domenica 10.00-20.00; giovedì 10.00-22.30
Biglietti: 12,00 € intero, 10,00 € ridotto
Info: www.mostramilanoeilcinema.it; 02 88465735

La magia del Romanticismo in mostra a Milano

Romanticismo è una parola che evoca, in tutti noi, grande suggestione, perché ci ricorda episodi epici della nostra Storia o suggestioni letterarie di grandi eroi e di storie d’amore. Ora, a questo fenomeno, è dedicata una grande mostra a Milano.

Il Romanticismo è il protagonista della mostra, curata dal professor Ferdinando Mazzocca, che, tra le due sedi delle Gallerie d’Italia e del vicino Museo Poldi Pezzoli, intende indagare e mettere in evidenza l’apporto italiano a questo fenomeno internazionale, non solo artistico, ma anche letterario e filosofico. Dal 26 ottobre 2018 al 17 marzo 2019, le due sedi museali ospitano circa duecento opere, tra Pittura e Scultura, soprattutto di artisti italiani, ma con apporti anche francesi e tedeschi, che sono testimonianza di quanto l’Italia divenne un centro di sviluppo del dibattito sul ruolo degli Intellettuali e degli Artisti nella nuova società, figlia della Rivoluzione Francese, ma in decisa controtendenza rispetto a essa. La nostra Penisola poté godere di questo ruolo grazie alle correnti di pensiero francesi e tedesche che, mediate dai rapporti che i Savoia e gli Asburgo avevano oltralpe, giunsero anche a Torino, a Milano e in Veneto, per poi espandersi a Roma e a Napoli, segnando gli sviluppi culturali e politici del nostro Paese. Varie delle opere esposte in mostra non sono mai state nel nostro Paese, ed è per questo motivo che la mostra milanese rappresenta un’occasione eccezionale.

Giuseppe Pietro Bagetti, Sacra di San Michele, 1825-30, Torino, Palazzo Reale
Giuseppe Pietro Bagetti, Sacra di San Michele, 1825-30, Torino, Palazzo Reale


Storicamente il Romanticismo ha due estremi temporali. La data d’inizio di questo fenomeno è il 1815, anno in cui, a Vienna, Inghilterra, Francia, Russia, Austria-Ungheria e Prussia si misero a un tavolo per ristabilire l’Ancien Regime, l’ordine monarchico abbattuto dalla Rivoluzione e dalle conquiste napoleoniche, mentre quella finale è il 1848, quando l’Europa venne sconvolta da moti borghesi, esattamente come lo era stato quanto visto nel 1789 in Francia, che decretarono la seconda fine delle monarchie assolute e sancirono la nascita degli Stati liberali.

Giuseppe Pietro Bagetti, Notturno con effetto di luna, 1820-30, Torino, Palazzo Reale
Giuseppe Pietro Bagetti, Notturno con effetto di luna, 1820-30, Torino, Palazzo Reale


All’interno di questo contesto si colloca la vicenda artistica e culturale del Romanticismo. Verrebbe da chiedersi “cosa è stato il Romanticismo?”. Darne una definizione è molto difficile e complesso, perché questo fenomeno ha avuto diverse sfaccettature a seconda del Paese in cui si è sviluppato, ma ha anche accentuato, per la prima volta, sforzi internazionali di collaborazione tra le Arti. Il Romanticismo, nelle Arti, prese le mosse dalla contestazione del primato razionalista del Neoclassico, affermatosi sotto Napoleone, e dalla rivalutazione del Medioevo, periodo considerato “oscuro” nel Seicento e nel Settecento, sulla spinta dell’iperbole barocca e del decorativismo trionfale rococò. Vennero rivalutate le forme artistiche medievali, archi a sesti acuti, volte ogivali e quant’altro, con una particolare predilezione per il Gotico. Non a caso, i primi fenomeni pre-romantici vennero dall’Inghilterra, dove l’architettura gotica non si era mai spenta del tutto, con le poesie di Thomas Gray e le incisioni di William Blake, in cui si mescolavano elementi onirici al recupero dell’architettura gotica e delle rovine delle antiche abbazie della campagna inglese. Anche in Germania, Caspar David Friedrich dipinse paesaggi mozzafiato della sua Greifswald, con tramonti eccezionali e occasioni di meditazione all’interno di rovine gotiche. In area tedesca, si coniò il termine Sturm und drang, ovvero quel tentativo titanico di raggiungere l’infinito attraverso la Natura ed, elemento nuovo, il sentimento. Il Romanticismo fu l’epoca dei Sentimenti, e, non a caso, l’amore fu il primo a essere rivalutato, all’interno di poesie e romanzi dedicati a tali temi.

Massimo D'Azeglio, Lo studio del pittore a Napoli, 1827 ca., Torino, GAM
Massimo D’Azeglio, Lo studio del pittore a Napoli, 1827 ca., Torino, GAM


Anche in Italia si rivalutò il Medioevo dopo la grande epoca barocca e neoclassica, che produsse geni da Bernini a Pietro da Cortona, da Tiepolo a Canova. Con un elemento in più: la Politica. Rivalutazione del Medioevo significava riprendere il periodo glorioso dell’epoca dei Comuni, in cui le città italiane si amministrarono da sole, liberandosi dai gioghi dei potenti stranieri. Quindi, per i Romantici nostrani, rivalutare il Medioevo significava lottare per liberare il Paese, e rendere l’Italia, come scrisse Mazzini “unica e indivisibile”, sotto una sola bandiera, contro i dominatori austriaci, contro il Papa e contro i Borbone al Sud. La rivalutazione italiana del Medioevo avvenne in chiave architettonica, specie nel Triveneto, con le opere di Selvatico (la chiesa di San Pietro a Trento) e Jappelli (il Caffè Pedrocchi a Padova), ma anche attraverso la Letteratura, con i romanzi e le opere teatrali, tra gli altri, di Manzoni, Tommaso Grossi e Giovanni Berchet, tutti attivi nella capitale romantica che fu la Milano austriaca del Primo Ottocento. L’elemento che, forse, caratterizzò maggiormente il Romanticismo italiano fu lo Storicismo: i nostri artisti assorbirono le caratteristiche delle tendenze estere, rivestendole, però, nella maggior parte dei casi, da patine di revival storico. Nacquero così le figure di Renzo e Lucia alla base dei Promessi Sposi, ma anche molte delle scene dipinte da Hayez e Molteni, nonché i grandi libretti per le opere, musicate, più tardi, da Verdi e Rossini. Anche in Italia i sentimenti entrarono nello scenario artistico e culturale, e l’amore fu il principale: ne divennero simboli i due amanti danteschi Paolo e Francesca, oppure Romeo e Giulietta ritratti da Hayez sullo sfondo di una Verona fiabesca.

Salvatore Fergola, Notturno a Capri, 1848, Napoli, Museo della Certosa di San Martino
Salvatore Fergola, Notturno a Capri, 1848, Napoli, Museo della Certosa di San Martino


Senza queste coordinate risulta difficile orientarsi in mostra. L’esposizione prende le mosse dalla rivalutazione della Natura e della realtà di Friedrich, con tre opere mai viste in Italia, affiancate ad altre, realistiche ma interiorizzate, del veronese Carlo Canella e di un giovane Massimo D’Azeglio, che, più tardi, sarebbe diventato genero di Manzoni, nonché uno dei patrioti padri dell’Unità d’Italia. Lo stesso D’Azeglio, insieme a Bagetti, rappresenta la sezione successiva, dedicata ai paesaggi piemontesi, dalla Natura incontaminata ma anche, dalle suggestioni britanniche, vista l’attrazione per i fenomeni atmosferici mediata dalla teoria del sublime di Blake. Tali elementi caratterizzano anche i paesaggi della terza sezione, opere di scuola lombarda, di artisti come il bergamasco Marco Gozzi, dal taglio scenografico e drammatico, ma anche dai colori intensi e scintillanti dei vigneti di Franciacorta ritratti dal genovese Giuseppe Bisi. Segue una parte dedicata alla notte, non più tenebrosa come la intendeva la pittura barocca erede di Caravaggio, ma come elemento onirico e di attrazione verso l’ignoto e l’infinito, come provano le vedute di Bagetti, del veneto Ippolito Caffi e del napoletano Salvatore Fergola. Un’altra sezione è dedicata a Napoli e al suo scenario unico al Mondo, al suo Golfo e al Vesuvio che domina la città e ne definisce lo scenario: vi sono esposte opere prevalentemente di artisti locali, come Fergola o Giacinto Gigante, o di stranieri come Pitloo o Scedrin, in cui venne immortalata la “Grande Bellezza” di una città e di un territorio unico al Mondo.

Salvatore Fergola, Tifone nel Golfo di Procida, 1842, Napoli, Palazzo Reale
Salvatore Fergola, Tifone nel Golfo di Procida, 1842, Napoli, Palazzo Reale


Dalla veduta di esterni si passa a quella di interni, molto contigua alla scena di genere ereditata dal Settecento e dalle prove veneziane dei Guardi e dei Longhi. Per i romantici, la veduta di interni divenne racconto realistico di vita vissuta all’interno di edifici e monumenti storici: è nata in questo modo la “Pittura Urbana” che, specie a Milano, tendeva a rappresentare scene quotidiane all’interno delle chiese della città. In mostra, sono testimonianze di questa fase le prove del bresciano Angelo Inganni e del piemontese Giovanni Migliara, che raffigurarono l’interno del Duomo di Milano pullulante di gente, secondo un’ottica civile di rivalutazione del nostro passato. Sempre all’interno di questo filone, si collocano le vedute dei Navigli, elemento caratterizzante di Milano, dello stesso Inganni, affiancate a scene di vita sui canali di Venezia e sulla Senna a Parigi, dipinte da Bisi, Canella e Caffi.

Caspar David Friedrich, Il sognatore, 1835, San Pietroburgo, Ermitage
Caspar David Friedrich, Il sognatore, 1835, San Pietroburgo, Ermitage


 

Caspar David Friedrich, Finestra sul parco, 1836-37, San Pietroburgo, Ermitage
Caspar David Friedrich, Finestra sul parco, 1836-37, San Pietroburgo, Ermitage


La passione per la Storia emerge nella successiva sezione dedicata ai Promessi Sposi. Alessandro Manzoni emerge come simbolo del Romanticismo per antonomasia, con il suo mix culturale di rivalutazione del Medioevo (evidente nella tragedia Adelchi), spirito cattolico e impeto per un’Italia unita. Di ritratti di Manzoni ne sono esposti tre, il più famoso e solenne di Hayez e quelli pensierosi e trasognati di Massimo D’Azeglio e di Giuseppe Molteni, accanto a opere che raffigurano i personaggi del romanzo manzoniano, tra cui spicca la bellissima Lucia di Eliseo Sala. Uno dei generi più significativi della Pittura romantica fu il ritratto, a cui è dedicata la sezione successiva; i nomi di spicco di tale genere sono Hayez e Molteni, insieme agli scultori Vincenzo Vela e Alessandro Puttinati. I loro ritratti non sono più pura ufficialità, come lo erano quelli settecenteschi di Reynolds o di Batoni, ma diventano specchi di sentimento, di interiorità, come prova la Contessa Teresa Zumali Marsili di Hayez, figura tutt’altro che ideale ma che manifesta forte personalità, oltre che un pizzico di malinconia. Alla donna, e in particolare al nudo femminile, preferito, per sensualità, a quello maschile, è dedicata la sezione apposita, in cui spicca la Schiava dell’Harem di Hayez, dallo sguardo distaccato, accanto all’Orgia di Torquato della Torre, opera di intento moralistico, come prova il teschio in basso, ma anche di forte carica erotica. Il trait d’union con la sezione dedicata alla Pittura sacra è la fantastica Meditazione di Hayez, in cui l’elemento erotico, espresso dai capelli corvini e dai seni candidi, si fonde con lo sguardo malinconico e con il volto rigato dalle lacrime di Maria, simbolo di una nuova visione, più umana e meno canonica, della scena sacra. Sul campo del sacro si mosse Manzoni, a definire una nuova visione della Fede e della Provvidenza, ma anche gli artisti romantici seppero rivalutare le scene “da chiesa” e bibliche in un’ottica meno ieratica e più sentimentale, come provano le quattro versioni dell’Educazione della Vergine di Trecourt, Carnovali, Coghetti e De Albertis. In quest’ottica di umanità, i Romantici seppero dare dignità agli ultimi, al proletariato urbano, il cui riscatto sarebbe stata una delle basi filosofiche e antropologiche della seconda metà del XIX secolo: la miglior prova di ciò sono i ritratti degli Spazzacamini di Molteni, neri di fuliggine ma profondamente umani, quanto gli altezzosi aristocratici ritratti dallo stesso e da Hayez.

Francesco Hayez, La Meditazione, 1851, Verona, Galleria d'Arte Moderna
Francesco Hayez, La Meditazione, 1851, Verona, Galleria d’Arte Moderna


 

Francesco Hayez, Ritratto della contessa Teresa Zumali Marsili con il figlio Giuseppe, 1833, Lodi, Museo Civico
Francesco Hayez, Ritratto della contessa Teresa Zumali Marsili con il figlio Giuseppe, 1833, Lodi, Museo Civico


 

Francesco Hayez, L'Innominato, 1845, Collezione Privata
Francesco Hayez, L’Innominato, 1845, Collezione Privata


 

Eliseo Sala, Lucia Mondella guarda dalla finestra se ritorna il suo fidanzato nel giorno stabilito per le nozze, 1843, Collezione Privata
Eliseo Sala, Lucia Mondella guarda dalla finestra se ritorna il suo fidanzato nel giorno stabilito per le nozze, 1843, Collezione Privata


L’ultima sezione è dedicata alla Pittura di Storia, tema romantico per antonomasia, in cui spiccano eroi simbolo della lotta sentimentale (Romeo e Giulietta) e per la libertà politica (Caterina Cornaro) ritratti da Hayez accanto ad altre figure, come il patriota greco Marco Botzaris, ritratto da Lipparini, Riccardino Langosco, di Pasquale Massacra, o Francesco Ferrucci, immortalato da De Albertis, le cui scene di martirio prefigurano il sacrificio che ogni uomo doveva essere disposto a fare per combattere l’oppressore, cacciarlo e realizzare il sogno dell’Unità d’Italia.

Francesco Podesti, Il Tasso declama la "Gerusalemme liberata" alla Corte estense, 1831-34, Ancona, Pinacoteca Civica
Francesco Podesti, Il Tasso declama la “Gerusalemme liberata” alla Corte estense, 1831-34, Ancona, Pinacoteca Civica


L’appendice, al Museo Poldi Pezzoli, ruota intorno alla figura dell’artista, ma si ricollega alla Pittura di Storia attraverso raffigurazioni di grandi italiani, come Torquato Tasso, Francesco Petrarca e Raffaello, opere del marchigiano Francesco Podesti e del ligure Gaetano Gandolfi, che sono, sì, scene in costume, frutto di storicismo, ma anche racconti di gloria di qualcuno che, in passato, aveva reso onore al nostro Paese con i suoi servigi letterari e artistici. Capolavoro di Luigi Mussini è il Trionfo della Libertà, opera manifesto e simbolo del Romanticismo, con tutti i grandi dell’umanità, da Platone a Dante, da Colombo a Galileo, in adorazione davanti al simulacro che rappresenta l’ideale romantico per eccellenza, il cammino verso il progresso. Sono, poi, esposti, alcuni autoritratti, da quello eroico e già bohemien del romagnolo Tommaso Minardi nel suo studio a quello tra amici di un beffardo Hayez, insieme a quelli curiosi di Guardabassi, con un pappagallo e del bolognese Guardassoni con una delle prime raffigurazioni dello strumento che avrebbe posto la parola fine a questo genere pittorico: una macchina fotografica.

Francesco Hayez, Autoritratto in un gruppo di amici, 1827, Milano, Museo Poldi Pezzoli
Francesco Hayez, Autoritratto in un gruppo di amici, 1827, Milano, Museo Poldi Pezzoli


Concludono la mostra le raffigurazioni dei moti del 1848, tra cui spicca, per crudezza e commovente semplicità, la Trasteverina colpita da una bomba di Gerolamo Induno, opera di denuncia degli orrori della guerra, che, già allora, indignava e raccoglieva, anche tra gli artisti, impeti pacifisti.

Giuseppe Molteni, Un ragazzetto venditore di latte con una capra, 1837, Collezione Privata
Giuseppe Molteni, Un ragazzetto venditore di latte con una capra, 1837, Collezione Privata


 

Giuseppe Molteni, Ritratto della contessina Anna Pallavicino Trivulzio, 1848, Milano, Museo Poldi Pezzoli
Giuseppe Molteni, Ritratto della contessina Anna Pallavicino Trivulzio, 1848, Milano, Museo Poldi Pezzoli


Romanticismo
Gallerie d’Italia, Piazza della Scala 6, 20121 Milano – Museo Poldi Pezzoli, Via Manzoni 12, 20121 Milano
Orari: Gallerie d’Italia, 9.30-19.30 (giovedì fino alle 22.30, lunedì chiuso); Museo Poldi Pezzoli, 10.00-18.00 (giovedì fino alle 22.30, martedì chiuso)
Biglietti: 10,00 € accesso a una sola mostra; 7,00 € accesso alla seconda previa presentazione del biglietto della prima
Info: http://www.gallerieditalia.com/it/milano/mostra-romanticismo/

L’Arte di Francesco Pedrini in mostra alla Galleria Milano

Galleria Milano è uno spazio, nel centro della metropoli meneghina, da sempre rivolto allo sperimentalismo e al rapporto tra le varie forme d’Arte, a cavallo tra Pittura, Scultura e Fotografia.


Dal 18 ottobre al 6 dicembre 2018, la Galleria ospita una mostra dedicata all’artista Francesco Pedrini. Per lui, si tratta di un ritorno, nello spazio espositivo di Via Manin, in quanto aveva già esposto, in una personale intitolata Nebula, in cui affrontava il rapporto dell’uomo con il cielo, e quindi, con l’infinito. Sempre a questi due elementi, è dedicata la mostra attuale, intitolata Gli strumenti del cielo.


Francesco Pedrini è nato a Bergamo nel 1971. Dopo gli studi all’Accademia Carrara di Belle Arti nella città natale, si è trasferito a Venezia, dove ha ottenuto la laurea magistrale allo IUAV. Terminati gli studi, ha iniziato una carriera di artista che lo ha portato a esporre in varie Gallerie del Mondo. Sue mostre personali si sono tenute a Bergamo, Torino, Buenos Aires, Tirana e Berlino, così come ha esposto in collettive a Rimini, Venezia, Merano e Istanbul.


Francesco Pedrini è un artista affamato di infinito. In fondo, il suo è uno streben romantico verso il cielo, verso quella Natura che vede, come Burke, in maniera sublime e panica. Il suo afflato lo porta all’ascolto dell’elemento celeste, ed è questa la base più profonda della sua nuova mostra. Per poter ascoltare ci servono degli strumenti, che siano tramiti ma anche che producano, su di noi, effetti pari alle note prodotte da una chitarra o da una tromba. In questo senso, Pedrini si avvicina molto a Garutti e alla sua opera Egg, in Piazza Gae Aulenti: l’idea di voler ascoltare l’indeterminato, l’intangibile è la base del suo lavoro. Il suo ascolto è anche osservazione del fenomeno immateriale, che ci porta a produrre immagini, segni tangibili di questa esperienza.


Francesco Pedrini, Strumento
Francesco Pedrini, Strumento



Gli Strumenti esposti in mostra sono prova di tutto ciò, ma partono, anche, da un’esperienza storica profondamente drammatica per l’umanità, ovvero la Grande Guerra. Questi oggetti erano, infatti, usati dai soldati, un secolo fa, per intercettare l’arrivo degli aerei nemici: in fondo, anche questa è un’esperienza di ascolto del cielo e dell’infinito! Pedrini non ha certo utilizzato questi attrezzi per le sue opere, ma ne ha tratto spunto, in quanto, partendo dalle immagini fotografiche poste sulle pareti, ha collocato i suoi Strumenti, sculture in legno, rame e ottone, al centro della sala, ricostruendo, in questo modo, il momento di cattura della percezione dell’infinito attraverso un’ipotetica orchestra dell’ascolto in grado di captare il silenzio alla base dell’infinito. Le opere alle pareti prendono il nome di Momenti, e sono composte di ossidi in polvere di minima quantità, su cui l’artista ha soffiato, registrandone, poi, il peso (riportato nei titoli delle opere). Il loro titolo è ispirato all’etimologia latina della parola, momentum, ovvero quel peso minore in grado di inclinare e muovere la bilancia.


Francesco Pedrini, Momento
Francesco Pedrini, Momento



Tornadi sono un work in progress iniziato nel 2012, tratto da immagini d’archivio dei siti meteo. Partendo da ciò, Pedrini ha realizzato disegni con polveri e pigmenti, con l’obiettivo di indagare l’elemento atmosferico della tromba d’aria, ormai sempre più spesso di attualità, ma anche di stabilire un rapporto dialettico con gli strumenti di ascolto del cielo, a forma di tromba, rendendo concreto il tentativo di raggiungere l’intangibile.


Francesco Pedrini, Tornado
Francesco Pedrini, Tornado



La logica conclusione della ricerca di Pedrini è data da Taken, lavoro sugli archivi di Alexander Graham Bell, l’inventore del telefono. Chi più di lui seppe sfruttare le potenzialità dell’infinito e del cielo per creare un sistema di comunicazione che avrebbe reso le persone sempre più vicine con il passare dei decenni? L’opera consiste in fotografie raffiguranti gli esperimenti di Bell sugli aquiloni tetraedrici, che furono alla base delle prime macchine volanti inglesi. Queste opere raffigurano cieli e distese infinite, ma anche del rapporto di Bell con la moglie Mabel, la quale diviene simbolo della comunicazione tra l’uomo e l’indeterminato senza fine, attraverso il veicolo chiamato amore. Come il cielo, anche l’amore è infinito, e il disegno di Pedrini raffigura Bell e Mabel imbrigliati in un reticolo di linee, allusione alle barriere legate alla sordità della donna, da cui, solo attraverso l’amore, si può evadere, verso l’infinito e tornare “a riveder le stelle” (Dante, Inferno, XXXIV, 139).


Francesco Pedrini. Gli strumenti del cielo.
Galleria Milano, Via Manin 13 – Via Turati 14, 20121 Milano
Orari: martedì-sabato 10.00-13.00, 16.00-20.00
Ingresso gratuito
Info: o2. 29000352; info@galleriamilano.com

La Pittura di Carlo Carrà in mostra a Milano

La stagione delle grandi mostre d’autunno a Milano vede, di nuovo, come protagonisti, i grandi del Novecento: Picasso a Palazzo Reale, Modigliani e Klee al MUDEC, Magritte alla Fabbrica del Vapore e altri ancora.

Sempre nella cornice dello spazio espositivo di Piazza Duomo, un’altra mostra degna di nota è quella dedicata a Carlo Carrà, uno dei più grandi pittori del XX secolo italiano. Organizzata da Comune di Milano in collaborazione con Civita e curata dall’equipe Maria Cristina Bandera – Luca Carrà (nipote dell’artista, n.d.r.), la mostra presenta circa 130 opere, provenienti dalle più prestigiose collezioni pubbliche e private del Mondo, dalla Pinacoteca di Brera alla GAM di Torino e al Museo Pushkin di Mosca, insieme, elemento peculiare dell’esposizione, a libri, riproduzioni di fotografie che ritraggono Carrà con la moglie Ines e con amici artisti, e cimeli, come i pennelli originali usati dal pittore. Dal 4 ottobre 2018 al 3 febbraio 2019 è possibile percorrere, nelle sale di Palazzo Reale, un percorso all’interno della produzione pittorica e delle vita di uno dei massimi artisti del nostro Novecento.

La mostra, infatti, si articola come un percorso biografico, che parte dalle origini piemontesi del pittore, nato a Quargnento, vicino Alessandria, nel 1881 e dai suoi esordi pittorici divisionisti, realizzati durante i suoi primi anni a Milano e a Monza, dove iniziò la carriera come decoratore. Allora la sua Pittura era totalmente influenzata da Previati, dai Grubicy de Dragon e da Faruffini, ed è per questo motivo, proprio partendo dalle sue origini, che lo si può considerare come un vero erede della tradizione ottocentesca lombarda e piemontese, con uno stile che mescolava pennellate rapidissime, quasi spighe di grano impresse sulla tela, a una luce intensa e profonda, pari a quella delle Maternità di Previati. A questo substrato, Carrà aggiunse, durante i viaggi giovanili a Londra e a Parigi, suggestioni dalla Pittura tardoromantica e simbolista francese, ma anche dal vedutismo inglese di Constable e Turner.

Carlo Carrà, La Carrozzella, 1915, Rovereto, MART
Carlo Carrà, La Carrozzella, 1915, Rovereto, MART


La seconda fase della sua vita fu quella che lo consacrò alla Storia dell’Arte. Dopo un accenno liberty sulle tracce di Sartorio, come prova la meravigliosa Allegoria del Lavoro in mostra, Carrà scoprì il fascino del dinamismo e della voglia di rompere con lo schema accademico che, fino ad allora, aveva contraddistinto il suo stile. Sempre nella capitale artistica italiana dei primi del ‘900, Milano, Carrà mosse i primi passi verso il Futurismo. In città, nel 1908, conobbe Marinetti, Severini, Balla e Boccioni, che iniziò a frequentare e con i quali, in una notte successiva a una delle tempestose serate che li caratterizzava, scrisse di getto il Manifesto della Pittura Futurista, risalente all’aprile del 1910. Di questa fase, in mostra, sono prove i disegni, autentici schizzi di figure in rapido movimento e parole in libertà (notare il motto Zang Tumb Tumb tanto caro a Marinetti e a Palazzeschi!), ma anche quadri, come quello raffigurante un simbolo di dinamismo moderno e non “passatista”, come scrisse lo stesso Carrà nel Manifesto: un tram, antenato dei mitici 1928 che vediamo ancora oggi per le strade di Milano, che sferraglia producendo scintille e bagliori di luce che scompongono i piani su cui il mezzo si muove. In questo periodo, Carrà iniziò anche a interessarsi di Politica, facendosi affascinare, anche grazie alla relazione sessuale con una donna anarchica, dalle teorie di Bakunin. Uno dei suoi capolavori futuristi, non a caso, è la tela raffigurante I funerali dell’anarchico Galli, in cui movimento, ribellione e rabbia sociale sono tutt’uno. Durante i suoi sei anni di militanza futurista, Carrà, però, passò dall’anarchismo al nazionalismo interventista. Prima della Guerra, l’artista si cimentò anche con il collage, avvicinandosi agli esiti cubisti di Braque, pur mantenendo la struttura futurista, dal dinamismo impetuoso e magmatico.

Carlo Carrà, Composizione 1915, Mosca, Museo Pushkin
Carlo Carrà, Composizione 1915, Mosca, Museo Pushkin


Carlo Carrà, La Musa Metafisica, 1917, Milano, Pinacoteca di Brera
Carlo Carrà, La Musa Metafisica, 1917, Milano, Pinacoteca di Brera

Dopo la Grande Guerra, Carrà rimase folgorato dalla Metafisica di Giorgio De Chirico. Già durante gli anni del ’15-’18, il pittore, ricoverato a Ferrara, abbandonò l’attività politica interventista per dedicarsi nuovamente all’Arte. Nel 1917 conobbe De Chirico e Filippo De Pisis, dando vita alla cosiddetta Pittura Metafisica. Di questa fase, in mostra, spiccano Madre e figlio (1917) e La Musa metafisica, dello stesso anno. Se, nella prima, lo stile è ancora quello di De Chirico, tra arcaizzante e primitivo, con la seconda Carrà elabora uno stile tutto suo, reduce dell’esperienza futurista e memore del suo interventismo (come prova la mappa dell’Istria e della Venezia Giulia), ma anche già proiettata verso quell’alone di magia tipica di Morandi e di sospensione tra Mondi paralleli che sarà tipica del Surrealismo.

Carlo Carrà, Gentiluomo ubriaco, 1916
Carlo Carrà, Gentiluomo ubriaco, 1916


Come De Chirico, anche Carrà, poi, tornò alla figura, all’Ordine. Con gli anni ’20, l’artista iniziò a dipingere vedute, paesaggi e figure al bagno che riassumevano tutte le sue fonti artistiche. Per i colori, tornò a guardare al ‘300 fiorentino e senese, mentre per i ritratti umani prese a modello la statuaria antica romana ed ellenistica, riproposta in chiave meno ideale e più primigenia, con donne dai fianchi larghi e dai seni prosperosi e uomini muscolosi, quasi atletici. I suoi paesaggi degli anni ’20 risentirono anche dell’influsso dei Macchiaioli: non a caso, anche Carrà, come Fattori, dipinse sul litorale maremmano ritraendo cavalli sullo sfondo delle spiagge sul Tirreno. Dal suo ritiro montano di Varallo, in Val Sesia, Carrà dipinse varie vedute dei borghi valligiani, esposte in mostra, ispirandosi ancora alle prove inglesi di Turner, ma anche, nelle gamme cromatiche all’Impressionismo.

Carlo Carrà, Il Bersaglio, 1928, Collezione Privata
Carlo Carrà, Il Bersaglio, 1928, Collezione Privata


Carlo Carrà, Vele nel porto, 1923, Firenze, Fondazione di Studi sulla Storia dell'Arte Roberto Longhi
Carlo Carrà, Vele nel porto, 1923, Firenze, Fondazione di Studi sulla Storia dell’Arte Roberto Longhi


Carlo Carrà, Nuotatori, 1932, Rovereto, MART
Carlo Carrà, Nuotatori, 1932, Rovereto, MART


Carlo Carrà, Bacino di San Marco, 1932, Milano, Galleria d'Arte Moderna
Carlo Carrà, Bacino di San Marco, 1932, Milano, Galleria d’Arte Moderna


Con gli anni ’30 e l’affermazione del potere fascista, per Carrà, considerato “vero pittore italiano” al pari degli amici Sironi, Oppi, Funi e Casorati, pur non essendosi mai schierato ufficialmente con Mussolini, arrivarono anche grandi committenze pubbliche, come quella della decorazione ad affresco di alcune sale del Palazzo di Giustizia di Milano, progettato dall’architetto ufficiale del regime, Marcello Piacentini. L’artista dipinse, sulle pareti della Corte d’Appello, una scena storica e una sacra, con Giustiniano che libera lo schiavo e Il Giudizio universale. In mostra, è possibile vedere i cartoni preparatori per questi grandi e trionfali affreschi, che andavano ad affiancarsi ai mosaici celebrativi di Sironi all’interno di quello che fu il più significativo esempio di razionalismo fascista a Milano. Lo stile di Carrà, per questa prova, risentì nuovamente dell’influenza di Giotto e Simone Martini, anche se i cartoni svelano ben altro: studi anatomici approfonditi, torsioni dinamiche e sensualità femminile che fanno pensare più a Michelangelo e a Tiziano. In questi stessi anni, Carrà iniziò ad affrontare anche il mondo dello Sport, come prova la tela del 1932, che è una delle prime raffigurazioni, nella Storia dell’Arte, di una partita di calcio, molto probabilmente della fortissima Nazionale di allora, viste le maglie azzurre.

Carlo Carrà, Estate, 1930, Milano, Museo del Novecento
Carlo Carrà, Estate, 1930, Milano, Museo del Novecento


Dopo la Seconda Guerra Mondiale, Carrà ottenne la cattedra di Pittura all’Accademia di Brera. L’ultima sezione della mostra è dedicata a questi ultimi vent’anni della sua vita, in cui riprese le lezioni del passato, pur mantenendosi sempre all’interno del recinto figurativo: di nuovo paesaggi e ritratti, tra cui spiccano le Bagnanti degli anni ’50, ancora influenzate da Renoir e da Degas, ma anche scene di vita quotidiana e Nature Morte. Proprio con una di queste, Carrà ci lasciò nel 1966: aveva appena finito di dipingerne una variante con chicchera quando morì nella sua casa milanese.

Carlo Carrà, Cinqualino, 1939, Firenze, Fondazione di Studi sulla Storia dell'Arte Roberto Longhi
Carlo Carrà, Cinqualino, 1939, Firenze, Fondazione di Studi sulla Storia dell’Arte Roberto Longhi


Concludono la mostra tre autoritratti dell’artista, eseguiti in tre diverse fasi della sua vita: spicca quello piccolissimo, custodito a Brera, in cui Carrà con la sua espressione meditabonda, ma burbera, sembra quasi salutarci.


Carlo Carrà
Palazzo Reale, Piazza Duomo 12, 20121 Milano
Orari: lunedì: 14.30 -19.30, martedì, mercoledì, venerdì e domenica: 9.30 – 19.30, giovedì e sabato: 9.30 – 22.30
Biglietti: Open 16,00 €, Intero 14,00 €, Ridotto semplice 12,00 €
Info: tel. 199.15.11.21, web mostracarra@civita.it, www.mostracarlocarra.it