Novak Djokovic, quando il poker è servito

Parigi-Bercy (600° vittoria nel circuito ATP), Indian Wells, Miami e Montecarlo: Novak Djokovic cala un fantastico poker di Masters 1000 e mette nel mirino il Roland Garros. Limiti, trionfi e soprattutto record sono pronti ad essere frantumati. Avvio al fulmicotone per il tennista serbo numero 1 nel ranking mondiale detentore del primo Slam stagionale, gli Australian Open: questo 2015 si annuncia essere l’apogeo di un atleta che sta vivendo un periodo d’oro.

 

Periodo, tuttavia, contrassegnato dalla pochezza degli avversari. Rafa Nadal è stato schiantato con un perentorio 6-3, 6-3 nella semifinale di Montecarlo. Per il mancino di Manacor la condizione ottimale è ancora ben lontana. I vari Federer (sconfitta a Dubai unico neo per Nole), Berdych, Wawrinka e Murray non sembrano poter impensierire il Djoker sempre più leader non solo sul congeniale cemento ma anche sul rosso. Coriacei, quanto mai vero, ma logorati dal suo gioco.

 

Manca il Roland Garros in bacheca e l’occasione – comunque ripetibile – propizia potrebbe avverarsi proprio quest’anno. I tifosi di uno dei tennisti atleticamente e soprattutto mentalmente più forti degli ultimi 20 anni incrociano le dita. Il Career Grand Slam è a portata ma quando si tratta di poker bisogna puntare pensare, giocare da vero gambler.

 

Niente bluff da Djokovic ma continui rilanci: non sembra essere tipo che “folda” negli appuntamenti decisivi. L’abbuffata è appena iniziata e la pietanza più prelibata potrebbe essere servita con tanto di champagne al Court Philippe Chatrier. Mancini permettendo.

SARÀ HILLARY L’AMERICA DOPO OBAMA?

Nel lungo – per molti critici troppo lungo – passato politico di Hillary Rodham Clinton ci sono stati molti momenti difficili. A cominciare dall’essere transitata in gioventù nelle fila repubblicane addirittura come una fan e un’attivista di Barry Goldwater, probabilmente il più reazionario di tutti i candidati repubblicani sulla scena politica americana. Crescendo é diventata un brillante avvocato, si è sposata con Bill governatore dell’Arkansas e ha dovuto affrontare scandali devastanti. Donna di grande intelligenza e carattere, dotata di eccezionali capacità professionali e un’ambizione smisurata si è trovata al centro prima di un intrigo d’affari, di potere e di morte (il suicidio di un suo socio e collaboratore), poi dello scandalo provocato dall’avventura del marito presidente con una stagista della Casa Bianca. In entrambi i casi seppe reggere e governare la furia degli eventi esuperare l’umiliazione pubblica ricominciando da capo e risorgendo al successo. Senatrice di New York e poi segretario di Stato negli ultimi anni si accinge ora a competere per la Presidenza. Ha alle spalle vent’anni di scena pubblica e politica e appare come il personaggio politico più esperto e più accreditato, una democratica sostanzialmente non molto diversa da un repubblicano moderato, una donna determinata come un uomo molto determinato.

Tuttavia non credo che la sua campagna sarà una passeggiata e non solo per la presenza in queste elezioni della più estremista delle correnti conservatrici, quei tea-party della destra americana che non le daranno tregua sfruttando ogni ombra del passato e ogni umana debolezza passata, presente o proiettabile nel futuro di un presidente.

Per la sinistra del suo partito Hillary è troppo legata all’establishment economico, mediatico, di potere; per i repubblicani non solo è l’ex first Lady del fortunato e scandaloso Bill, ma soprattutto la prima autrice della odiata riforma sanitariapubblica che solo Obama riuscirà a portare a un controverso risultato.

Già, quell’Obama che la sconfisse e che per riunire il partito le offrì – volente o nolente – la Segretaria di Stato, l’equivalente americano del nostro Ministero degli Esteri. Come atteggiarsi con l’eredità di Obama? Se Hillary prende troppo le distanze da un presidente amato e respinto rischia di allontanare i suoi seguaci e i suoi ammiratori che hanno vinto nel 2008 e nel 2012 rinnovando la costituency democratica, la sua base elettorale con una coalizione fatta di neri, ispanici, donne, poveri, gay mobilitata a un sostegno elettorale attivo e a una impressionante raccolta fondi via Internet che sbaragliò le ricche donazioni dei milionari repubblicani. Se, viceversa, Hillary sarà troppo coerente e in continuità con Obama ne erediterà anche l’immagine d’incertezza e, a detta dei suoi nemici, di ritirata dai fronti caldi e di rassegnato pacifismo in politica estera. Sul piano economico viceversa i successi di Obama segnano una strada utile e percorribile anche per Hillary se Hillary vorrà mantenerla.

Tradizionalmente, negli USA, nessun partito ha mai conquistato un terzo mandato presidenziale consecutivo, ma c’è sempre una prima volta e, sempre, a fare la differenza in uno scontro diretto è la personalità dei candidati.

Hillary e il suo staff sono certamente consapevoli di tutti questi fattori e condizionamenti e opportunità divergenti. Aver deciso di annunciare la candidatura non con un big event politico e spettacolare con le grandi personalità democratiche e un corteo di stars holliwoodiane, ma con un umile annuncio su YouTube è già una scelta caratterizzante: il mezzo è il messaggio e usare YouTube significa scegliere al posto delle grandi catene televisive la forma di contatto e di comunicazione più umile, più semplice e più diretta, più individuale e più di massa. Mi sembra un buon inizio proprio perché contro corrente rispetto allo stile dei Clinton un po’ troppo provinciali, un po’ troppo benestanti, un po’ troppo piacioni. Allora chi o cosa, al netto di candidati competitivi che ancora non ci sono, potrà insidiarla davvero?

“Guardatela, è brutta e vecchia, mica possiamo passare i prossimi quattro anni a guardare le sue rughe che si infittiscono e scavano solchi sempre più profondi sul suo viso”.

Fu l’ultimo argomento, nel 2007, della propaganda repubblicana contro Hillary Clinton, prima donna candidata alle primarie democratiche per conquistare la presidenza degli Stati Uniti d’America. L’argomento della giovinezza e dell’avvenenza che se ne vanno fu usato da un giornalista mediocre e fazioso commentando una foto impietosa della ex first Lady colta al termine di una massacrante giornata di campagna elettorale, quando lo sfinimento ti rifà i connotati. Oltretutto un argomento così subdolo può essere efficace solo se rimane non detto, subliminale. Diversamente, se lo si urla, se si infierisce, se si strumentalizza un attimo di défaillance fisica ed estetica si ottiene l’effetto contrario. Come chi si accanisse su un portatore di handicap finirebbe col suscitare una reazione indignata contro se stesso e un sentimento di compassione e di solidarietà verso la vittima. Insomma, attaccarsi all’età e all’aspetto dell’avversario può risultare impopolare e controproducente. Sembra chiaro, quasi ovvio, almeno finchè restiamo sul piano razionale. Tuttavia, sull’inconscio di massa, bombardato dalla pubblicità di corpi scultorei e di volti radiosi come dall’assordante, insignificante chiacchiericcio in cui siamo immersi quell’argomento cosi politicamente scorretto e così umanamente sgradevole qualche effetto lo può avere ancora come l’ebbe nell’ormai lontana competizione del 2007. Hillary aveva sessant’anni e il suo volto per un momento trasmise tutta la fatica e quasi l’intollerabilità fisica ed estetica di uno stress prolungato.

Da allora, da quell’episodio, sono passati otte anni, gli anni di Obama che nelle primarie del 2008 sconfisse Hillary e la macchina elettorale dei Clinton. Da oggi, giorno dell’annuncio della sua nuova candidatura, passerà un altro anno e mezzo tra primarie democratiche ed elezioni presidenziali.

Al momento sembra non avere nel suo partito rivali in grado di impensierirla. Ma anche nel 2008 partì favorita rispetto ad Obama che molti consideravano un candidato impossibile. E, comunque, anche se Hillary vincesse le primarie del suo partito e diventasse la candidata presidente inevitabilmente, inconsciamente, non pochi elettori si chiederanno con quale volto, con quale energia, con quale resistenza alla fatica e allo stress nervoso una donna non più giovane guiderà la nazione più potente del mondo.

Negli ultimi ventiquattro anni tre presidenti – Clinton, Bush, Obama – hanno trasmesso un’immagine di giovinezza, di energia, di disinvolta supremazia sulla fatica mentre quella foto ha inciso un’immagine di fragilità e scoperto un punto debole della determinatissima Hillary.

Un punto debole che gli otto anni in più renderanno più evidente.

Un messaggio insidioso che non va sottovalutato né frainteso.

Non è più tanto una questione di estetica, né di età, né di genere. In Germania, in Brasile, in Argentina hanno vinto, hanno governato e governano con piglio robusto donne meno avvenenti della Clinton. Quel che l’istantanea invecchiata di otto anni ha fissato ed esasperato, quel che resta impresso nella memoria non è un inestetismo: è qualcosa di molto più insidioso é l’immagine di un cedimento.

La civiltà dell’immagine esige che tu sia sempre sorridente e, soprattutto, sempre in forma: il prezzo del successo non fa sconti. Se fossi nel team elettorale della Clinton mi preoccuperei di prevenire ed allontanare un rischio simile, il rischio di un nuovo cedimento, prima che un sondaggio onesto o disonesto la diano per perdente. Ormai lo sappiamo: i sondaggi possono aggravare lo stress, lo stress può peggiorare i sondaggi.

IL MALE OSCURO DI ANDREAS LUBITZ

Quando la dimensione interiore di un uomo è talmente devastata da diventare nei suoi atti e nelle sue conseguenze tragicamente, fragorosamente, collettiva perfino la tendenza ormai istintiva a giudicare cercando colpevoli e responsabili sembra fermarsi, esitare, quasi paga di spiegare il disastro come “il gesto di un folle”. Secondo tutti i commentatori, un atto deliberato come quello di Andreas Lubitz – distruggere l’aereo con 149 passeggeri che stava pilotando – presuppone una piena consapevolezza e capacità di controllo. Tuttavia, in assenza di moventi terroristici, le prime indagini chiamano in causa un episodio passato di depressione generata da stress o da pene d’amore. Senonchè una depressione causata da stress lavorativo o da una pena d’amore può condurre a un delitto passionale, persino al suicidio, ma non obnubila il sensorio, non maschera la percezione della realtà, non motiva la lucida e tranquilla esecuzione di una strage.


Allora, proviamo a immaginare cosa sarebbe successo se Andreas Lubitz fosse sopravvissuto alla strage che ha provocato. L’avrebbero dichiarato colpevole o non colpevole in quanto incapace di intendere e di volere? Chiariamo questi due concetti: la capacità di intendere è l’attitudine dell’individuo a comprendere il significato delle proprie azioni nel contesto in cui agisce. La capacità di volere,consiste nel potere di controllo dei proprio stimoli e impulsi ad agire. Viceversa, come abbiamo detto, secondo la legge, il soggetto incapace di intendere e di volere non è imputabile. In apparenza Andreas sapeva perfettamente ciò che stava compiendo e ha realizzato il suo piano utilizzando i mezzi idonei al fine, dunque si direbbe perfettamente in grado di intendere e di volere. Se fosse vivo non potrebbe perciò contare sull’argomento principe cui talvolta ricorrono gli avvocati difensori per giustificare azioni efferate e malsane,appellandosi a quello che – nel gergo dei medici legali – si chiama vizio, parziale o totale, della mente. Viceversa, io penso che, mai come in questo caso, il caso dell’Airbus della Germanwings, si dia giustificazione più veritiera proprio dell’incapacità di intendere e di volere. Naturalmente, purché non si chiami in causa un remoto episodio di depressione, ma qualcosa di molto, molto più distruttivo. Solo la disintegrazione completa della vita mentale, la scissione totale dei processi psichici e l’asservimento a quella voce “dentro”, a quella persona, entità o immagine che vive all’interno di noi stessi e condiziona i nostri pensieri e le nostre azioni può aver spinto Andreas a concepire e attuare il progetto di quell’Io maggiore e, per così dire, “malefico”.


Ebbene, questo tipo d’insanità si chiama schizofrenia e non ha niente a che vedere con la depressione o l’esaurimento, il burn-out. La schizofrenia, da quando è stata scoperta e studiata a partire dall’800 è considerata il cancro della psichiatria. Una patologia micidiale che comprende un gruppo di disturbi mentali, di natura psicotica, clinicamente eterogenei, ma che hanno in comune un nucleo patologico primario: la scissione dei processi associativi e, quindi, della personalità, per cui le funzioni psichiche operano indipendentemente dalla realtà in un crescendo di deliri e di allucinazioni – soprattutto uditive, ma anche visive e tattili – fino a disintegrare completamente la vita mentale. Se questa ipotesi corrisponde al vero, Andreas, chiusosi nel cockpit, potrebbe aver avuto un “altro” compagno di viaggio, nella sua mente ben più reale del comandante ormai escluso e del tutto impotente. Questo compagno, incarnato da un’allucinazione – una voce o un’immagine – che l’accompagnava continuamente, potrebbe avere preordinato di attuare l’insano gesto. Solo uno stadio avanzato di schizofrenia può spiegare l’apparente contraddizione tra la follia del progetto dell’Iomaggiore e la lucidità delle azioni di Andreas.


Ora possiamo tornare alla domanda iniziale: chi è responsabile? E’ accettabile che nessuno abbia indagato a fondo sull’integrità psichica di Andreas? E’ possibile che nonostante i moniti dell’autorità aereoportuale che esigevano il suo costante monitoraggio Andreas abbia continuato a pilotare come se niente fosse? Come e chi ha sottovalutato il rischio? Pilotare un jet è come essere in possesso di un’arma di distruzione di massa che con un sol colpo può sterminare, anzi polverizzare 150 esseri umani. Chi ha lasciato quest’arma nelle mani di un folle? Difficile sfuggire all’impressione che siano coinvolte responsabilità molteplici, dall’imperizia dei medici alla negligenza della Lufthansa, a tutti coloro che hanno autorizzato a volare un pilota che aveva bisogno di stare con i piedi ben piantati in terra, di essere tenuto per mano, di essere rassicurato e, soprattutto, curato.

LE MOLTE VITE DI MASSIMO FINI

Entrò in classe, la Terza C, una mattina di novembre ad anno scolastico già iniziato, ragazzino spettinato, disordinato, ma quasi austero, come i liceali di quel tempo, ribelli in giacca e cravatta. Lo riconobbi subito mentre ancora esitava, in piedi, intimidito, cercando con lo sguardo dove andare a sedersi. Non so se l’avete mai provato, ma poche esperienze come quella di essere aggregato, tu solo e in ritardo, a una comunità o classe di tuoi coetanei già affiatati, trasmettono, con l’imbarazzo di sentirsi diversi ed esaminati, un senso di indifesa estraneità. “Trovati un posto, sbrigati – intimò il prof d’italiano al nuovo alunno – stiamo facendo lezione!”. Poiché lo conoscevo e lì ero un principino, mi alzai, spinsi i libri e le mie cose sul banco verso la parete e gli indicai la sedia a fianco accanto all’altro banco. Mi raggiunse e mi diede la mano sospirando, ”Almeno uno lo conosco”.

A dodici, tredici anni, avevamo giocato insieme a calcio, all’oratorio dei padri salesiani, quelle partite che cominciavano in trenta e più giocatori divisi in due squadre che via via si assottigliavano fino a che i superstiti non venivano reclamati dal prete o da genitori spazientiti. Invece i resistenti a oltranza ricominciavano coi palleggi e, quando non li interrompeva il pallone sgonfiato o il sacrestano, continuavano oltre il tramonto, veri stakanovisti, a fare tiri in porta anche senza portiere.

Lui abitava lì vicino – la “casa dei giornalisti”- come gli altri ragazzini con cui arrivava e se ne andava. Facevano gruppo scambiandosi e commentando la Gazzetta dello sport, e giornali con le firme o le vignette dei loro padri e, con i ragazzi di altre classi sociali, ostentavano un’insopportabile arietta di superiorità. Poi scoprii che anche tra di loro le promesse di amicizia sacra e indissolubile si alternavano a scatti di rivalità, liti infantili, gelosie adolescenziali. Non ho mai avuto voglia di frequentarli, nessuno, salvo Massimo, a partire dal giorno in cui lo vidi prendere le difese di un piccoletto pestato da uno del suo gruppo, il più grosso.

Andammo a casa sua e la cosa che più mi colpì e gli invidiai fu che, figlio unico e orfano di padre, quando la mamma era assente aveva tutta la casa a disposizione. Su un tavolo teneva fissata una tela o tovaglia e, sopra, sparsi o impilati, era pieno di “tollini” (tappi di bottiglia) sul cui fondo incerato aveva incollato etichette di giocatori di tutte le squadre. Una play station fatta a mano, preistorica, artigianale anticipazione delle play station digitali e virtuali, su cui giocano oggi con i loro amici i nostri figli e nipoti. Era mezzo secolo fa, a Milano, oratorio dei Salesiani, Liceo Classico Carducci, casa dei giornalisti.


LE MOLTE VITE DI MASSIMO FINI     di Claudio Martelli


Mezzo secolo dopo Massimo Fini ha pubblicato la sua autobiografia dal titolo più semplice immaginabile, “Una vita” (Marsilio, 2015). Leggendola mi sono accorto che del mio compagno di banco, dell’amico con cui ho fraternizzato e duellato per tanti anni, correndo ciascuno la sua gara, ciclicamente incrociando – destino o carattere che sia – l’uno la strada dell’altro, insomma, della sua vita, io, in realtà, ho sempre saputo troppo poco.

Bisogna dire subito che l’autore mantiene la promessa: dentro il suo libro c’è vita, molta vita, anzi, più vite. Più vite perché più esperienze intense e incisive l’hanno ingaggiato e assorbito su più fronti per poi essere riaperte e sezionate, come su un tavolo anatomico ed esibite sul banco, umana troppo umana mercanzia. Più vite scandite così dalle proprie personali date fatali come dalle epoche che abbiamo attraversato, quelle indispensabili a occupare mezzo secolo. Ma più vite anche in un altro senso.

Più vite da vivere contemporaneamente è molto più complicato che più vite vissute successivamente.

Quando parla di sé e di chi o di cosa nel mondo gli è stato famigliare, quando racconta di suo figlio e di sua madre, di altre donne e uomini, di quale umanità l’abbia fatto amare e odiare e da cui si sia sentito amato, trascurato, abbandonato, è allora che Fini ci coinvolge e ci tocca dentro come una spina, come una canzone. Come quando parla della nostra Milano degli anni sessanta – i primi (non gli ultimi, i cosiddetti “formidabili” di Mario Capanna), anni aperti e luminosi, costruttivi e contrastati in una Milano tutta da camminare, da esplorare, da toccare con mano, da cantare. Come quando parla della casa di famiglia, del babbo importante e della madre severa, di molti insegnamenti e di poca affettività. Della casa in cui ha sempre abitato e continua ad abitare, Massimo fa brillare un divano rosso, che, per molti, intervistati o semplicemente incontrati, si fece lettino di psicanalista, confessionale senza liturgia di uno che ti fa parlare rivelandosi, lui, più dell’ospite di turno, debole e colpevole di delitti del cuore, dei sensi, dell’indole. Colpe e debolezze oneste, le sue, perché irresistibili, ancestrali, ataviche. Dunque perdonate in partenza, Le sue, ripeto, non certo le colpe degli altri. Che, dopo un po’ di tempo, su un giornale, magari le trovavi spiattellate senza tanti riguardi. Decisamente Massimo è meno complice di come sembra.

Tecnica proibita, e si capisce perché, agli addetti associati alle varie confessioni cristiane e alle varie scuole freudiane, junghiane, kleiniane e chi più ne ha più ne metta. Ma, infine, un terapeuta più afflitto del paziente e però capace di consolarlo non è cosa da poco, soprattutto non è cosa da scuole o accademie di dottori affiliati e disciplinati da norme, codici e statuti.

Questo si capisce leggendo questo libro, ma questo dice poco della cosa più importante di “Una vita”: la scrittura. La sua scrittura, restando incollata alla realtà, si fa qui disinibita, vorticosa, aggressiva e, come aderendo alla sua condotta, alla sua caccia grossa di sensazioni, di barriere da scavalcare e di ebbrezze autodistruttive, ti contagia di temerarietà, per farti salire sulla sua giostra.

La differenza tra Fini scrittore e Fini giornalista è che, mentre negli articoli di giornale il bersaglio è sempre qualcun altro, nel suo ultimo libro il bersaglio su cui si accanisce è se stesso. Per quanto sia bravo come giornalista, saggista, polemista e ritrattista solo qui, diventato scrittore, tocca corde che vibrando fanno male, male vero, solo ad ascoltarle. Come assistere a un harakiri senza poter far nulla.

Se nel giornalismo Massimo si è occupato di personaggi e storie varie in modo quasi sempre polemico, come saggista ha spostato la polemica sull’attualità stessa, sempre più spesso facendo ricorso al pozzo del passato e alle sue risorse contro i moderni, i loro pregiudizi e le loro contraddizioni tanto arroganti quanto inspiegate. Così è diventato uno scrittore reazionario, oscurantista, retrò pur sempre coerente con il giornalista assediato dal fastidio, dal fardello, dalla miserabile ipocrisia dei contemporanei.

Rassicuro: Massimo sa indirizzare benissimo la sua penna dove vuole e come infierisce su di se, così sa anche gratificarsi e complimentarsi per una vita condotta all’insegna dell’onestà, del disinteresse, dell’indipendenza dal potere e dai suoi uomini. Rivendicazione più che legittima da parte di chi è stato censurato, denunciato, licenziato pagando non so quante volte il prezzo della coerenza. La coerenza, ahinoi, è una virtù a se, una virtù che parla di noi stessi, ma non dice nulla della realtà. Infatti, si può essere coerenti anche nel vizio, nella colpa, nella pigrizia e nei delitti: solo per questo saremmo anche virtuosi?

Impudico, Massimo racconta di se e dei suoi sensi di maschio etero e omo, seduttore sedotto e, infine, deluso dalle sue conquiste femminili. Come intreccia prosa on the road e prosa colta, all’ombra di Rimbaud e di Celine, così, mentre aspira alle virtù borghesi dei benpensanti non rinnega il vizio di esistere, di voler esistere senza limiti, senza cedere mai né alla fede né alla dea ragione. Tantomeno alla politica per lui sinonimo di potere, anzi, degli uomini di potere dell’odiato occidente – quasi un equivalente dell”odiata nazione” del Jules Verne di “Ventimila leghe sotto i mari”. Contro di loro – i potenti, i contemporanei, i conformisti – è persino ovvio, Fini dà sempre ragione agli altri, a tutti gli altri, da Catilina a Nietzsche, dal Mullah Omar a Beppe Grillo.

Dopo la discesa agli inferi delle notti insonni e degli incontri burrascosi viene anche per lui l’ora di lusingarsi, collezionando interviste e ritratti a gente famosa, a very important people. Qui il libro si fa più glamour, più studiato e quindi freddo. Da non pochi di questi incontri professionali lo scrittore riemerge giornalista un po’ troppo soddisfatto di essere così coraggioso e ribelle, implacabile o magnanimo a suo gusto, registrando compiaciuto anche le adulazioni e tenendo stretta, per sé, l’ultima parola, il commento definitivo. Sono registri di giornalisti avvezzi a fare ‘carrellate’ di personaggi di cui dispensare bozzetti fatti in giornata, per l’obbligo di consegnare il pezzo, come disegnatori di piazza. Ma era cosa giusta e onesta che in “Una vita” non mancasse il Fini giornalista che immagino sia per alcuni anche il più conosciuto e che, certo, aiuterà il successo del libro di uno scrittore vero.

Massimo sta diventando del tutto cieco. Ha scritto desolato che non potrà più scrivere. Non è vero, si sbaglia: può imparare il linguaggio dei ciechi, può usare le tecnologie che trasformano la voce in scrittura e le applicazioni che consentono ai ciechi di correggere i propri testi. Non si deve avvilire perché non vede, tantomeno annullare. So che a nessuno basta mai, ma lui ha visto tantissimo, quasi tutto quel che un uomo ha da vedere. Ha bisogno di un po’ di tempo per ritrovarsi nello spaesamento, per sopportare la mancanza del senso perduto e per potenziare e affinare l’udito, il gusto, l’olfatto e il tatto. Ha certo bisogno di compagnia, di molte voci, magari di radio a cui parlare oltre che da ascoltare, insomma, ha bisogno del suo lavoro, dei suoi famigliari e dei suoi amici e anche dei suoi nemici, oggi molto più di prima. Questa può diventare una cosa bellissima: è possibile, dipende, se … “solitaire et solidaire”, come diceva di sé Albert Camus, ed io ho detto di Massimo – dipende se, solitari e solidali saremo anche noi, gli altri, gli amici e i suoi lettori.

BERLINGUER

Se come diceva Benedetto Croce “La storia è sempre storia presente”, il dovere della ricostruzione resta fondamentale soprattutto da parte di coloro che di questa storia hanno fatto parte.

In questa intervista esclusiva per Daringtodo Claudio Martelli, che fu a lungo avversario politico di Enrico Berlinguer, ripercorre con equilibrio e con misura critici la parabola del più amato tra i segretari comunisti.

Dal compromesso storico alla questione morale all’eurocomunismo, Martelli mostra meriti e limiti, aperture e contraddizioni del pensiero e dell’azione di Berlinguer nel contesto italiano a cavallo tra gli anni settanta e ottanta, fino al momento tragico della sua morte in pubblico nel corso di un acceso comizio elettorale.

Una morte che sembra fondere insieme, indelebilmente, gli elementi opposti, per così dire religiosi, della lotta politica dal sacrificio di sé spinto sino al martirio alla ubris della violenza polemica spinta sino dell’empietà.

A casa con Amanda Lindroth

Amanda Lindroth è una interior designer nata in Florida.

Il suo stile è una combinazione di memorie tra la natura delle sue origini con il glamour degli anni ’60 e ’70 di Palm Beach.

L’ispirazione arriva dai suoi numerosi viaggi in giro per l’Europa e dalle sue contaminazioni nel mondo della moda – Amanda ha lavorato in qualità di Public Relations Director per Gucci.


Qui le immagini di alcuni suoi progetti:

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Mad Max, l’anti-eroe del deserto

In un’Australia senza regole, la sola legge che conta è la legge della strada, dominata da bande di delinquenti in moto che scatenano l’anarchia e la violenza. La Main Force Patrol, una squadra speciale composta da poliziotti senza scrupoli, cerca di opporsi al ritorno delle barbarie medievali, in un mondo in cui le risorse energetiche stanno per terminare e l’unico vero tesoro è la benzina. La Main Force Patrol può contare su Max Rockatansky, soprannominato Mad Max, un uomo che agisce per istinto e per un innato senso di giustizia. In seguito a uno scontro mortale con una banda di motociclisti, Max si ritrova, poco alla volta, da solo contro tutti, perdendo prima un collega e poi la sua famiglia, uccisa brutalmente dalla banda di Toecutter. Così, a bordo della sua V8 Interceptor, Max intravede come unica ragione di vita la vendetta, scatenando però dentro di sé una rabbia incontrollabile, frutto della sofferenza e della disperazione per una realtà senza futuro.


In Interceptor (1979), George Miller recupera gli scenari dei western di John Ford per contestualizzarli in un universo post-apocalittico in cui i cavalli, da un lato, e gli indiani e i banditi, dall’altro, sono rimpiazzati rispettivamente da moto e motociclisti senza legge. A questo si aggiunge un tema tanto caro al cinema: la vendetta, scatenata da un profondo senso di rivalsa e di angoscia e nutrita dal male e dall’odio che il protagonista prova verso chi lo ha ferito o gli ha sottratto gli affetti. In tal senso, Mad Max è vittima e carnefice allo stesso tempo, divenuto, dopo il torto subito, ignaro delle regole e del senso di giustizia proprio come lo sono i delinquenti che hanno ucciso la sua famiglia. Il successo del film, costato circa 300mila dollari australiani e capace di incassare oltre 100 milioni di dollari e di lanciare un giovanissimo Mel Gibson, risiede quindi non tanto nel soggetto, quanto piuttosto nello scenario, un deserto selvaggio e indomabile da cui non si può fuggire, reso affascinante dagli spazi maestosi senza traccia di civiltà.


Se nel primo capitolo la trilogia riesce a far esordire il filone post-apocalittico – il cui grande riscontro si deve, negli anni Ottanta, anche alla serie Ken il Guerriero, fortemente debitrice del mondo plasmato da George Miller – è però con il secondo e il terzo film che il deserto si trasforma in una nuova Terra di Mezzo senza frontiere, in cui il potere non lo detiene il portatore dell’Anello ma chi ha più benzina. In Interceptor – Il guerriero della strada (1981), chiarito l’antefatto – che riassume anche il primo film – riecco Max, da solo, che vaga senza meta nel deserto. Il suo unico obiettivo è avere un po’ di benzina. Ora però non è più un tutore della legge ma si è adeguato a quella realtà ed è diventato un eroe solitario al di là del bene e del male, uno che agisce soltanto in cambio di un tornaconto personale. E la raffineria della Tribù del Nord capita a proposito: lì c’è la benzina e lui ne ha un grande bisogno. Ma anche la banda degli Humungus la vogliono e sono disposti a tutto pur di appropriarsene. Lo scontro tra Max e gli Humungus non è molto diverso da quello di Joe/Clint Eastwood con i Baxter e i Rojo in Per un pugno di dollari: l’esito è lo stesso, così come la sequenza narrativa, che prevede prima una bruciante sconfitta da parte dell’eroe e poi una vendetta senza pietà.




Nel terzo e ultimo film, Mad Max – Oltre la Sfera del Tuono (1985), non c’è più traccia di civiltà e il nuovo Medioevo annunciato in Interceptor si è concretizzato. Max giunge nella città di Bartertown per recuperare i dromedari che gli sono stati appena rubati. In cambio di benzina e di cibo dovrà uccidere il gigantesco Blaster, che insieme a Master controlla l’energia di Bartertown attraverso lo sterco dei maiali. Questa è la proposta della regina della città, Aunty Entity. Ma Max, ricordandosi, forse, dei suoi trascorsi da tutore della legge e della civiltà a cui apparteneva, risparmia Blaster e viene abbandonato nel deserto (pena che la gente di Bartertown chiama “gulag”), per essere poi salvato da una tribù di bambini selvaggi che lo scambia per il Capitano Walker e che cercano la Città del domani domani. A differenza del secondo film, un barlume di speranza c’è ancora: i bambini, le nuove generazioni, un mondo che potrà rinascere, ripopolarsi e ricostruirsi. Se anche qui Max agisce solo in funzione di esigenze prettamente personali, non si può trascurare il saluto finale datogli proprio da Aunty Entity («Addio, eroe!»), che si collega, in qualche modo, con la frase del collega poi ucciso in Interceptor: «La gente non crede più negli eroi!». E non a caso, nella colonna sonora, Tina Turner/Aunty Entity canterà We don’t need another hero, in cui i bambini diranno che non è più necessario un eroe che li salvi e nemmeno una strada per tornare a casa ma tutto ciò che c’è al di là dell’arena («All the children say/We don’t need another hero/We don’t need to know the way home/All we want is life beyond/Thunderdome).


Thunderdome non è soltanto l’arena in cui avviene lo scontro tra Max e Blaster, ripresa nel titolo originale del film (Mad Max Beyond Thunderdome, tradotto ala lettera come “sfera del tuono”): in una società senza più alcuna autorità e senza nessuno in grado di giudicare le controversie, l’arena diventa il luogo ideale nonché il solo luogo in cui risolvere i conflitti. In tal senso va inteso il Thunderdome, un’arena non molto distante da quelle dei gladiatori romani: “Due combattono, uno vive” è il motto che incita la folla, per la quale nessuno può essere risparmiato. Ma l’arena diventa anche il simbolo nell’anarchia più totale: le uniche regole riconosciute sono quelle dello scontro a corpo a corpo, o meglio della legge darwiniana della sopravvivenza, per cui il più forte è quello che rimane in vita. La saga di Mad Max, al di là di ogni giudizio critico, ha avuto il merito di avviare, quasi per caso, la lunga carriera di Mel Gibson, diventato poi un cultore dei ruoli da protagonista nei film d’azione, mentre Interceptor, insieme a The Blair Witch Project, uscito vent’anni dopo, detiene il record di maggiore incasso con budget ridotto. Con Mad Max – Fury Road i sentieri selvaggi percorsi trent’anni fa da Mel Gibson diventeranno ancora più violenti e anarchici ma George Miller, che dirige il quarto capitolo della serie, non tradirà le attese per un viaggio nel deserto che si preannuncia carico di adrenalina.

Star Wars, le guerre intergalattiche di George Lucas nel segno della Forza

Forse nemmeno George Lucas avrebbe mai scommesso sulla sua storia breve intitolata The Journal of the Whills, incentrata su C.J. Thorpe, allievo del Jedi-Bendu Mace Windy. Ma è proprio da un’idea semplice che nascono grandi intuizioni. E così, da quella storia scritta nel 1973, Lucas trasse una sceneggiatura, basata su La fortezza nascosta di Kurosawa. Un anno dopo, quel soggetto sarebbe stato ampliato con elementi fondamentali come i Sith, la Morte Nera e un certo Annikin Starkiller. Nel 1976, dopo il rifiuto della Universal e della United Artists, il film ricavato si intitolava Le avventure di Luke Starkiller, come narrate nel Giornale dei Whills, Saga I: Le Guerre stellari. Un titolo da romanzo d’appendice, tanto da essere semplificato in Guerre Stellari, mentre l’eroe non si sarebbe chiamato più Annikin Starkiller ma Luke Skywalker (Annikin sarebbe diventato Anakin, suo padre).


Fu così che nacque Star Wars, la leggendaria saga fantascientifica di George Lucas, che fino ad allora si era fatto apprezzare soprattutto per American Graffiti e che grazie all’incasso travolgente di Guerre Stellari (1977) avrebbe poi fondato la LucasFilm e prodotto un altro grande successo degli anni Ottanta, la saga di Indiana Jones, con l’amico Steven Spielberg. Un grande spettacolo di intrattenimento, un nuovo modo di fare cinema; una colonna sonora, firmata da John Williams, dal forte impatto emotivo; personaggi indimenticabili, citazioni, costumi, armi; epica, fiaba, filosofia orientale, ironia… Sono questi i tanti ingredienti che hanno consentito a Star Wars di diventare uno dei simboli della cultura di massa, tanto da generare un enorme apparato di spin-off, romanzi, videogiochi e fumetti basati sull’universo fantascientifico di George Lucas. Un prodotto senza tempo che non ha mai smesso di incantare e di affascinare, nonostante siano trascorsi quasi quarant’anni dalla comparsa sul grande schermo del primo capitolo della saga. In occasione dell’uscita della “Nuova trilogia”, Guerre Stellari fu rinominato Star Wars: Episodio IV – Una nuova speranza, dando così un senso anche al secondo e al terzo film della Trilogia Originale: L’impero colpisce ancora (1980) e Il Ritorno dello Jedi (1983), quinto e sesto episodio. Dal 1999 è uscita anche la Nuova Trilogia, che costituisce un prequel: Star Wars: Episodio I – La minaccia fantasma (1999), Star Wars: Episodio II – L’attacco dei cloni (2002) e Star Wars: Episodio III – La vendetta dei Sith (2005).


In una galassia lontana, l’Imperatore Palpatine e il suo allievo, il terribile tiranno Darth Fener, cercano di abbattere le ultime resistenze dei ribelli nella Galassia per poter definire il proprio potere una volta per tutte. Intanto l’Alleanza Ribelle, di cui fa parte la principessa Leila Organa, cerca di unirsi con chi è ancora rimasto fedele alla vecchia Repubblica. Proprio Leila, prima di essere catturata dalle forze imperiali, affida a due droidi un messaggio per Ben Kenobi, un anziano cavaliere Jedi che vive nel pianeta desertico Tatooine. A raccogliere il messaggio è però il giovane Luke Skywalker, che, trovato Kenobi e unitosi poi anche a Ian Solo, pilota del Millennium Falcon, e al suo copilota Chewbecca, parte alla ricerca della principessa Leila, deciso a fermare Darth Fener e la sua Morte Nera, una micidiale base spaziale in grado di disintegrare un intero pianeta.  I buoni contro i cattivi, il bene contro il male. Niente di più semplice: si tratta di un binomio tipico della narrativa popolare, direbbe Umberto Eco. Eppure i due film successivi, ma soprattutto la Nuova Trilogia, evidenzieranno nei personaggi molte più sfumature – e significati – di quanto si possa immaginare. A proposito del significato dei nomi, nulla è lasciato al caso. È fin troppo chiaro che Darth Vader (conosciuto in Italia come Darth Fener) sia un’assonanza dell’inglese “Dark Father”, il padre oscuro, laddove d’altronde l’allusione al complesso edipico è evidenziata anche dall’amore – poi solo fraterno – di Luke per Leila, prima che questa, nella scena conclusiva del Ritorno dello Jedi, si congiunga con Ian Solo. Un “padre oscuro” che è anche il Lato Oscuro della Forza per antonomasia, e che, un po’ come il dottor Faust, nel terzo episodio, La vendetta dei Sith, quando era ancora Anakin Skywalker, aveva tentato di salvare l’amata Padme cedendo al vile ricatto del Cancelliere Palpatine (che diventerà Darth Sidious) e unendosi ai malvagi Sith.


Star Wars


Per Luke non c’è nemmeno bisogno di interpretazioni: Skywalker va inteso come “Colui che cammina nei cieli”, mentre Han Solo/Ian Solo può intendersi come Mano Solitaria (“Han” deriverebbe dall’inglese hand). E così anche Yoda può derivare dal sanscrito yudh, “guerriero”, ma assomiglia anche alla parola “yoga”, tipica caratteristica meditativa dei Cavalieri Jedi. I nomi, insomma, non sono una casualità, ma non lo sono nemmeno le citazioni e le influenze – più o meno dichiarate – di George Lucas: i film di Kurosawa, l’Impero Galattico di Isaac Asimov, il ciclo di Dune di Frank Herbert; ma anche i singoli personaggi, come il droide C-3PO, che rievoca il robot femminile di Metropolis di Fritz Lang nonché l’Uomo di Latta del Mago di Oz, mentre l’elmo di Darth Fener assomiglia a quello dei samurai e i Cavalieri Jedi sono membri di un ordine religioso guerriero (possibile è il richiamo ai Cavalieri Templari, soprattutto per la fine analoga nel terzo episodio, quando i Jedi sono sterminati dai Sith). Star Wars è una summa di tante culture, di tante letterature ma soprattutto una vera e propria mitologia. George Lucas non ha mai nascosto la profonda influenza dello storico delle religioni Joseph Campbell, che nel suo saggio L’uomo dai mille volti (che richiama, non a caso, il polytropos omerico, Odisseo/Ulisse, “l’uomo dal multiforme ingegno”, e per estensione di significato “dai mille volti”), individua una serie di tappe fondamentali che costituirebbero una trama-archetipo, chiamata Viaggio dell’Eroe. Si tratta di un viaggio soprattutto interiore, un viaggio verso la conquista definitiva della Forza: e se la Trilogia Originale è il viaggio verso il Lato Chiaro della Forza, che rappresenta la bontà, la benevolenza e la salute e tutti gli stati d’animo positivi, all’opposto la Nuova Trilogia, al cui centro c’è invece la mutazione di Anakin Skywalker in Darth Vader/Darth Fener, è il viaggio verso il Lato Oscuro della Forza, rappresentato dai Sith ed espressione massima di sentimenti negativi come rabbia, violenza, odio e paura.


L’operazione di George Lucas è stata simile a quella di J.R.R. Tolkien: entrambi hanno costruito una cosmogonia e hanno creato un universo che appare distante da quello reale solo superficialmente. La letteratura fantasy, dopo Tolkien, ha conosciuto molto spesso solo autori che cercavano, il più delle volte fallendo, di imitare Il Signore degli Anelli, mentre il cinema di fantascienza, dopo Guerre Stellari, si è aperto a un pubblico di massa, ridisegnando i canoni del genere. Tuttavia, è chiaro che la classificazione in generi è puramente convenzionale e si potrebbe benissimo intendere la Terra di Mezzo come un pianeta di un’altra galassia in un futuro remoto, così come Star Wars una saga fantasy-fantascientifica. Le analogie, però, non riguardano soltanto il genere ma anche le dinamiche interne, e in particolare i personaggi: per esempio George Lucas ha ammesso che Obi-Wan Kenobi doveva essere un incrocio tra Mago Merlino, un samurai giapponese e Gandalf il Grigio. Sia lo Jedi sia lo stregone rappresentano la Sapienza e tendono più a incitare e a incoraggiare che agire in prima persona; e inoltre sono stati tutti e due traditi da qualcuno che si è alleato con il nemico: Gandalf da Saruman e Obi-Wan da Anakin/Darth Fener.


Nell’Impero colpisce ancora, Luke vive alcune avventure da solo, accompagnato solo da R2-D2, proprio come Frodo, da solo in compagnia del fido Sam. E quando il Maestro Yoda addestra Luke, questi vede i suoi amici lontani e in pericolo: è la stessa cosa che accade a Frodo con lo specchio di Galadriel. E dopo l’agnizione («Io sono tuo padre»), la presenza di Luke nel cuore dell’Impero permette la distruzione del Male (l’Imperatore) proprio da parte di chi si era convertito al Male (Dart Fener). Così accade anche a Frodo nel Monte Fato, quando Gollum, annebbiato dal potere dell’Anello, non soltanto distrugge Sauron ma si autodistrugge. La critica ha bollato Star Wars come un prodotto dai contenuti estremamente semplificati. Un prodotto leggero, spensierato, molto distante dall’epopea fantascientifica di 2001: Odissea nello spazio, dai contenuti e dal ritmo molto differenti. Ma se dalla saga di George Lucas sono stati ricavati fumetti, serie animate, videogiochi, raduni di appassionati e fan fiction, lo si deve soprattutto alla reinterpretazione di un mondo che di fantascientifico ha ben poco e che, pur permettendo al pubblico di sorvolare i cieli dell’immaginazione per un paio d’ore, gli permette allo stesso tempo di restare con i piedi ben ancorati a quelli che sono i temi e i dilemmi quotidiani, presenti, passati e – sicuramente – futuri.


FONTE: http://www.guerrestellari.net/athenaeum/mappasito.html