3 top exhibitions al Fuorisalone 2024

I cinquant’anni del design della gioia: Cleto Munari in vetrina all’Officina Bernardi

L’officina Bernardi ospita per il cinquantesimo anniversario di carriera di Cleto Munari, le opere più celebri. Durante il suo percorso artistico il designer ha lavorato a numerosi asset realizzando gioielli, ceramiche, orologi, mobili, stilografiche. 

Dopo Palermo, Roma e Bologna, Milano è la quarta tappa di un tour celebrativo iniziato nell’ottobre 2023 che si concluderà in Italia, a Torino, e nel dicembre 2025 con le mete internazionali Dubai, Parigi, New York e Seoul.

Il progetto, che inaugura il percorso artistico di Munari, risale al 1973 e consiste in un set di posate dal design unico esibito in 82 musei tra i più importanti al mondo. Gli ultimi invece, realizzati a 92 anni, sono i vasi veronesi e il variopinto set di occhiali che testimoniano la sua poetica di “design della gioia”.

I vasi veronesi sono artefatti che riprendono la forma cinquecentesca nata a Murano, reinterpretati su modello di Munari da celebri artisti come Scarpa, Palladino, Meier. 

Il felice connubio tra le collezioni dell’Officina Bernardi e le opere del designer è testimoniato dal ruolo dei Locletoys, statuette di ceramica realizzate da Munari con il ceramista Leonardo Zanovello. 

Queste ricreano, attraverso forme e colori, le fattezze caratteristiche di personaggi immaginari, come la statuetta Afro che, sormontata da un pezzo di ceramica nero curviforme, riproduce l’ iconica capigliatura. Le silhouettes sinuose e le tonalità sgargianti di queste sculture si uniscono in maniera armoniosa con la brillante luminosità e il carattere esuberante delle collezioni di gioielli Senzatempo, Damasco, Mimosa che popolano lo spazio diafano dell’Officina Bernardi.

“Il mare dove non si tocca”, lo spazio espositivo di Antonio Marras per il Salone del Mobile

“Il mare, io non riesco a guardare a lungo il mare. Sennò tutto quello che succede a terra non mi interessa più”.  È da una forte attrazione che nasce la mostra “Il mare dove non si tocca” nella quale Antonio Marras sembra aver voluto rivestire di un alone marittimo la realtà. Perché se come pronuncia Monica Vitti in Deserto Rosso, dopo aver visto il mare, il quotidiano appare meno interessante, il rimedio migliore sembra rivestirlo di mistero.

La collezione resort 2024 dello stilista sardo è ispirata in particolare all’isola di Caprera e, gli abiti che la costituiscono, sono inseriti in un contesto che ne riprende i colori e la semantica. Le tonalità dominanti sono il blu oltremare e il bordeaux, riprese nelle stampe degli interni, con le quali Marras ha rivestito gli arredi della collezione Eva di Nodo Italia. La scenografia è popolata da manichini marinareschi e libri colorati di celeste, un clima balneare dalle sfumature oniriche. Al mare si ispirano anche le ceramiche che coprono le pareti dello spazio, una collaborazione con i leccesi Fratelli Colì, opere che ricordano le tipiche incrostazioni degli oggetti rinvenuti dopo molto tempo dai fondali.

Lo spazio Marras, allestito come un labirinto che ricorda il relitto di una nave, espone abiti bianchi realizzati con materiali di scarto grazie all’aiuto di duecento studenti dell’Accademia di Belle Arti di Napoli. Su questi capi, delle simil meduse, sono state ricamate frasi connesse al folklore e alla scaramanzia partenopei. Al centro, il Tesoro di Atlantide, una struttura in ceramica realizzata dai due brand raffigurante la leggendaria terra sommersa, la Sardegna stessa?

Per l’occasione, un ristorante gestito da Giovanni Rana, con sedute realizzate da Nodo Italia e piatti di ceramica firmati Marras, il cui set impiega finti coralli, modellini di navi d’antiquariato dell’800, quadri vintage raffiguranti vedute balneari in perfetta assonanza con l’atmosfera di tutte le aree della mostra.

Blooming Visions, il connubio uomo e natura in una villa razionalista del 1936

Un panorama inaspettato nel tessuto urbano di Milano, è offerto da via Randaccio dove una villa del 1936 attribuita a Gio Ponti, si erge in tutta la sua calma solennità razionalista. All’interno di questa antica struttura, ribattezzata Ted Suite, l’interior designer Ilaria Ferrario ospita una mostra che ha l’obiettivo di immergere l’ospite in un ambiente in cui la natura ha preso il sopravvento sul costruito.

Questa immersione è stata realizzata da Marina Malguzzi di Imagiflora e dalla fragrance designer Nuria du Chene de Vere attraverso un percorso floreale e olfattivo che richiama nei profumi la luminosità, le forme e i colori dello spazio; a inebriare gli ospiti dall’ingresso, un’essenza boschiva base di mirto.

Come contraltare agli elementi che richiamano la natura, ci sono poi le sculture in alluminio battuto a mano di Filippo Salerni e le ceramiche dello storico brand veneziano Geminiano Cozzi. Gli arredi d’epoca di Vintage Domus degli interni alternano forme sinuose ad altre più razionaliste e si armonizzano in un insolito accordo con gli esterni della terrazza. Realizzati dal brand di outdoor Jwana Hamdan, hanno unito estetica e matericità come per il tavolo Alì , struttura in alluminio e piano in pietra lavica; le sedie Aliya rivestite con le stampe floreali dell’americana Tricia Paoluccio.

Al piano inferiore un dittongo uomo-natura; quattro opere realizzate dall’artista Irene Coccoli, anime di poltrone Vintage Domus ricreano habitat autonomi; l’artista utilizza materiali di recupero per interpretare i 4 elementi naturali.
Gli scheletri delle sedie nude del novecento, in opposizione all’opulenza artistica, sottolineano il valore dell’intervento umano sulla materia.
E’ mostrato su maxi schermo un video realizzato da Martina Rella dove le foto delle poltrone vengono impiegate dall’AI nel generare pattern per la creazione di immagini con mobili inediti, veri oggetti di arte digitale.

Da Ted Suite, la stanza circolare, ex sala da pranzo della villa, ha mura rivestite da una carta da parati dorata che si illumina riflettendo la luce da una grande finestra. Per fermarsi a cogliere la bellezza dell’ambiente e godersi i raggi di luce ci si può accomodare sul divano circolare firmato Vintage Domus e respirare il profumo evocativo di Blooming Visions, un’essenza creata da Nuria du Chene de Vere mixando 42 diverse essenze.

Giovani e liberi attraverso gli occhi di Pierpaolo Piccioli: dopo 25 anni il designer lascia la maison Valentino

Giovani e liberi attraverso gli occhi di Pierpaolo Piccioli: dopo 25 anni il designer lascia la maison Valentino

Dopo circa 25 anni di collaborazione, Pier Paolo Piccioli lascia la maison Valentino.  Un’esperienza iniziata nel 1999 quando il designer è approdato alla casa di moda fondata da Valentino Garavani e Giancarlo Giammetti. Inizialmente con l’incarico di realizzare la linea gioielli, passa poi alla direzione creativa del brand, prima in coppia con Maria Grazia Chiuri e infine nel 2008 da solista. Il contatto prolungato con l’artigianato italiano di questo lungo excursus gli ha permesso di apprendere quel ‘savoir faire che è alla base del mestiere di un designer’.

Pierpaolo Piccioli

Carattere poco avvezzo ai lati commerciali del settore, ritiene che ‘non si ha bisogno di nuovi oggetti, ma di sogni ed emozioni‘. Nel momento in cui scopre attraverso i grandi fotografi, come David Bailey, il potere narrativo della moda, decide di voler intraprendere la carriera come designer. La capacità che apprezza maggiormente di questi artisti è quella di saper raccontare le persone e coglierne la bellezza, ‘che non risiede negli attributi fisici ma in una grazia intrinseca‘. La realizzazione della sua prima collezione infatti non parte da un’idea di vestito, ma di bellezza. E il contrasto è palese visto che la moda è effimera mentre la bellezza è eterna.

Ma è la tensione del contrasto stesso, come nei due poli opposti di una pila, a creare l’energia che rende accattivanti le sua creazioni. La stessa tensione che si manifesta ad esempio nel dover conciliare il suo motto no rules is my rule con la tradizione ben consolidata della maison. In quest’ultimo caso Piccioli risolve l’apparente paradosso sostenendo che ‘non esiste innovazione senza conoscenza del passato e il limite stesso dà la possibilità di pensare a come superarlo‘.

La tendenza alla sovversione di un sistema consolidato, utilizzando la tradizione stessa, emerge da alcune delle sue collezioni più iconiche. E nel processo di cambiamento ritiene particolarmente fertili i momenti di transizione, quando menti libere possono dire qualcosa di nuovo e ‘mostrare il sentiero del futuro‘. Una delle collezioni manifesto di questa poetica della transizione come periodo di fertilità è la sua prima sfilata in solo per la la ss2017. 

In quell’occasione Piccioli unì all’arte rinascimentale le stampe fatte a mano della stilista Zandra Rodhes. È con quest’ultima infatti che sono stati realizzati gli abiti diafani con temi che richiamavano l’opera di Hieronymus Bosch The Garden of Earthly Delights. 

Un’altra sfida abbracciata dal designer è stata inoltre quella di modellare il significato che solitamente viene attribuito ai colori. ‘I colori sono in definitiva parte del messaggio che vuoi trasmettere‘, e in una sua celebre collezione ha voluto stravolgere in particolare il significato del pink. La fall-winter 2022-23 ha infatti reso il colore signature del brand con la collaborazione di Pantone: nasce così il PP Pink, un rosa super saturo che poco ha dei tratti dolci e femminili attribuiti solitamente a questa tonalità.

La stessa carica innovativa caratterizza la sfilata Black Tie, applicata ad un classico indumento corporate maschile. L’idea della sfilata gli è arrivata guardando la figlia quindicenne scegliere una cravatta dal suo armadio per un outfit serale, rimodellando inconsapevolmente il significato dell’accessorio. La cravatta così diventa simbolo della creatività individuale e non più del potere costrittivo maschile, un modo con il quale fare emergere la propria personalità.

È con collezioni come queste che Piccioli si è aggiudicato premi come il Designer of the Year nel 2022 ed è stato inserito dal Time tra le cento persone più influenti al mondo. Ma soprattuto ha creato un immaginario che ci ha regalato la sua visione, i suoi occhi, per ‘guardarci come lui ci vede’ e come egli stesso si sente, giovane e libero.

Oltre il design: l’eredità di Gaetano Pesce nell’arte e architettura contemporanea

Oltre il design: l’eredità di Gaetano Pesce nell’arte e nell’architettura contemporanea

All’età di 84 anni ci lascia Gaetano Pesce. Designer, architetto, scultore, urbanista, una personalità difficilmente inquadrabile in categorie rigide, che ha fatto proprio dell’elisione delle barriere una sua marca identitaria.

Di madre veneziana e padre fiorentino, Pesce studia Architettura all’università di Venezia alla fine degli anni ’50, in pieno periodo modernista. Alimentato da forte curiosità, è stato un ricercatore di novità costante, che ha deciso di esprimersi solo qualora possedesse un messaggio da veicolare, poiché, come egli stesso ha dichiarato,quando si parla troppo il rischio è quello di ripetersi”. 

Ha dimostrato grande capacità visionaria con la realizzazione di strutture come la maestosa Organic Building ad Osaka, ultimata nel 1993, precorritrice dell’architettura eco-compatibile. Come quest’ultima, in generale le sue opere trasmettono un forte valore simbolico e narrativo. Infatti Pesce “non accetta che un oggetto sia muto”, ma ha bisogno che questo parli alla gente. Un oggetto può essere la sua funzione e allo stesso tempo esprimere una posizione ideologica. E questa carica comunicativa è ciò che ha animato le sue idee architettoniche e di design, in tutto il suo percorso.

È esempio di un creare che veicola messaggi, oltre a funzioni, la Bahia House in Brasile: essa racchiude nel suo aspetto le istanze della cultura del luogo in cui è immersa, “una cultura legata al colore, alla danza, al canto”; o la famosa poltrona Up5, realizzata nel 1969, chiamata anche Big Mama e ispirata ad una antica dea della fertilità: assieme ad essa è stato realizzato un poggiapiedi a cui è legata con una catena, simbolo dell’oppressione riservata alla donna nei secoli.

L’importanza dell’innovazione nell’arte è una colonna portante della concezione creativa di Pesce. Egli sosteneva che un grande problema dell’istruzione odierna è che “gli insegnanti educano in base a ciò che hanno imparato quando erano giovani” ignorando ciò che conta nel presente per il futuro. E il futuro “è fatto di diversità. Non a caso Pesce ha vissuto per buona parte della sua vita a New York: questa per lui è una città “fatta di frammenti”, priva di ripetizioni anche nei suoi abitanti, costituiti principalmente da minoranze. Questo amalgama eterogeneo è secondo lui essenziale per comprendere il nostro tempo.

A tal proposito confessa che il suo lavoro consiste proprio “nell’ intuire quello che il tempo sta comunicando oggi e cercare di trasmetterlo attraverso le sue creazioni”. E quello che i nostri giorni ci stanno insegnando è la liquiditàdi un periodo in cui i valori scompaiono e ci si trova a cambiare idea sul mondo quanto mai rapidamente. 

Seppur disorientante “è proprio questa fluidità a costituire la bellezza del nostro presente”, perché una vita statica è orribile, è come morire prima del tempo” e “e se rivivi ogni giorno lo stesso giorno, allora hai vissuto un solo giorno”. 

I suoi lavori sono stati esposti nei maggiori musei di tutto il mondo, dal Louvre di Parigi al Moma di New York in  mostre con le quali ha cercato “un nuovo modo di esporre, un nuovo modo di provocare e suscitare emozioni, perché sono le emozioni che ci aprono verso la novità”. Quello di Gaetano Pesce è stato, ed è, un lavoro ottimistico che cerca per l’avvenire “qualcosa di migliore, di più buono, di più vitale”.

Chanel FW 2024-25: omaggio a Claude Lelouch e alla storia iconica della maison

Chanel FW 2024-25: omaggio a Claude Lelouch e alla storia iconica della maison

Già dalla colonna sonora, che riprende la musica di Pierre Barouh, si evince che l’advertising della Fall-Winter 2024-25 di Chanel è ispirato esplicitamente al film Un uomo e una donna del regista francese Claude Lelouch. In particolare è ripresa una delle scene finali (quella della cena), il viaggio in macchina, e le riprese di una serena spiaggia a Deauville

L’atmosfera in cui i due protagonisti sono immersi è infatti proprio quella della cittadina costiera normanna, cara alla maison poiché proprio lì nel 1913 Gabrielle Chanel inaugurò la sua prima boutique di moda, affascinata dal clima bucolico di quel luogo.

Possiamo notare come, attraverso un gioco di richiami, la scena dell’appuntamento dei due amanti, interpretati da Brad Pitt e Penelope Cruz, ben si presta all’esposizione della celebre Flap bag, dal momento che anche nel film, in primo piano, sul tavolo è esposta una borsa nera di forma analoga. 

Le inquadrature del paesaggio balneare che intervallano il dialogo tra i due protagonisti, inoltre, richiamano il legame di Chanel con il mare. È proprio negli anni di Deauville infatti che nasce la marinière, l’iconica maglia a righe orizzontali bianche e blu ispirata a quella dei marinai ed emblema dell’inconfondibile stile chic balneare ideato dalla stilista francese.

In un clima di erotismo raffinato, che ben si addice all’immaginario di Chanel, il cortometraggio aggiunge all’eleganza quel tocco di seduzione emblematico della maison.È in questa danza di allusioni ed eleganza che ad uno Chateaubriand mediamente cotto si sovrappone la calda passione dei corpi a cui si allude nel finale.

I 10 capi iconici della moda – must have del guardaroba

I 10 capi iconici della moda – must have del guardaroba

Trench Burberry

Burberry nel 1910 inizia a produrre usando il gabardine, il trench coat che verrà indossato dagli ufficiali britannici durante la prima guerra mondiale (il termine trench richiama appunto le trincee).

Inizialmente era prodotto in unico colore, il khaki, con una trama a quadri scozzese e una cintura con fibbia a D che fungeva da portaoggetti. Successivamente è stato riadattato per le masse e il suo modello midi con cintura che segna il punto vita è diventata la variante più celebre del brand.

Slip dress Calvin Klein

Reso iconico negli anni ’90 da Kate Moss, trasferito sulle passerelle da contesti di intimità, è l’erede del classico tubino nero. Versatile e sensuale lo slip dress è praticamente una sottoveste diventata capo cult dello stile nineties.

Minigonna Mary Quant

Nel 1945 la stilista londinese Mary Quant realizza un capo assurto a simbolo della liberazione femminile, la minigonna. Già da fine ’800 l’accorciamento degli abiti era diventato emblema del movimento femminista quando la suffragetta Hubertine Auclert fondò la Lega per le gonne corte, ma sarà soprattutto durante gli anni ’60, con i movimenti di protesta giovanili, che la minigonna diventò un capo celeberrimo.

Abito Rosso Valentino

Ispirato da un viaggio a Barcellona, lo stilista italiano Valentino Garavani, decise di realizzare un vestito di una tonalità di rosso particolarmente accesa, che sarebbe diventato icona di femminilità e sensualità per eccellenza.

Smoking Tuxedo Yves Saint Laurent

Introdotto nel 1966, grazie alla scollatura vertiginosa, lo smoking tuxedo era il primo capo che permetteva alle donne di avere un taglio maschile, conservando però la propria sensualità.

La sua invenzione costituisce un atto rivoluzionario che permetteva anche al gentil sesso di indossare uno smoking per qualsiasi evento mondano. E per consacrare questo abito Yves Saint Laurent lo fece indossare nel ’67 ad una celebrità del calibro di Catherine Deneuve.

Tubino nero Givenchy

Il little black dress viene disegnato da Hubert de Givenchy e reso celebre dalla sua musa Audrey Hepburn che lo indossa nel film Colazione da Tiffany del 1961. Si tratta di un abito senza tempo dal taglio basico, senza maniche, che scende fino al ginocchio in modo sensuale ed elegante. Col tempo ha conosciuto diverse varianti senza smettere però di essere perfettamente riconoscibile.

Tailleur Chanel

Quando fu presentato per la prima volta nel 1923, il twin set in tweed non riscontrò il successo sperato da Coco Chanel. Fu solo dopo la seconda guerra mondiale, con i cambiamenti sociali che portano le donne sempre più all’interno del mondo del lavoro, che il tailleur ottiene enormi attenzioni e conosce un successo che continua ancora oggi. È un capo infatti fortemente legato alle mutazioni storiche del periodo, e in particolare a quelle riguardanti i ruoli di genere, offrendo l’immagine di una donna libera e in grado di autodeterminarsi.

Tacchi alti Louboutin

Partendo da delle Pigalle nere a punta con tacco 12, Loubutin ne avrebbe colorato la suola utilizzando lo smalto rosso di una sua assistente. Da quel momento nacquero le decollette diventate simbolo di desiderio e seduzione per antonomasia.

Power Suite Giorgio Armani

Vestendo Richard Gere per il film American Gigolò nel 1980, Armani rivelò il suo talento decostruttivo al mondo. Infatti gli abiti realizzati per quell’occasione, e già presentati in sfilata durante gli anni ’70, non avevano traccia della rigidità tipica di quelli comunemente utilizzati dagli uomini del periodo. 

Abito di maglia Missoni

Dopo aver introdotto un concetto di maglieria nuovo, utilizzando inedite fantasie folgoranti, nel 1969 Missoni realizza il suo abito in maglia. Si tratta di una novità policromatica, pensata per essere pratico e confortevole, adatta ad una donna moderna e attiva.

Oltre i Limiti: La Vita e l’Arte di Juergen Teller in “I Need to Live”

Oltre i Limiti: La Vita e l’Arte di Juergen Teller in “I Need to Live”

Il titolo della mostra fotografica I need to live racchiude in modo icastico molta della poetica di Juergen Teller, che attinge linfa vitale da un viscerale senso di trasgressione. In un’intervista per Vanity Fair il fotografo racconta infatti di averlo ricavato da una discussione con la moglie Dovile, la quale gli aveva fatto notare la stupidità di fumare durante un periodo influenzale. Alle prediche della donna aveva infatti replicato proprio “I need to live”.

Evidente la trasgressione di un realismo che rispetta un’estetica dell’understatement, la quale conferisce valore artistico anche a quegli aspetti della realtà considerati più bassi e deprezzabili. Tra i tanti esempi offerti dalla mostra il più emblematico è il video trasmesso su maxi schermo, nel quale il fotografo defeca nei pressi del circolo polare artico, aiutato dall’attore svedese Alexander Skarsgård.

E come in questa stravagante ripresa, spesso è sfumato il confine che separa la vita personale dalle opere del fotografo tedesco. È il caso della grande fotografia nella quale è nudo mentre beve birra sulla tomba del padre, o quella di sua figlia neonata, Iggy, che indossa una tutina con la stampa del dito medio dell’omonimo cantante.

Spesso, infatti, a rendere la realtà quotidiana degna di interesse fotografata, sono accostamenti dal sapore surreale, che in modo folgorante rivelano una verità all’osservatore che sa coglierla. Ciò accade ad esempio nella foto scattata al Louvre, raffigurante l’attrice Charlotte Rampling e la modella Raquel Zimmermann  davanti alla Gioconda: in questo caso è immediato come un corpo senza veli (che può essere il corpo di chiunque) attiri la nostra attenzione prima di una delle opere più importanti della storia dell’arte. O ancora, è straniante l’atmosfera generata dalla serie fotografica di un ammasso di crocifissi e figurine sacre, che rivela la dimensione consumistica e obsolescente degli oggetti, anche quelli ai quali viene attribuito un valore sacro. 

La nudità è al centro dell’attenzione in buona parte della mostra, ed egli stesso se ne fa portavoce in più di un ritratto, come quello in cui è sdraiato di fianco, su un materasso, con dei palloncini in mano. E ad essere immortalate nude non sono solo modelle come Kate Moss, ma anche qui il realismo irrompe, presentandoci, senza veli, una Vivienne Westwood non più giovane, che posa come nella scena del ritratto in Titanic

Questa voglia di spogliarsi e rivelare, unita alla ridefinizione di ciò che è degno di essere soggetto di uno scatto, racchiude la volontà di mettere in discussione le convenzioni per creare liberamente. Juergen Teller infatti, attraverso questi atti di libertà, stabilisce ciò che è rilevante per i propri occhi, aldilà di ciò che dovrebbe esserlo, spinto da un prorompente need of life..

Un tributo a Dries van Noten: maestro della moda avant-gard annuncia il ritiro

La mattina del 19 marzo, dopo una carriera di quattro decadi, lo stilista belga Dries van Noten annuncia il suo ritiro come direttore creativo del proprio brand. Infatti quella che sfilerà a Parigi per la ss25 menswear di giugno, sarà la sua ultima collezione. In suo onore ripercorriamo i tratti salienti del percorso artistico e lavorativo di una delle personalità più influenti del mondo della moda avant-gard.

Distintosi come uno dei Sei di Anversa assieme a designer del calibro di Ann Demeulemeester, van Noten dichiara di trarre ispirazione dovunque: da un fiore, un odore, una poesia, un film. E durante la sua carriera lo ha dimostrato attraverso le sue collezioni, che meravigliano per la varietà ed eccletticità delle references. Non a caso nel 2014 è stato uno dei pochi stilisti viventi ad essere esposto nel Musée des Arts Decoratifs di Parigi con una mostra intitolata Inspirations.

È un esempio di questa ricettività poliedrica la Grunge collection (ss 2013), che parte dallo stile tipico di questo genere musicale, come quello dell’iconico vestito floreale indossato da Kurt Cobain ad Amherst nel 1990, per unirsi con le tonalità e colori dei quadri del pittore britannico Lucien Freud.

D’altronde il designer di Anversa ha avuto un legame prediletto con la pittura sin da piccolo. Infatti suo nonno, oltre che sarto, è stato un collezionista d’arte. Questa passione si esprime ad esempio con i capi ispirati ai quadri dell’artista Francis Bacon, realizzati per la fall-winter 2009. Egli stesso ha affermato come non volesse ricreare l’arte del pittore irlandese, ma travasare nei propri lavori le emozioni provate guardando le sue tele. 

Attraverso l’uso di colori e stampe estrosi, unite all’eleganza delle silhouette sartoriali, van Noten  è riuscito a creare un proprio stile iconico che si potrebbe definire avant-gard opulento.

Amante dell’esotico e della contaminazione degli stili, evidenzia quanto sia importante la conoscenza del passato e del diverso, dai quali estrarre le connessioni per realizzare ciò che l’arte gli permette di intuire. E in questo processo creativo assume un ruolo fondamentale l’apprendimento dell’artista. Infatti egli stesso ha dichiarato che ‘Nel momento stesso in cui smetto di imparare qualcosa, allora è meglio che mi fermi, perché la paura più grande che ho è di essere sistematico.’

Dries van Noten ha dimostrato di saper bilanciare gli aspetti più cerebrali della sua personalità con una lucida concretezza: formatosi alla Royal Academy of Fine Arts di Londra e avendo lavorato nella boutique del padre ad Anversa, afferma di non voler vivere nel passato, che pure tanto ama, e di realizzare vestiti per il futuro che non siano solo arte, ma che possano essere acquistati e indossati. 

A proposito di questa concretezza, si è sempre rifiutato di realizzare collezioni haute couture che non potesse vedere esposte nei negozi. Limitatosi ad organizzare quattro sfilate l’anno, van Noten ha sostenuto la necessità di rallentare i ritmi forsennati delle fashion week, rivelandosi anche attento alle tematiche ambientali. Egli stesso ha affermato ‘che la moda è ormai morta, e che in realtà sia un bene perché è di moda ciò che dopo solo sei mesi non lo è più’.

Inoltre, nonostante suoi collaboratori, come il sound director Michel Gaubert, vantino non a torto, il suo spirito di indipendenza, van Noten nel 2018 ha ceduto il suo brand al gruppo spagnolo Puig, rimanendone però direttore creativo e investitore minore. In questo modo ha potuto dedicarsi ad altre passioni nella sua residenza ottocentesca nei pressi di Anversa e, allo stesso tempo, preservare la stabilità economica dei propri dipendenti.

(foto copertina via @Pinterest)

DISOBBEDIENZA alla nuova edizione di “Identità Golose”

Il tema della 19a edizione di Identità Golose a Milano è l’idea dell’innovazione derivata dalla disobbedienza. E di fatto l’aria di novità che si respira all’interno della fiera riguarda numerosi aspetti del settore gastronomico.

Lo spirito innovativo emerge dagli accostamenti desueti offerti dallo chef Thomas Turchi di Divine Creazioni. Questi infatti rovescia su un raviolo alla carbonara del caffè con panna, o racchiude in un semifreddo alla pera uno scrigno alla cacio e pepe. Oppure l’atteggiamento disobbediente si manifesta in una comunicazione trivial-pop come quella del Forno Brisa di Bologna, che scrive sulle bags “Fanciullo la dieta” oppure “Legalize Marinara”. 

D’altronde alcuni giovani hanno dimostrato di avere una lettura lucida riguardante la reputazione attuale della cucina italiana. A tal proposito è interessante l’opinione di Lorenzo, 25 anni, che lavora con la propria famiglia nel Caseificio Gennari di Collecchio in provincia di Parma. Dopo aver vissuto un’esperienza in Francia, il settore della ristorazione parigino possiede “un’ottima capacità di presentarsi, ma poca sostanza.” Mentre quello italiano è esattamente il contrario. Tuttavia sostiene che “negli ambienti di lusso l’eccessiva formalità non è ciò il cliente va cercando oggi. La gente non va fuori per mangiare ma per vivere un’esperienza piacevole. E anche il turista medio cerca la sostanza italiana e il sorriso.”

Anche la volontà di sottrarsi in modo indisciplinato agli standard qualitativi della produzione è stato un leitmotiv della fiera. Ad esempio il Caseificio Sorì, con sede a Roccamonfina in provincia di Caserta, produce personalmente il proprio lievito madre e prodotti caseari per realizzare pizze dalla straordinaria leggerezza. O ancora l’organizzazione pugliese Spirito Contadino, Valore alla Terra, con il lavoro di contadini autoctoni, produce verdure benefiche certificate per piatti di eccellente pregio nutrizionale ed etico.

Oltre ad interrogare e visitare gli stand, c’è stata l’occasione di partecipare agli eventi pomeridiani intitolati Identità Vegetali e realizzati in collaborazione con Velier, la tradizionale azienda genovese di importazione di vini e liquori che ha come portavoce il Mixology Manager Angelo Canessa. In questa serie di conferenze, i grandi chef dei ristoranti stellati si sono raccontati sottolineando in cosa consistesse la loro disobbedienza culinaria, e preparando per il pubblico assaggi di alcuni piatti dei loro menù.

A tal proposito il ristorante Saporium di Borgo San Pietro in Toscana, con il team del suo executive chef Ariel Hagen, ha illustrato la propria realtà, della quale il ristorante è solo una piccola parte. Infatti a Saporium fanno capo orti, pollai, stalle, cioccolaterie, un laboratorio di fermentazione e centoventi ettari di coltivazione, dei quali undici di agricoltura biologica. Lo chef afferma di seguire il più possibile il principio del biologico, che consiste nel rispettare l’ambiente anziché manipolarlo. Il menù La stagione che non c’è di Saporium si basa su dieci portate che variano a seconda del periodo dell’anno. Esiste infatti una progettazione del raccolto e dei piatti, ma che risponde alle condizioni climatiche e ai ritmi della natura. 

Uno dei tre assaggi preparati per Identità Vegetali ha come ingrediente principale delle lumachine. Per la preparazione è stata disposta alla base una crema di bieta che conferisse mineralità, vino bianco a crudo per un tocco di acidità, trifoglio, acetosa, sanguigna, olio al prezzemolo, all’erba cipollina, e punte di menta. Accompagna il piatto una bevanda a base di mela, sambuco e melissa.

Dopo Saporium di Borgo San Pietro, è stato ospite il team del pugliese Michele Cobuzzi, resident chef del ristorante Anima dell’Hotel Milano Verticale. In uno dei due piatti proposti, questi ha ripreso la tradizione della propria terra natale preparando un raviolo di pasta di panzerotto fritto riutilizzando gli avanzi delle materie prime. Infatti l’interno del raviolo è a base di verza e soffritto di scarti vegetali. La pasta di panzerotto inoltre proviene dal mulino Casillo che riesce a conservare il germe di grano, la parte più preziosa del chicco, con proprietà antiossidanti. Questa è stata per molto tempo scartata poiché difficile da conservare, ma il mulino Casillo è riuscito a recuperarla donando vantaggi ai professionisti del settore e ai consumatori.

Come accompagnamento a questo piatto, Angelo Canessa di Velier, ha proposto il rum Clairin, prodotto ad Haiti usando puro succo di canna da zucchero della varietà Hawaii con aggiunta di erbe locali, tra le quali anice e citronella.

Per l’ultimo appuntamento del pomeriggio è stata ospite l’Enoteca Pinchiorri, sita a Firenze, che ha raccontato i piatti del menù Terra Madre. Questo si basa su ciò che si può tirare fuori dalla terra rispettando le condizioni ambientali. Il piatto preparato dai due chef Riccardo Monco e Alessandro Della Tommasina è stato un brillante accostamento di lumachine di semola di grano di duro con succo di rabarbaro. In questo modo la parte dolce della pasta viene contrastata da quella acida del succo. Viene aggiunto poi del gelato di cavolo viola fermentato, e gocce di pino marittimo per una nota balsamica. Non avendo la pasta alcun condimento, il gelato funge così da salsa.

Come accompagnamento, Angelo Canessa, ha proposto un Dry Martini composto dal gin italiano biologico piemontese Engine che riprende l’acidità del rabarbaro e da un vermouth secco Vergano in assonanza con la parte botanica del vino.

E’ intervenuto anche Alessandro Tomberli, maître e direttore di sala, spiegando di non avere la pretesa di fornire degli abbinamenti perfetti o di dettare le regole del mangiare o bere bene, piuttosto seguire i gusti e le esigenze del cliente, seppur vegetariano, che desidera abbinare un classico rosso a delle verdure, anziché seguire delle regole non scritte sull’accostamento delle carne.  Inoltre attraverso un suggestivo viaggio immaginario dalle Azzorre all’Argentina, e dal Sud Africa al Cile ha descritto alcuni dei vini più caratteristici della selezionatissima e rifornitissima cantina dell’Enoteca Pinchiorri.

Tra vita e immaginario: il santuario creativo di Rick Owens a Concordia sulla Secchia

Tra vita e immaginario: il santuario creativo di Rick Owens a Concordia sulla Secchia

In un’intervista rilasciata per Vogue Grecia, il designer americano Rick Owens ha sostenuto che il suo obiettivo in quanto artista fosse quello di esprimersi attraverso creazioni che possedessero una componente narrativa e poetica, in grado di invadere lo spazio attraverso l’esagerazione.

Nelle sue collezioni questo spirito di magnificenza ed eccesso si manifesta attraverso l’alterazione e deformazione delle fisionomie dei suoi capi, e nelle location solenni che richiamano templi classici. L’immaginario del designer americano però non si riconosce solo nel suo brand, ma sembra essere un’ aura che pervade più aspetti della sua vita. Egli stesso ha affermato di credere nell’invenzione del proprio sé più che nel potere ineluttabile del destino, ed è con il suo stile di vita che ha inventato la propria estetica personale distintiva, immergendovisi.

Di questo immaginario ben definito e riconoscibile che esula dal mondo della moda, è testimonianza l’abitazione nel comune italiano di Concordia sulla Secchia in Emilia-Romagna. La struttura si trova accanto alla fabbrica del brand Rick Owens ed è considerata dal designer il luogo prediletto per la creazione delle sue collezioni. A testimonianza di ambiente riservato alla creatività, si può citare la presenza di una stanza con pareti di marmo travertino realizzata sul modello di una caverna, quasi a ricreare l’archetipo di un utero materno dal quale partorire nuove idee.

Oltre ad essere dedicato a momenti di creatività, l’abitazione è anche associata a periodi di disciplina e allenamento. Se in un senso pratico ciò è testimoniato dalla presenza di una grande palestra che occupa buona parte dell’appartamento, il minimalismo generale con l’assenza quasi totale di decorazioni riporta il valore ideale di questa severità. Rick Owens stesso si definisce più un eliminatore che un collezionista. La sua intenzione è ricreare un ambiente monastico utilizzando alcuni elementi distintivi come le rigide sedie di legno realizzate dall’artista futurista Giacomo Balla che ricordano, usando le parole del designer stesso, i banchi di una chiesa.

Rick Owens vive per periodi intermittenti in questa abitazione da circa vent’anni, eppure sostiene di non aver mai voluto far ridipingere i banchi del suo ufficio per conservare un senso di memoria, attraverso segni di matite sui tavoli, o piante lasciate crescere selvaggiamente sulla veranda.

Questo richiamo a realtà passate è alla base della sua estetica, che egli stesso definisce retro-futuristica e che combina materiali atavici con forme contemporanee, della quale sono emblema i vasi geometrici di bronzo e cristalli di roccia.

Accanto all’attrazione per il passato, è inoltre pervasiva la presenza della morte. A questo proposito il designer dichiara di essere stato affascinato dalle salme presenti nelle chiese italiane. Egli stesso possiede un teschio umano esposto all’interno della casa e acquistato all’asta, che funge da memento mori, promemoria della vacua vanità.

Legato alla morte e alla memoria, un sarcofago chiamato Liza è sicuramente quello che il designer definisce il suo oggetto preferito. Egli racconta come lo abbia scelto in particolare poiché diverso dalla maggioranza dei sarcofagi, che generalmente sono colorati e non riportano i segni del tempo.

La presenza del sarcofago richiama un altro tema frequente nella sua estetica, ovvero quello dell’esotismo. Emblematica è la collezione di piume di galli Onogadori, allevati nel diciasettesimo secolo in Giappone, posizionata su di una parete dell’ ufficio, e che aumenta tramite acquisti e contatti con fattorie nipponiche. 

In un’intervista tenuta dalla giornalista Sofia Tchklonia, Rick Owens ha dichiarato che “l’indifferenza è un forte elemento di seduzione“. Un’indifferenza intesa come essere flamboyant rifiutando però la bellezza classica. A tal proposito dichiara che il “voler attirare l’attenzione può essere una forma di aggressività o di gioco” e che lui nel processo creativo intende comprendere entrambi questi aspetti. Infatti se molti degli oggetti citati possono facilmente apparire sinistri e in un certo senso aggressivi nella loro esuberanza, comprendono allo stesso tempo la dimensione giocosa del processo creativo, che consiste nell’invenzione del proprio sé e del suo immaginario, come fosse esso stesso un’opera d’arte.



(fonti immagini Tumblr, 10magazine, Pinterest, foto cover J.Teller)