MARIO SCHIFANO. COMPAGNI IN UN’OASI SOTTO IL CIELO STELLATO

Un vero atto di mecenatismo come non si vedevano ai tempi della Guggenheim, la mostra “Mario Schifano. Compagni in un’oasi sotto il cielo stellato”, è il vero regalo che dovreste farvi in questa quanto mai caotica Milano Design Week, uno spazio surreale dove per la prima volta in assoluto, avrete l’occasione unica di vedere le opere mai fotografate e mai esposte prima, del grande artista Mario Schifano.

La location, un ex convento ristrutturato e oggi adibito a spazio multifunzionale, head quarter di Hopafin S.P.A., società specializzata in rent luxury appartment, è aperta al pubblico fino al 19 maggio 2024 ed ospita ben venti tele realizzate dal maestro della Pop Art negli anni Sessanta.
“Inevitabile viaggio a Marrakesh” – “Compagni” (bacio), del 1968 – Oasi (o Palme) – e 8 incredibili tele “Tutte stelle”  del 1967 – che furono le pareti della stanza di Patrizia Ruspoli, principessa la cui dimora romana fu dipinta da Mario Schifano con stelle realizzate a stencil spray.

La mostra è forse un evento che non si ripeterà mai più nella storia, una chicca dal cogliere al volo per poter rivivere il percorso artistico e il pensiero di Mario Schifano, che fu il primo vero sperimentatore delle tecniche pittoriche; opere provenienti da collezioni private e proprietà di Roseto, vi faranno viaggiare nei luoghi deserti in cui Schifano riproduceva le famose palme. Di ogni dimensioni e colore, le palme forse sono il ricordo lontano delle radici d’infanzia, quelle libiche della nascita, zone di luce e d’ombra attaccate all’artista come una sorta di nostalgia, la dolce-amara melanconia che cercò di scacciare con le cattive abitudini. Ma lo sanno bene le nature saturnine, che è in questi anfratti che si sveglia la coscienza e l’intuizione, lì dove il dolore non passa.

Di rosso e nero laccata, l’opera “Compagni Compagni” cattura magneticamente l’attenzione; qui c’è tutto il pensiero politico di Schifano e la cronaca del suo tempo, una tela coperta da una lastra di plexiglass che riflette il paesaggio circostante (una scelta voluta?).

Non c’è mai in me il desiderio di ricreare la realtà, le cose sono tutte diverse tra loro ed io voglio rappresentarle nella loro diversità; la mia maniera è guardare.”

In questa affermazione, Schifano ci accompagna alla visione di una realtà personale e personalizzata, il nostro sguardo all’interno della mostra converge nell’esperienza che abbiamo dell’arte e nella conoscenza della vita dell’artista ma, se rispettiamo il suo concetto di “reale”, allora, forse, avremo la possibilità di viaggiare in quei luoghi che egli stesso ha voluto immortalare per donarceli. E allora una palma non sarà una semplice palma, ma una fotografia di Marrakesh che lo ha fatto innamorare. E il gesto di una bomboletta spray non sarà un semplice schizzo istintivo, ma la padronanza della tecnica che viene semplificata e modernizzata dal presente, un presente che Mario Schifano viveva come fosse l’ultimo presente, assorbendone tutta l’energia e la vitalità.

Mario Schifano. Compagni in un’oasi sotto il cielo stellato” è una mostra promossa da Roseto e Harves, nuova società specializzata nell’intermediazione di proprietà di pregio del segmento luxury real estate sostenuta da Hopafin, holding leader in Italia e una delle più importanti in Europa a governo di un gruppo con core business nel settore immobiliare e creditizio.

Curata da Monica De Bei Schifano e Marco Meneguzzo, e organizzata da Art Relation di Milo Goj, società leader nella consulenza per il mondo dell’arte, in collaborazione con l’Archivio Mario Schifano, la mostra ripercorre temi importantissimi della narrazione d’artista, dal periodo musicale psichedelico (è nel 1966-67 in collaborazione con Ettore Rosboch che Schifano forma la band “Le stelle di Mario Schifano”) ai movimenti della contestazione politica.

La mostra riguarda un periodo breve e intenso di Schifano, che lo vedeva da un lato impegnato a vivere, a condividere e a registrare in pittura i cambiamenti nel costume – a partire dalla conquistata libertà nelle relazioni e dalla liberazione sessuale” afferma il curatore della mostra, Marco Meneguzzo. “Inoltre costituisce un unicum e una prospettiva assolutamente nuova nella pur vastissima serie di mostre su di lui. In mostra sono esposte opere di grandi dimensioni, realizzate appositamente per personaggi che come lui stavano vivendo le stesse sensazioni, e mai più esposti da allora, come la stanza “Tutte stelle” – dal pavimento al soffitto un ambiente psichedelico – realizzato per Patrizia Ruspoli”.

Siamo orgogliosi di ospitare questa mostra nel nostro spazio, un ex convento, gioiello nascosto nel cuore di Milano. chiostro diventato oggi uno spazio privilegiato per sviluppare connessioni tra l’universo artistico e il contesto cittadino – afferma Andrea Pasquali, Amministratore Delegato di Hopafin S.P.A.

E la sensazione che vi porterete addosso, dopo la visita alla mostra, è di leggerezza autentica, un riassunto di tutta la sua vita, dagli incontri al Caffè Rosati di Roma, con gli altri Fellini, Moravia e Pasolini, ci si ritrova l’eco di quelle conversazioni; dai colori della Factory di New York, si sente il profumo della psichedelia e tutto quell’apparente caos della sperimentazione ossessiva e assetata che l’immensa e numerosa produzione artistica può confermare.

Mario Schifano. Compagni in un’oasi sotto il cielo stellato” è forse quella cuspide di civiltà che gli affamati d’arte e di vita come noi aspettavano.

MARIO SCHIFANO. COMPAGNI IN UN’OASI SOTTO IL CIELO STELLATO
DATE: 17 aprile – 19 maggio 2024
LUOGO: SPAZIO ROSETO, corso Garibaldi 95, Milano
Dal martedì alla domenica dalle 10.00 alle 19.00

Calcaterra Fall Winter 2024/25

Matèria

Calcaterra Fall-Winter 2024/25

Se esiste un capospalla perfetto, è certamente firmato Calcaterra, che in questa collezione Fall Winter 2024/25 lo rende il protagonista del guardaroba.

Dalle misure over e dalle strutture geometriche, il caposcala si fa comodo, dalle lunghezze maxi, lasciando libero il corpo e arricchendosi di dettagli femminili, come i maxi fiori applicati o lasciando uscire i fiocchi e le stoffe della camicie.

Chic, mai costretta in abiti seconda pelle, la donna Calcaterra è libera dalle costrizioni, gioca con le forme maschili, gli accessori come le borse diventano dei maxi contenitori dalle forme geometriche, rotondi, rettangolari e trapezoidali, quasi degli origami che aprendosi svelano uno spazio nascosto.

Notte o giorno non ha più importanza, bisogna essere sempre pronte ed eleganti, per cui il raso e le sete si coprono di pellicce e le giacche si scoprono con tagli alla Fontana.

Se il look è sciolto, i capelli sono perfetti, impomatati in un’acconciatura con riga laterale e dal taglio maschile, corto sempre più corto, per non doversene preoccupare.

Pantaloni con riga perfettamente stirata, dalla vita alta, altissima, sì ai guanti e meno ai gioielli, pochi ma dalle stesse linee dell’outfit, con cerchi e catene maxi; i colori sono quelli caldi dell’autunno, perfetti per un genere “autumn deep warm“, ruggine, bordeaux, zafferano, torba, bianco latte, dattero, rosa antico, geranio, verde bosco, tabacco, un bellissimo bouquet che scalda.

La collezione di Daniele Calcaterra è ricca della materia di cui è fatta la terra, dei suoi colori e delle sue profondità; sceglie i tessuti più pregiati, lane, sete, shetland, cotoni preziosi, alpaca e upcycled fur. I veri gioielli sono i fiori, che ritornano su capispalle e scarpe, il giglio pure e la peonia.

Antonio Marras FW24/25, il legame indissolubile con la sua terra e un omaggio alla forza delle donne

Antonio Marras FW24/25, il legame indissolubile con la sua terra e un omaggio alla forza delle donne

Teatrale e poetico come sempre, Antonio Marras omaggia nella collezione autunno inverno 2024/25 un personaggio femminile che ha difeso i diritti delle donne, Eleonora d’Arborea, Principessa 👑 medievale di Sardegna.

Vissuta tra la metà del 1300 e i primi ‘400, la Judicissa si è battuta per le ingiustizie e ha redatto trattati a favore del “sesso debole”; sudditi e regnanti si mescolano in questa sfilata, dove compaiono cavalieri e dame, cotte di maglia e copricapi danteschi, acconciature prese direttamente dal ritratto “Dama con ermellino” di Leonardo da Vinci (1452-1519), testi scritti sui volti femminili che sembrano veli, maschere di perle, donne in armature dorate. 

Qui Marras accarezza ancora una volta la donna, ne sottolinea il carattere e la forza, l’intelligenza e la perseveranza, un atto di amore a cui ci ha abituati, insieme ad una scenografia e ad un mini spettacolo teatrale che tiene incollati e che invoglia a vederne il finale.

(foto Alessandro Lucioni)

Flower Burger festeggia 8 anni di colore e gusto

Se avete visto una vetrina di panini colorati, è certamente quella di Flower Burger, che ha fatto del colore il suo tratto distintivo. Ma non solo, perchè Flower Burger ha da sempre sostenuto la cucina vegan, con un approccio inclusivo. Una strategia che abbraccia tutti i gusti e tutte le scelte, accompagnando anche l’onnivoro in quello che per Flower Burger è etica con gusto.


Il primo Flower Burger è nato a Milano nel 2015 ed oggi è diventato il primo vegan fast food per punti vendita al mondo; conta infatti 20 store tra Italia, Francia e Olanda, sviluppando un marchio inclusivo plant-based attraverso proposte di colorati hamburger e gustosi dessert vegani.

Founder è Matteo Toto, imprenditore under 40 che comprendendo la forte assenza sul mercato italiano di proposte vegan di fast food, concretizza passo dopo passo il nuovissimo concept, dalla prima apertura in Porta Venezia fino al suo modello odierno di business, suddiviso in tre unità:

– la Flower Factory, centro produttivo dei core ingredients
– i punti vendita diretti situati in luoghi strategici a favore di mercato
– e i franchising.

La mission è dimostrare come si possa mangiare vegano senza rinunciare a gusto e divertimento, responsabilizzando il consumatore a un’alimentazione sana in locali rispecchianti la brand image colorata e frizzante. Pane colorato, salse artigianali, contorni sfiziosi, un menù di ricette studiate minuziosamente per rendere ciascun piatto unico, in equilibrio tra lo spirito salutista e l’amore per il fast food: un’offerta ricca e in continua evoluzione, capace di stupire anche i carnivori più scettici.

La visione positiva delle diversità si riflette così nel motto dell’azienda, “Different by nature”, valorizzando le differenze con elementi di originalità e unicità: amante e amato da una clientela sempre più variegata e diversificata, il brand diventa punto d’incontro per tutte le comunità.


Tutti i preparati sono fatti artigianalmente, dalle salse ai contorni, ai burger, non vengono usati coloranti o conservanti, il colore stesso dei panini è ottenuto dalle farine di carote viola, barbabietole e altri cibi che hanno naturalmente quel dato colore. Le bottiglie utilizzate in qualsiasi punto del mondo F.B. sono in PET 100% riciclabili e composte interamente di plastica riciclata. Ma la grande forza del progetto Flower Burger, che l’ha portato al successo, è l’abolizione di ogni stereotipo sul veganesimo. Quanti onnivori non sono mai entrati in un ristorante vegan? Moltissimi, spesso con l’unica ragione di avere il pregiudizio che vegan sia uguale ad assenza di gusto o carenza di scelte alimentari. Al contrario, da Flower Burger, vi accorgerete di quanto le verdure ed ogni singolo alimento acquisti sapore, proprio perchè cucinato con ingredienti naturali. Mangiare un panino qui significa provare un’esperienza nuova di gusto, che prima di tutto rallegra gli occhi.

Noi consigliamo il Cherry Bomb (l’impasto di farina di tipo 1 viene mixato alla polvere color rosa derivante dal succo di barbabietola chiarificato e concentrato; a tali pigmenti, l’estratto di ciliegia contribuisce alla tonalità finale del bun; con semi di sesamo), con pomodori confit, salsa rocktail (la sua realizzazione passa dalle salse più celebri al mondo: ketchup, senape e Flower Mayo, arricchite dal sapore marino dell’alga nori e dalla nota alcolica del brandy), flower cheddar (fette vegetali con gusto aromatico che richiama il tipico cheddar inglese, senza lattosio né latticini), burger di lenticchie (prima lessate, vengono poi mescolate con riso basmati e verdure tritate per dare vita ad un patty compatto e di sostanza), insalata gentilina e germogli di soia.


Festival di Sanremo, la parola agli stylist

Mai come in queste serate, la televisione ha la funzione del caminetto, tutti intorno ben disposti a riscaldarsi“,

Carlo Giuffrè in merito al Festival di Sanremo.

E lo è tutt’oggi un evento che unifica l’Italia, pronta a votare la canzone migliore, a giudicare i cachet da capogiro, a riconoscersi in un brano, ma soprattutto a valutare il look che si potrà copiare o fucilare fino al prossimo Sanremo.

Una corsa allo stylist più bravo, più inserito nel contesto moda, un palco a metà dove il cantautore si affida a quel ruolo oggi più che mai sotto i riflettori, lo stylist.

Li abbiamo intervistati per comprendere meglio cosa c’è dietro le loro scelte d’immagine.



SUSANNA AUSONI

Stylist di Annalisa

Questo è il Festival della canzone italiana o il Festival dello Stile?

E’ una domanda che rimando a te. Il disequilibrio tra musica e stile è stato creato dai giornalisti.
Il Festival dagli anni 2000, quelli dei miei inizi, ad oggi, è certamente cambiato, anche se è sempre stato un grande evento attenzionato, dove i contenuti sono sempre più importanti.
Oggi i giornali fanno le pagelle, è una moda che copiano tutti, spesso senza conoscere il lavoro che sta dietro al personaggio, voti dati a casaccio in maniera poco obiettiva. I social fanno il resto, un altro luogo di democraticizzazione del giudizio senza conoscenza. Sembra di vivere gli ’80, l’epoca dei paninari che compravano le Timberland omologandosi per sentirsi parte di un gruppo.

C’è una corsa al brand lusso acchiappalike?

Purtroppo sono in tanti a trincerarsi dietro il marchio, il pensiero è “piacere alla Milano fashionista per essere cool”; la verità è che si è perso il coraggio, quello che aveva Loredana Bertè nel lontano ’86 quando fece scandalo indossando sul Palco dell’Ariston un finto pancione.
E’ un vero peccato perchè il lavoro più interessante dello stylist sta nella ricerca, ma le famigerate pagelle fucilano i colleghi se scelgono brand minori, anche sconosciuti, ma che alle spalle hanno importantissimi uffici stile, notizia nota solo agli addetti al settore.

Quest’anno è il brand Dolce & Gabbana a vestire Annalisa, una scelta che esalta il made in Italy, perfetto per lei e coerente con il dna del Festival, per l’appunto Italiano.

Quanto è importante per la carriera di uno stylist, vestire un cantante ad un evento di portata nazionale?

C’è chi firma lavori anche senza avere una lunga esperienza, non sempre la competenza è sinonimo di successo.
Certo il Festival è un palco importante ma rischioso per chi fa questo mestiere, perchè si è sotto i riflettori, oggi più che in passato, e sbaglia anche chi ha tanti anni di lavoro alle spalle.
Il Festival regala uno spettacolo meraviglioso, dove per noi stylist si è però persa oggettività e freschezza.

FLORIANA SERANI

Stylist di Fred De Palma


Quanto lavoro psicologico, oltre che di ricerca stilistica, c’è nell’approccio al personaggio?

Personalmente cerco sempre di conoscere la persona prima del personaggio.
Chiedo di essere coinvolta nell’ascolto della canzone in gara, e di costruire intorno a questa, un immaginario visivo che dia forza al suo mondo musicale, partenza sempre dal cantante.

In queste tue scelte, la casa discografica e l’ufficio stampa del cantante, sono coinvolti?

Non in questo caso, anche se per alcune attività ad un certo punto del lavoro ci si confronta sempre.

Hai mai ricevuto richieste strambe da parte dei cantanti?

Spesso succede che richiedano stili non ancora sviluppati da designer, sembra assurdo ma la fantasia è tanta; e in questi casi si passa ad un lavoro di custom creativo, con l’appoggio di sarti. E’ la parte divertente del lavoro, creare ciò che ancora non esiste sul mercato.

Quanto coraggio hanno oggi gli stylist al Festival?

Dipende molto anche dal rapporto tra stylist-artista.
Conoscendo Fred De Palma da diversi anni, so che per lui è importante mantenere la sua identità, rispettando anche le “etichette” d’eleganza del Festival. Il mio lavoro è non snaturare l’artista e portare avanti il suo linguaggio streetwear che nel brand Ssheena ha avuto un buon alleato.

Che cosa fa la differenza in un lavoro di styling, rispetto ad un altro, al Festival di Sanremo?

L’essere di supporto all’artista, alla canzone, allo show. In sintesi lo chiamerei lavoro di coerenza.

GIUSEPPE MAGISTRO

Stylist dei The Kolors

Come si prepara uno stylist ad un Festival di Sanremo?

Con i The Kolors il lavoro è iniziato sei mesi fa, siamo partiti dalle ispirazioni anni ’80, dalle forme, dalle strutture delle giacche, dai gruppi funk come gli Spandau Ballet, ai look del cantante britannico Nick Kamen, cercando di sintetizzare quel periodo fantastico per la moda e attualizzandolo, semplificandolo. Il minimo comune denominatore trovato, ci ha portato alla pulizia e all’eleganza di Armani. Ne è uscita un’immagine dei The Kolors pulita e senza fronzoli, in target con Sanremo e soprattutto che ha saputo valorizzare tutti e tre i musicisti.

Quanto conta il loro gusto personale e quanto la visibilità che regala un determinato marchio?

Fondamentale per me è rispettare il dna dell’artista, perchè sul palco c’è un essere umano.
Io cerco di sapere il più possibile di loro, dei loro gusti, delle loro preferenze, andando a togliere il superfluo, puntando sulla qualità di certe scelte, sui tessuti, sulla sartorialità. Con Maison Armani, nella serata finale, ci saranno ricami, punti vita, pantaloni a palazzo vita alta, per un effetto wow. La fortuna con i The Kolors è che hanno non solo una grande passione per la moda, ma una fisicità adatta a supportare ogni tipo di richiesta.

Quanto ancora lancia icone di stile il Festival di Sanremo?

Oggi ci sono delle scelte nteressanti, il Festival è certamente un palco dove si sta tornando a sperimentare, ed è una bella sorpresa ripensando a 15 anni fa quando la ricerca andava scemando. Se anche i brand internazionali decidono di rappresentare i cantanti in gara, questo dovrebbe farci pensare che si è sulla giusta strada, che stiamo lanciando messaggi universali.

Sanremo 2024 – le interviste ai Negramaro e Mahmood

Dalla Sala Stampa Lucio Dalla del Festival di Sanremo, le conferenze stampa dei Negramaro e Mahmood

NEGRAMARO

Questa sera farete un duetto con Malika Ayane, un omaggio a Lucio Battisti con la cover “La canzone del sole”, com’è nata l’idea?

Battisti ha fatto irruzione nelle vostre vite, siamo tutti un po’ le canzoni di Battisti.

19 anni fa salivate sul Palco dell’Ariston con “Mentre tutto scorre”, oggi il ritorno.

E’ come un esame di maturità, una circolarità infinita; il claim di “Ricominciamo Tutto” non è casuale, abbiamo impresso con le parole momenti importanti, e Sanremo è una iniezione di fiducia e uno stimolo forte a fare della grande musica. Dopo 20 anni di concerti stupendi, Amadeus ci ha chiesto di tornare insieme, un gesto d’amicizia, per fare l’ultimo Sanremo in gara, con una canzone che è visione ed emozione.

Nel 2005 “Mentre tutto scorre” è stata eliminata da Sanremo, poi però siete risultati primi in classifica negli ascolti. Anche in questo Festival siete primi in radio ma non nella classifica generale.

Sanremo è un palco, se non lo si vive come gara, si suona come in un Festival Europeo. Noi porteremo sempre la nostra visione musicale, senza pensare troppo ai numeri, continuando a suonare per strada, davanti al mare, nelle cantine. Suonare, suonare ovunque.
Lasciamo i numeri a chi nasce con i numeri, a chi fa milioni di views sul web, ma non vende un disco.

Che messaggi vuole lanciare la vostra canzone?

Rinascere. Esistono persone che non riescono a rinascere pulite, come i carcerati, percepiti sotto l’occhio del pregiudizio. Se fosse così sempre e per tutti, questa vita sarebbe una prigione, dobbiamo invece dare la possibilità a tutti di sentirsi migliori e migliorati. Io stesso vorrei essere diverso agli occhi degli altri, e rinascere. Sempre.

Come si fa per mettere d’accordo due generazioni?

Si è Negramaro.
Io odiavo Modugno perchè era la musica di mio nonno, dopo 20 anni l’abbiamo compreso e accettato che fosse irraggiungibile. Anche noi saremo irraggiungibili.

Qual è il potere della musica?

La musica guarisce. Noi insieme, grazie alla musica, ne abbiamo superate tante.

MAMHOOD

Com’è nata “Tuta gold”?

“Tuta gold” rappresenta il nucleo del progetto scritto questa estate in Sardegna in un Airbnb, nei pomeriggi in spiaggia, è un viaggio tra passato e presente, dove racconto le mie prime relazioni adolescenziali, momenti meno facili che rappresentano chi sono oggi, la mia intimità, la mia empatia. Questo è certamente il disco più ematico che abbia mai scritto.

Questa sera il duetto con I tenores di Bitti, portando sul palco “Com’è profondo il mare”.

Se oggi siamo nella sala Lucio Dalla, non è certo un caso. Omaggio a Dalla con un capolavoro, “Com’è profondo il mare” insieme ai Tenores di Bitti. L’accoppiamento inedito di questa sera è il messaggio legato ai sentimenti, forti e violenti come le onde del mare.

I Tenores di Bitti:

“Ringraziamo Alessandro per la sua sensibilità e per averci dato la possibilità di condividere questa esperienza che è anche amore per la propria terra e le proprie origini”

Mahmood riassumi in una frase la canzone che hai scritto, che non sia il titolo

“Non paragonarmi a una bitch così”, che può sembrare una frase frivola, ma non lo è. La “tuta gold” in fondo è una corazza, e avere le palle di dirlo è valorizzare cosa si è ottenuto negli anni.

In che modo ti senti diverso e in che modo uguale dai tuoi inizi

La prima serata mi regala sempre il tremolìo, esattamente cinque minuti prima di salire sul palco. E’ ansia, panico, eccitazione, adrenalina, penso che se non ci fosse non amerei il mio lavoro.

Cambieresti per gli altri, per omologarti a ciò che oggi si vende di più?

Se lo facessi sarei una persona triste. Nella mia cameretta guardo gli anime in tv, ordino da McDonald, e ci ho speso molto tempo a chiedermi se un giorno sarei mai riuscito a fare questo nella vita; ho detto al mio manager “E se tutto questo finisse? Oggi c’è chi mi legge l’agenda degli appuntamenti, chi mi veste, chi mi porta a fare le interviste, se finisse tutto, penso spesso, mi ritroverei a fare il dentista? Se così fosse, scriverei ugualmente, la sera, dopo il lavoro.
Pensiamo a “Com’è profondo il mare”, vale molto più di mille interviste, di infinite riunioni, la canzone può essere più grande di un oceano.

Editoriale



HATE / LOVE


Se c’è qualcosa di forte che spinge al cambiamento, quella forza è l’amore. L’amore verso il prossimo, verso l’evoluzione, l’amore per il bene comune. Un’energia che non ha fondamenta perchè irradia tutto, anche l’invisibile; uno slancio di bene che regala senza chiedere.
E’ l’amore delle madri che amano i propri figli qualunque cosa facciano, l’amore di una compagna che cambia per il bene della coppia, l’amore per il progresso, operare per garantire a tutti un futuro migliore.
E come accettiamo l’esistenza del bene, dobbiamo riconoscere che esiste anche il male, l’odio, che assume altrettante infinite forme, il razzismo, la violenza, la condanna delle differenze, l’invidia, dietro cui si celano gli ignoranti, gli ottusi, i leoni da tastiera, o più comunemente detti, i mediocri. Perchè odiare è semplice, ma per amare ci vuole coraggio, significa mettersi in gioco, scoprire le carte, buttarsi senza paracadute, accettare e accogliere la sofferenza, che è parte della vita che ci hanno donato.

In questo numero di SNOB, il Numero 1, abbiamo voluto raccontare tutte le facce di quell’Amore e di quell’Odio. Abbiamo intervistato il grande attore e regista Sergio Rubini che ci ha rivelato perchè fuggiva dall’amore come dalle sue radici, mentre la cantante Giorgia ci ha spiegato come quel forte sentimento l’abbia salvata in un momento di dolore, attraverso la musica; l’artista internazionale Andrea Bianconi opera attraverso il mezzo del linguaggio, che diventa bene comune quando coinvolge nelle sue performance le detenute di un carcere. Anche la fotografia si è fatta portavoce della potenza dell’amore, ne sono la prova le Polaroid di Peppe Tortora, che rende eterna la sua città natale, un’area del Sud Italia da cui sono partite altre nobili anime che hanno portato la passionalità più vera, più autentica e drammatica in giro per il mondo, com’è stato il fenomeno della musica neomelodica, che in questo numero viene raccontato dal grande giornalista e critico musicale Federico Vacalebre, e che il noto e controverso fotografo Oliviero Toscani, ha riportato attraverso i ritratti di otto rappresentanti di questa eredità musicale.
E’ tra gli studi della criminologa e psicologa forense Roberta Bruzzone, che riconosciamo i profili dell’Odio sfociato in malattia ed è con questa attitudine alla ricerca, allo studio e alla verità, che SNOB si pone nello sviluppo di ogni numero, per dare un senso etico ed utile a quello che un mezzo d’informazione dovrebbe fare: aprire le menti.

M. MIRIAM DE NICOLÒ
EDITOR IN CHIEF

miriam@snobnonpertutti.it






Andrea Bianconi, l’elogio della follia

Interview Miriam De Nicolò
Photography Marco Onofri

Qual è la caratteristica più apprezzata di un artista? Fosse la naturalezza, Andrea Bianconi vincerebbe l’oro. La genuinità (quasi infantile), pare l’abbia conservata in una scatola dall’infanzia per farne uso nella sua quotidianità adulta di artista e perfomer; Andrea Bianconi lavora sull’essenza del linguaggio e della (ir)razionalità umana.
Dove andiamo? Qual è la nostra direzione? Cosa ci piace? Perché parliamo? Perché viviamo? Chi siamo? Sono solo alcuni dei quesiti che nella ricerca ossessiva l’artista si pone, una indagine personale che parte dalle (dis)sezioni dantesche Inferno, Purgatorio, Paradiso con “Fantastic Planet“, installazione del 2018 esposta al Centro Arte Moderna e Contemporanea di La Spezia, dove le frecce, simbolo di direzione (dove stiamo andando?) formano paesaggi immaginari scuri e cupi ma che lasciano uno spiraglio di luce, la salvezza verso un potenziale Paradiso.

Un mondo bianco simbolo di libertà, espressiva, spirituale, umana, quella libertà che Bianconi rappresenta attraverso lo spazio, fedele alleato del viaggio immaginario e reale del personale “Fantastic Planet”.
Nel 2018 catalizza l’attenzione dell’ONU, nella sede del quartier generale del Palazzo delle Nazioni Unite di Ginevra, facendo strillare contemporaneamente 25 sveglie nella performance “Time to ring“, monito al rispetto del Pianeta e della situazione ambientale. 
Arriva nel 2020 la pubblicazione di “Diario di un pre-carcerato”, uno stralcio reale dei giorni precedenti la performance al Carcere di San Vittore, dove l’artista porta “libertà”. L’installazione prevede delle gabbie appese di fronte ai cancelli, chiaro rimando alla situazione carceraria, intonando insieme alle detenute, che diventano parte dell’opera, una filastrocca attraverso cui liberare i propri desideri. 

Ma è l’ultimo progetto di Bianconi a contaminare l’Italia intera, SIT DOWN TO HAVE AN IDEA, l’iconica poltrona che ha toccato tutte le più importanti città del Bel Paese, arrivata fino alla vetta più alta delle Piccole Dolomiti; “Spedizione Cima Carega” è l’installazione permanente che permette a chi vorrà raggiungere quelle alture, di godere non solo del panorama, ma della fortuna di poter ottenere l’IDEA che questo oggetto magico può donare. 

Siamo sotto i portici di San Luca a Bologna, Patrimonio Unesco, i più lunghi del mondo, 4 km concepiti come percorso devozionale di pellegrinaggio e divenuti una palestra a cielo aperto. La poltrona nera è al centro e Andrea Bianconi si esibisce in un rito propiziatorio: “Esci Sole, Sole Esci“, muovendo le mani come un mago davanti al cilindro, “Esci Sole, Sole Esci” concentrato verso l’alto, e quando il Sole è finalmente venuto in nostro soccorso per la foto perfetta, sorride fiero come quando da bambina raccontavo d’essere una strega mostrando ai compagni di classe un anello con una pietra viola, dentro cui ci si poteva specchiare, come fosse la prova della mia appartenenza al mondo mistico. La fierezza di chi è convinto che il Sole sia uscito a suo comando. E così Andrea Bianconi dimostra di avere potere. Il potere dei bambini.

Gli esordi della tua opera artistica?
Era il 1997, studiavo giurisprudenza e condividevo casa con altri 4 ragazzi, uno di questi appese un quadro che mi disturbava moltissimo, rappresentava un paesaggio banale, ma era invalidante per i miei occhi, così decisi di crearne uno io, immaginario. Da allora non ho mai smesso di disegnare e ho capito anche la grande importanza del colore.

Che cosa hai provato quando hai disegnato il tuo primo quadro?
Libertà totale, una felicità che arrivava fino alla punta del capello, sentivo la testa ballare.
Avevo vent’anni, l’età dell’onnipotenza, un giorno chiesi ad un signore: “Ma se volessi diventare famoso?” Mi rispose che avrei dovuto fare un monumento. E lo feci, due anni dopo, per la città di Arzignano. Si chiama “La scatola della realtà” ed è dedicato a los desaparecidos.

La gabbia è un oggetto ridondante nei tuoi lavori, era già dentro di te?
Sì, era già desiderio di evasione.

C’è un po’ di follia in tutto il tuo percorso creativo?
Tantissima follia e tantissima coscienza, che dall’alto controlla.

Come descriveresti il tuo stile?
In continua trasformazione.

Che cosa vuoi raccontare attraverso l’arte?
Indago le connessioni, la relazione tra l’uomo e le altre energie, la relazione tra l’uomo e il potere, che ho cercato di esprimere attraverso la performance “Time to ring”, la relazione tra la stupidità e l’essere umano descritto nel mio ultimo libro “Manuale per esercitare la propria stupidità”, edizione Skira. 

E cosa hai scoperto dell’essere umano attraverso queste ricerche?
Che ogni essere umano viaggia verso una direzione. 

Se fossi un simbolo?
Sarei una freccia, un simbolo universale. Indica una direzione, perché il nostro sguardo ha una direzione, il nostro respiro, il battito del cuore, il linguaggio, un gesto, bere una tazzina di caffè, il sorgere del sole, il tramonto, una foglia che cade, un fiore che nasce, la nostra stessa vita ha una direzione, come il nostro credo, i nostri passi, i nostri pensieri, le idee, i sogni e desideri. Io sono una direzione tra mille direzioni. 

Come vedi gli altri?
L’Altro è per me non solo indispensabile, ma vitale. 
Cerco nell’altro una potenziale connessione, vivo con l’Altro l’imprevisto entrando in culture e pensieri nuovi, diversi dai miei, che possano in qualche modo illuminarmi. Vivo dell’altro gioie e tristezze. L’Altro diventa la mia performance. 


Week end a Bologna tra fotografia ed arte

Bologna è come una donna sincera, con i seni morbidi, il sorriso aperto, i modi semplici e il fare bonario. Non si nasconde, non recita, è buona come le sue infinite e caotiche trattorie.
Ci da’ sempre l’occasione di arricchirci di quelle sensazioni profonde che non danno né i quadri nè gli oggetti, ma la vita stessa. Le potete percepire nei vicoli natalizi che agitano la città, tra la folla allegra in cerca di regali, i turisti appaesati, nelle osterie tradizionali dove l’oste si premura che stiate bene, abbiate mangiato meglio e vi siate riparati dal freddo invernale con un buon piatto di cappelletti in brodo.

Forse ci somigliano un po’ tutti se queste piccole coccole ci alleviano i dolori, e in queste piccole gentilezze, Bologna ci regala degli appuntamenti assolutamente da non perdere, quattro tappe in città da raggiungere a piedi.

LA MOSTRA DI VIVIAN MAIER
A PALAZZO PALLAVICINI
Dal 07 settembre 2023 al 28 gennaio 2024 in via San Felice 24 

La mostra di Vivian Maier a Palazzo Pallavicini ci racconta l’architettura urbana tra New York e Chicago negli anni ’50-’60, l’eleganza delle auto e dei costumi, le abitudini e le mode.
La “bambinaia fotografa”, così l’hanno soprannominata quando le sue pellicole furono ritrovate in scatoloni nascosti e accumulati in un box dimenticato, ci svela tutta la bellezza della stranezza, negli scatti delle periferie abitate da prostitute, senzatetto, giganti buoni che guardano una vetrina insieme ad un amico “ordinario”, tanto da ricordare Diane Arbus e la sua ricerca amorevole dei “freak“.

La strada era il suo teatro di posa, non c’è immagine che risulti banale, ogni composizione è scelta per caratterizzare il soggetto, un dettaglio, un gesto, una coppia che si tiene per mano, un bianco che offre delle monetine ad un nero, un edicolante assonato, una coppia di amiche con un collo di pelliccia in volpe un poco macabro, un’elegante signora che guarda lontano. Tutto ci parla con intensità della sua visione del mondo; lo fa senza giudicare, avvicina solo un poco lo sguardo attraverso la sua macchina fotografica, per farci guardare meglio, ma sempre con estrema delicatezza.

Anche nei tagli netti, Vivian Mayer riesce a cogliere il cuore del momento, come nella foto datata 18 settembre 1962 dove una bambina di bianco vestita tiene per la gonna la madre dal tubino nero e le décolleté a spillo. La Mayer qui sceglie di tagliare i volti e concentrarsi sul bianco candido della piccina e il nero serioso della donna, mettendosi all’altezza dei più deboli, di chi necessita di attenzioni e conserva ancora la purezza dell’età.

Credo che con l’avvento del colore e l’utilizzo della Leica (siamo nei ’70), Vivian Maier abbia forse un po’ perso quell’intensità e quella crudezza dei primi tempi in bianco e nero; forse qualcosa è cambiato anche nella sua vita, anche se sul suo conto sappiamo poco o nulla, a parte il suo mestiere di bambinaia che le permetteva di acquistare pellicole e viaggiare parecchio insieme alle famiglie, e che era diventata un’accumulatrice seriale di giornali che trattavano tematiche sociali, politiche, ma soprattutto di cronaca nera. Pile e pile di quotidiani furono ritrovati nelle stanze dove viveva, e altrettante scene del crimine furono immortalate nelle sue fotografie e nei brevi video che in questa mostra troverete.

Il lavoro di Vivian Maier rimane comunque un mistero, qualcuno ancora pensa che sia una trovata di marketing fatta dallo scavatore d’oro di questa artista meravigliosa, ma i suoi autoritratti ci parlano di una donna in carne ed ossa, che ha rinunciato alla maternità per dedicarsi tutta una vita ai bambini degli altri, e che con grande generosità ci ha regalato immagini di un’epoca che possiamo vivere attraverso i suoi occhi, di una New York degli invisibili, di una street photography che ha potenza, ironia, evocazione, allusione, come quel profilo d’uomo col cappello nero, che tiene in mano un giornale da cui si legge solo “Killers”.

GUERCINO
Pinacoteca Nazionale di Bologna
28 ottobre 2023 -11 febbraio 2024

Dopo quasi un secolo di studi dedicati alla figura di Giovanni Francesco Barbieri detto il Guercino, l’esposizione della Pinacoteca Nazionale di Bologna intende fare luce sulle straordinarie doti imprenditoriali, tecniche e organizzative che, sin dalle prime fasi della sua attività, lo portarono a strutturare un atelier prolifico, caratterizzato da complesse dinamiche professionali che rispondevano alle esigenze del collezionismo e del mercato artistico.

Nato a Cento nel 1591, il Guercino studiò dapprima con Benedetto Gennari senior e poi completò la sua formazione tra Modena e Bologna, entrando in contatto con specialisti della pittura murale e con rinomati esponenti della scuola bolognese, tra cui Ludovico Carracci col quale ebbe un rapporto di reciproca stima. Dopo il soggiorno a Roma (1621-1623) su invito di papa Gregorio XV Ludovisi, che ne ammirava le straordinarie abilità di decoratore e la maniera sprezzante e robusta, la fama del Guercino crebbe e, con essa, anche la mole di lavoro che lo portò a organizzare il suo studio come un’azienda familiare e a disciplinare il lavoro dei suoi assistenti, tra i quali vi erano i Gennari e il fratello Paolo Antonio, ognuno con un preciso compito, artistico o gestionale.
Dal 1642 fino alla morte avvenuta nel 1666 il Guercino visse con i suoi familiari nella grande casa studio di via Sant’Alò 3, in cui l’abitazione privata e gli spazi professionali coincidevano.

In una delle sale, sotto una grande teca, è esposto il Libro dei conti (1629-1666), uno strumento insostituibile nello studio del Guercino, che consente di ricostruire con precisione l’attività dell’artista tra il 1629 e il 1666, anno della sua scomparsa. Grazie al prezioso registro è possibile mettere a fuoco la clientela dello studio, la tipologia delle opere prodotte – oltre che dal Guercino anche dal fratello Paolo Antonio Barbieri – e le variazioni dei prezzi nel corso degli anni. L’ultima nota, stesa da Benedetto Gennari il 22 dicembre 1666 ricorda la scomparsa del celebre pittore e la sua importante eredità: “II Sig. Zio Giovanni Francesco Barbieri terminò i suoi giorni, e le sue gloriose fatiche lasciando in tutte le Città d’Italia, et anche fuori memoria eterna della sua Virtù, come della sua bontà e delle sue facoltà ne lasciò Heredi noi Benedetto, e cesare Gennari suoi nipoti”.

Di particolare pregio, il dipinto “Ortolana” del 1655, ci introduce al tema delle specializzazioni praticate nello studio: Paolo Antonio è l’autore del brano di natura morta, con i commestibili investiti da un lume che ne rivela le consistenze e indugia sul sottile pulviscolo delle prugne, riverse accanto alla stadera della venditrice, che fu eseguita in un secondo momento dal Guercino. La tela è ricordata in termini elogiativi da Carlo Cesare Malvasia (1678), che informa della sua originaria collocazione nella villa suburbana dei Ludovisi a Roma, dove giunse dopo essere stata acquistata dal marchese Achille Albergati nel 1655.

Il dipinto “San Giovanni Evangelista” del 1653 circa raffigura il santo mentre sorregge un calice da cui esce un serpente, rievoca l’episodio secondo cui l’apostolo avrebbe bevuto del vino avvelenato rimanendone incolume. La luce, proveniente da destra, illumina i lineamenti delicati del giovane e produce riflessi sulla lamina dorata del calice che acquista un efficace effetto prospettico. Gli allievi del Guercino riproporranno, in quadri da stanza e mezze figure, la partecipazione emotiva e l’intimo raccoglimento espressi in questo dipinto, esposto per la prima volta in un museo.

Santa Maria Maddalena e San Paolo Eremita rispettivamente del 1652-1655 erano parte di una serie di quattro dipinti che il Guercino, secondo quanto tramanda Carlo Cesare Malvasia, che avrebbe eseguito per arredare la sua casa bolognese in via Sant’Alò. Esemplari dell’attività tarda, le opere testimoniano il perdurare dell’interesse per il paesaggio a cui il pittore concede un ruolo predominante. I toni accesi e contrastati della fase giovanile si trasformano in delicate tonalità pastello, testimonianza del rinnovato interesse classicista stimolato dall’incontro con la pittura di Guido Reni, il cui approfondimento avvenne col trasferimento del Guercino a Bologna nel 1642.


IRIDE
Via Caduti di Cefalonia, 2/d

C’è una parte del nostro corpo che vede ma che noi non possiamo guardare realmente da vicino. I nostri occhi. Che osservano e indagano, ma che lo specchio non riporta fedelmente. Di questo misterioso mondo che è l’iride,
nello studio Limbo Gallery di Bologna, sito in via Caduti di Cefalonia, potrete ottenere l’immagine ingrandita, nelle sue infinite sfumature, colori che non avreste immaginato, figure astratte e lapilli, aurore boreali, crateri e lune. L’iride diventa una vera e propria opera d’arte, e con un piccolo servizio aggiuntivo, potrete richiedere anche la lettura ad una iridologa legata al progetto; sì perchè se è vero il detto che “gli occhi non mentono”, l’esperta leggerà lo stato di salute dei vostri organi interni, fegato, reni, stomaco etc. e alcuni tratti del vostro carattere, similmente allo studio della fisiognomica.



OPERA UNICA
Via Caduti di Cefalonia, 2/d

In Via Caduti nel centro storico di Bologna, Marco Onofri ha fondato il progetto “Opera Unica“.
Non solo per nostalgici, Opera Unica è un bellissimo regalo che potrete fare a voi stessi o alla vostra famiglia, un ritratto intimo in bianco e nero, una foto stampata che vi racconta senza filtri, attraverso gli occhi di un fotografo che fa della gentilezza la sua firma. Marco Onofri riesce davvero a catturare quel tratto che cercate di nascondere e che in fondo, come spesso succede, vi rende invece speciali, unici. Uno sguardo malinconico, un sorriso spontaneo, un accenno di timidezza, Opera Unica sarà il ritratto onesto e fedele a voi stessi, che potrete portarvi a casa subito, scegliendo i diversi tipi di stampa.

Da Opera Unica i ritratti di famiglia accolgono anche i vostri amici a quattro zampe, simpatici cagnetti pelosi che negli scatti ricordano le ironiche immagini di Elliott Erwitt, il grande fotografo statunitense che ci ha lasciato il mese scorso. Momenti di grande ilarità, divertimento e grande commozione, da Opera Unica vivrete un’esperienza, unica.

Eisenberg Paris presenta a Caffè Trussardi il nuovo duo cosmetico anti-invecchiamento

Eccellenza in ambito cosmetico, Eisenberg Paris è riconosciuto da sempre per l’impegno nella ricerca costante degli ingredienti utili al mantenimento di una pelle giovane.

Dopo il grande successo della loro FORMULA TRIO-MOLECOLARE, una sinergia rivoluzionaria di tre molecole – enzimi, citochine e biostimoline – che rigenera, energizza e ossigena la pelle, oggi Eisenberg presenta al mercato un’accoppiata di prodotti unici che lavorano in maniera visibile e certificata, sui segni dell’invecchiamento, trattasi dei

 1. The Eye Serum 

 2. Crème Raffermissante Remodelante

Nella splendida location di Caffè Trussardi a Milano, Eisenberg festeggia il risultato di una lunga ricerca, che sicuramente farà innamorare le fedeli del brand e a chi ancora al grande marchio della cosmesi lusso non si è avvicinato.

1. The Eye Serum 
Un siero occhi super concentrato, composto da una miscela di vitamine extra liftanti, idratanti, defaticanti, vegetali e peptidi, che aiuta a correggere le rughe delle palpebre cadenti e delle zampe di gallina, ridurre le occhiaie e migliorare la microcircolazione. Un siero gel delicato ma potenziato per combattere l’invecchiamento precoce e ottenere un contorno occhi liftato, liscio e tonico.

2. Crème Raffermissante Remodelante
Una crema viso e occhi multivitaminica con potenti proprietà anti-age; contiene vitamine anti-radicali liberi, un estratto di Shiitake Selvatico, un principio attivo chiave per la compattezza e l’elasticità, così come oli, piante e peptidi. Una formula leggera ma nutriente per ridurre le rughe, levigare, illuminare e rimodellare il contorno del viso, che appare subito più giovane, rilassato e dall’incarnato radioso.

Il duo ideato da Eisenberg è la routine perfetta per liftare, rassodare, rimpolpare ed illuminare, frutto dell’expertise anti-age di EISENBERG riconosciuta a livello mondiale. L’esclusiva Formula Trio-Moléculaire® è un vero booster di giovinezza, arricchita da una potente miscela di ingredienti mirati come: Estratto di Tè Verde, Peptidi di Riso e Olio di Semi d’Uva, nonché principi attivi specifici per ogni formula. Risultati spettacolari e comprovati per dare alla pelle tutti i nutrienti di cui ha bisogno per rigenerarsi e ritrovare luminosità, compattezza e idratazione, riducendo la comparsa di rughe e linee sottili.




“L’abito non fa il vino”, cosa rivela la collaborazione irriverente tra Caseo e Santè Couture.

L’abito non fa il vino
è il proverbio che si potrebbe coniare dopo la collaborazione tra Caseo, azienda vinicola e Santè Couture, brand di abbigliamento. La partnership nata per vestire letteralmente le bottiglie di vino. Non una glacette, ma un abito, una gonna, una camicia da abbinare eventualmente alla mise en place; le iconiche camicie Santè Couture, abbottonate anarchicamente a caso, o la loro firma a plissé delle gonne genderless, una stramba accoppiata che certamente fa parlare, perchè eravamo abituati a vestire le bambole da piccine, ed oggi potremmo tornare a giocare da adulte scambiandoci gli indumenti per il vino a tavola.

Irriverente questa collaborazione tra la Tenuta Caseo dell’Oltrepò Pavese della storica famiglia Tommasi e il nuovo marchio moda fondato da due giovani stilisti veronesi, Anna Michelotto e Mattia Tirapelle, che certamente di vino se ne intendono.
Una capsule collection che conta solo 100 bottiglie ed è in vendita sul sito ufficiale.
Vestiamo bambole, vestiamo in nostri cani, da oggi vestiremo anche il nostro vino, nelle tre versioni Caseo Metodo Classico:

– 410 Chardonnay
– 470 Pinot Nero
– 530 Pinot Nero Rosé

Il primo, un classico per iniziare o per un welcome drink, il secondo, una eccellenza del territorio e della forma più elegante di bollicine, e un rosè per colorare le tavole e dare il benvenuto ad un nuovo modo di comunicare, che Tenuta Caseo ha certamente abbracciato.

Siamo fedeli alla tradizione e rigorosi nella tecnica solo in vigna e in cantina!” afferma Giancarlo Tommasi, direttore tecnico di Tommasi Family Estates.  “L’Oltrepò Pavese è una regione da riscoprire e rappresenta una nuova opportunità di mercato e per il Made in Italy sia per il territorio meraviglioso sia per la qualità dei vini prodotti, in particolare il Pinot Nero. La personalità di Caseo è irriverente, fuori dagli schemi, per certi versi dissacrante. Un’attitudine non convenzionale che sonda nuovi contesti e si rivolge ad un pubblico giovane. Un’anima che si immerge e si intreccia in modo fluido nel mondo dell’arte, della moda, e dell’estetica con l’obiettivo di scardinare i preconcetti e sondare nuovi linguaggi ed espressioni. Con questo progetto vogliamo che il vino parli in chiave contemporanea e creativa. Come un ready-made dadaista, l’oggetto viene estrapolato dal suo contesto originario perdendo ogni funzione pratica. Il vino “vestito” si eleva a divulgatore di nuovi significati, valori e tendenze. Indossando le creazioni di Santé Couture, Caseo sfida le norme di genere, sostiene l’inclusività e l’espressione di sé, senza curarsi dei pregiudizi, mantenendo la propria identità e suggerendo occasioni di consumo originali“.