“Streight”l’omaggio dell’artista Pejac a chi combatte la pandemia

“Streight”l’omaggio dell’artista Pejac a chi combatte la pandemia

Nel particolare momento in cui viviamo, è facile che la paura e l’incertezza prendano il sopravvento, ma non devono mai mancare la gratitudine e la speranza verso chi lotta contro il virus.

Pejac, artista riconosciuto a livello mondiale le cui opere sono state esposte in città come Parigi, Londra o Venezia, dedica questo progetto a Santander sua città natale, come ringraziamento agli operatori sanitari della Cantabria per il loro immenso sforzo nella lotta contro la pandemia.

L’artista ha dichiarato: “From the first moment, the hospital has been receptive and enthusiasticand that has made the project flow in a harmonious and easy way..”. Fin dall’inizio, come spiega l’artista, l’ospedale è stato molto entusiasta e ben predisposto verso la sua proposta, rendendo il tutto più fluido ed armonioso.

L’artista cantabrico ha lasciato la sua impronta su diverse facciate dell’Ospedale Universitario Marqués de Valdecilla, a Santander, per rendere omaggio alle vittime del COVID-19 e per dare loro incoraggiamento e forza. Si tratta di un progetto composto da tre murales, situati su diverse pareti dell’ospedale, che cercano di trasmettere un messaggio di ottimismo davanti l’attuale difficile situazione.

Nella seconda metà di settembre, Pejac ha usato le pareti dell’Ospedale Universitario Marqués come delle tele: ‘Social Distancing’, ‘Overcoming’ e ‘Caress’ sono le tre opere che fanno già parte dell’ospedale cantabrico.

Il murales ‘Social Distancing’ gioca con il concetto di illusione ottica. Vista da lontano si presenta come una crepa nel muro, tuttavia da vicino la percezione cambia. La fessura profonda si scopre essere una moltitudine di persone i cui piccoli gesti di solidarietà ed affetto trasmettono ottimismo, invitandoci a pensare ad un futuro migliore. Proprio tra la folla, si possono notare gesti di empatia, amore che mirano ad un futuro migliore.

‘Overcoming’ è stato realizzato con la collaborazione di diversi pazienti del reparto di oncologia infantile che, con le loro mani, lo hanno aiutato a colorarlo condividendo così quella che l’artista definisce “un’esperienza indimenticabile” a livello artistico, ma soprattutto a livello personale.

In questo lavoro, osserviamo un bambino che riesce a raggiungere un punto molto alto, utilizzando la sua sedia a rotelle come una scala. L’artista riferendosi al bimbo,dice:“This is something that we, as a society could do – take this crisis anduse it to propel us forward”. – è qualcosa che potremmo fare come società: prendere questa crisi e usarla per spingerci avanti”.

‘Caress’ vuole farci riflettere su ciò che viene vissuto ogni giorno in ospedale. Due sagome nere, separate, sono ricreate sul muro. Non si possono toccare, ma le loro ombre proiettate per terra, simboleggiano quella necessità e volontà di avere di nuovo il contatto fisico, pertanto, sono riempite di colore. Con questo murales, l’artista voleva trasformare le ombre del medico e del paziente in uno stagno pieno di vita, rendendo omaggio a uno dei suoi pittori preferiti, Monet, e le sue ninfee.

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Pietro Cataudella: quando i disegni si fondono con la realtà

Pietro Cataudella: quando i disegni si fondono con la realtà

Pietro Cataudella, classe 1991, è un illustratore e content creator siciliano molto conosciuto sui social network, in particolare Instagram.

CityliveSketch è il suo progetto nato nel 2014, con lo scopo di mostrare la bellezza dei luoghi iconici, le vedute più caratteristiche del mondo, le scene dei film ed i libri più conosciuti. Per condividere tutto questo, Pietro combina in maniera impeccabile le fotografie con i disegni che realizza su un semplice quaderno da viaggio.

Pratica, perseveranza ed entusiasmo, hanno portato Pietro ad arricchire la realtà, trasformandola in un vero racconto grazie ai suoi fantasiosi disegni.

La rivista D-Art ha avuto modo di intervistarlo, ecco a voi le domande:

Parlaci meglio del tuo progetto CityliveSketch: da dove nasce l’idea e quale è stato il primo disegno?

CityLiveSketch nasce dal desiderio di voler condividere immagini che non fossero solamente fotografie, ma dei contenuti più personali e originali.

Ho deciso così di unire le mie passioni per fotografia e disegno per realizzare qualcosa di nuovo. L’idea è nata nell’estate del 2014 a Marzamemi, piccolo borgo marinaro e frazione del mio paese di origine, Pachino, in provincia di Siracusa. Questo il primo CityLiveSketch:

Dove trovi l’ispirazione?

Da tutto ciò che mi circonda, paesaggi, scorci, monumenti o oggetti di uso comune.

Come realizzi i tuoi disegni e le relative fotografie?

Inizialmente i disegni li realizzavo a matita o penna su un taccuino. Da alcuni anni ho aggiunto al mio workflow il disegno digitale. Per quanto riguarda le fotografie, le scatto tutte con smartphone.

A quale disegno sei maggiormente legato e perché?

Ad oggi sono molto legato a questa illustrazione, realizzata durate il periodo di lockdown perché è una sorta di inno al ricongiungimento con i propri cari.

Ti ispiri a qualche artista in particolare?

Non proprio, cerco di avere sempre un mio stile riconoscibile.

Progetti per il futuro?

Spero di poter tornare presto a viaggiare in totale serenità e sicurezza per scoprire nuovi posti ed includerli in maniera creativa ed originale al mio progetto @CityLiveSketch.

Coronavirus, 10 musei dal divano di casa

Coronavirus, 10 musei dal divano di casa 



Se la cultura è un bene di tutti, ora più che mai i paesi si uniscono per dire che è anche accessibile a tutti. 



Causa emergenza COVID-19, anche i Musei e i luoghi di culto hanno chiuso le porte ma non l’accesso virtuale; la cosa bella è che comodamente sdraiati sul divano di casa, possiamo prendere un aereo immaginario e volare fino a New York o a San Pietroburgo per visitare il MOMA e l’Hermitage. Niente code, nessuna folla davanti ai quadri, niente commenti sciocchi alle vostre spalle: “Oh bello, Oh meraviglioso, Oh cos’è sta roba?!”… Potrete goderveli e studiarveli dimenticandovi del tempo, soffermarvi sui dettagli quanto vorrete, esplorare le opere d’arte ad alta definizione, camminare verso le stanze vuote. 

Qui alcuni tra i musei nazionali e internazionali che offrono il servizio online e altri su cui potrete finalmente dedicare il vostro tempo ad imparare l’arte, e a metterla da parte. 

1. MUSEO DEL PRADO 



Una delle opere più significative dell’arte figurativa europea è il “Saturno che divora i figli” di Francisco Goya (1821-23), conservato al Museo del Prado di Madrid
Secondo la mitologia greca Crono, il più giovane dei Titani, il protagonista del dipinto, sapeva che sarebbe stato privato del potere da uno dei suoi figli, cosicche’, preso dalla rabbia, iniziò a divorarli tutti uno ad uno. La foga, la pazzia, il cannibalismo di Crono è in netto contrasto con la debolezza del piccolo corpo deturpato e sanguinolento; il piccolo non può nulla contro l’esplosione cieca della violenza. E’ un’opera cruda di una ferocia che si legge sulle mani dure e nervose di Saturno che non allenta la preda di quel corpicino innocente. Immerso nel buio più nero, la scena potrebbe significare il conflitto tra vecchiaia e gioventù, oppure il ritorno di un assolutismo in Spagna che limitava ogni forma di libertà intellettuale. 

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Francisco Goya – Saturno che divora i figli 

2. PINACOTECA DI BRERA – MILANO 

Mai quadro fu così adatto a dare speranza agli italiani come il famoso Bacio di Francesco Hayez. Un inno alla gioia, un simbolo di speranza e di patriottismo, il quadro icona della Pinacoteca di Brera
Il capolavoro più copiato e ristampato nella storia, è stato realizzato nel 1859 e ripercorre i fatti nel periodo in cui l’Italia venne suddivisa in tanti piccoli stati sotto il dominio degli Asburgo d’Austria. Periodo nel quale gli italiani, uniti nonostante la divisione, crearono dei gruppi, delle piccole società segrete che avevano lo scopo di restituire dignità al paese. Mi sembra ci sia una forte attinenza col periodo che stiamo vivendo. Un popolo che canta l’inno di Mameli in questi giorni di reclusione forzata, un popolo che si abbraccia da lontano, che col canto e con la musica regala speranza e la voglia di farcela, nonostante tutto. 

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Il Bacio – Francesco Hayez

3. BRITISH MUSEUM – LONDRA 
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4. MUSEO ARCHEOLOGICO – ATENE 
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5. MUSEE D’ORSAY – PARIGI 

Lo stagno delle ninfee” di Claude Monet riprende una serie di ponti che l’artista si accingeva a dipingere in diverse ore del giorno. La luce, questa era la migliore amica di un grande pittore, per conoscerla, per riconoscerla, bisognava studiarla notte e dì, quando era calda di Sole o fredda di Luna. Il ponte da lui stesso costruito nei giardini della sua abitazione, taglia a metà la ricca vegetazione che da un lato si erge verso il cielo e dall’altro si specchia nelle acque. Quei dolci e sussurranti fiorellini che sono ninfee dai toni pastello, ricordano tanto i giardini giapponesi e le sue rappresentazioni. In un morbido letto di verde, spuntano come piccole vite capaci di donare gioia e speranza. 

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Lo stagno delle ninfee” – Claude Monet

6. LOUVRE – PARIGI

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7. LE GALLERIE DEGLI UFFIZI – GIARDINO DEI BOBOLI – FIRENZE 

Chi ha avuto la fortuna di vagare attraverso il Giardino dei Boboli sa che un tour viruale non potrà regalare la stessa sensazione di immersione totale in un mondo astratto e ovattato.

Lo visitai per la prima volta dodici anni fa, di fronte a Palazzo Pitti esisteva ancora un Internet Point, dove mi recai per aggiornare il mio stato Facebook e raccontare del mio viaggio in solitaria a Firenze. Uno dei ragazzi del negozio mi si avvicinò e mi dette un consiglio molto prezioso, e cioè quello di non attraversare il percorso visibile dei Giardini, quello a linea retta tagliato al centro dai gradoni, ma di prendere le vie laterali e immergermi totalmente nel verde. Lo ascoltai e se potessi rintracciarlo lo ringrazierei perchè quella passeggiata nell’arte mi ha regalato non poche emozioni.


Il Viale dei Cipressi è un tunnel di arbusti fitto fitto che parte da terra e si riunisce sopra la tua testa; in piena estate creava un nido buio e silenzioso che mi proteggeva dal brusìo e dal cicaleccio dei turisti; ed erano tanti. D’improvviso, nel fruscìo delicato dalle foglie mosse da qualche animaletto indiscreto, vidi comparire dietro di me un gatto, nero, che mi fissava immobile. Non appena riprendevo a camminare, lui da dietro mi seguiva, in modo felpato, per poi rifermarsi quando dalle spalle gli mostravo il volto. Non ho mai capito cosa significasse quella strana presenza, in certi casi le domande non servono e le risposte non le vogliamo, ma so una cosa: so che quell’esperienza diede vita ad una lunga serie di viaggi in solitudine di cui rimangono un bellissimo diario, e una foto di me in lacrime con quel misterioso gatto dagli occhi gialli e il pelo nero.

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Giardino dei Boboli – Firenze 

8. NATIONAL GALLERY OF ART – WASHINGTON 

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9. NATIONAL GALLERY – LONDRA 

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10. MUSEO REALE DELLE BELLE ARTI DEL BELGIO 



Su Google Arts & Culture esiste uno strambo video che rappresenta il quadro di Pieter Bruegell il Vecchio datato 1562, la “Caduta degli angeli ribelli”, una realtà aumentata che ci porta faccia a faccia con i mostri più mostri della storia della pittura. 
Il quadro racconta un episodio biblico, la caduta degli angeli che si sono ribellati a Dio per sete di potere, uno scivolone lento e indimenticabile in cui dall’alto vediamo gli angeli che suonano il trionfo, biondi come fanciulli, degli uccelli del Paradiso, dei putti vestiti e senza vizio. 
Al centro l’Arcangelo Michele che combatte il drago dell’Apocalisse a sette teste; e verso il basso delle diapositive precise e dettagliate dei mostri di fattura Boschiana. Sono metà pesci e metà volatili; hanno il ventre squarciato a mostrare uova già marce; sono giganteschi e sproporzionati insetti; gli orifizi in mostra e le bocce avide e dai denti appuntiti e radi. E’ una scena spaventosa che rappresenta la fede da una parte e l’avidità dall’altra.

Il quadro è custodito presso il Museo Reale delle Belle Arti del Belgio 

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Intervista a Coma Empirico: I social mi influenzano per quanto riguarda la forma, ma mai nei contenuti

Gabriele Villani , classe 1990, vive a Taranto, dove è tornato dopo gli studi a Roma dove ha frequentato il D.A.M.S.. Comincia a dipingere durante il liceo artistico, la sua formazione si amplia durante il periodo universitario nel campo della cinematografia e della scrittura.
Illustratore, disegnatore, appassionato di fumetti e da sempre interessato a spaziare nel campo dell’arte, dal 2016 è ideatore di “Coma Empirico”.


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Quando ha iniziato a disegnare?


Ho iniziato a disegnare da bambino, molto piccolo, mio padre mi comprava i fumetti di Batman, Superman e Topolino e io cercavo di ricopiarli.


Ricorda un aneddoto?


Mi piaceva disegnare sui muri, ma ero troppo piccolo e venivano fuori degli scarabocchi. Dicevo di voler diventare da grande un artista “pazzo”.


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Il disegno lo ha portato anche alla pubblicazione di un libro. Come è nata l’idea?


E’ nata prima l’idea di creare un personaggio, da questa poi quella di creare una pagina sui social per assecondare il bisogno di condividere alcuni dei miei pensieri. Non mi aspettavo di poter avere tanto seguito ma la cosa è andata avanti, sono nati altri personaggi e sono arrivate le prime proposte dalle case editrici. Quando mi sono sentito pronto ho raccolto alcuni dei miei lavori, ho aggiunto degli inediti ed è nato il primo libro “Tutta la notte del mondo”, edito da BeccoGiallo.


I suoi disegni sono introspettivi, quasi esistenzialisti. Qual è l’idea che prova a rappresentare meglio?


In realtà non mi prefiggo nulla, ogni vignetta parte da uno stato emotivo, lascio molto spazio all’istinto e poco alla ragione nella scelta del tema, cercando di sentirmi il più libero possibile. Una volta che affiora l’idea, il passo successivo è cercare di trovare la maniera più diretta e semplice per esprimerla.


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Nel disegno si mescola humor (molto sottile) e malinconia. Come si conciliano nel suo mondo?


Si conciliano nella costruzione di uno stile che risponde alle mie esigenze. Cerco di affinare il mio gusto personale e usarlo come metro di giudizio principale. Ciò che mi piace poi finisce con avere una certa coerenza, nonostante i temi che tratto siano spesso molto distanti fra loro.


Qual è l’aspetto che cura maggiormente mentre disegna?


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La chiarezza, la semplicità del tratto. Cerco di esprimermi in maniera diretta anche nel disegno, la parte difficile è comunque riuscire a tenere aperta la porta a varie interpretazioni. Mi piacciono i contrasti e le ombre.


Crede che il cinema abbia influenzato le sue immagini?


Sì, il cinema come la musica e la letteratura, ma non solo, tutto ciò che mi colpisce mi influenza.


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Sente di aver trovato il proprio stile?


Credo di aver trovato un principio di stile, ma forse ho ancora bisogno di affinarlo.


I social la influenzano, in parte, in ciò che intende trasmettere?


I social mi influenzano per quanto riguarda la forma, ma mai nei contenuti. Quello che scrivo e che disegno è sempre una condivisione onesta di quello che penso e sento.


Che musica ascolta mentre disegna?


Ogni periodo ha una sua colonna sonora, poi ovviamente ci sono gli artisti che mi accompagnano sempre, uno su tutti Bob Dylan.


Nuovi progetti in cantiere?


Sì, tanti progetti: uno di questi sicuramente è un secondo libro, non una raccolta ma una storia.


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Le vignette di Coma Empirico esprimono riflessioni e affanni generazionali, propri di chi è alla ricerca di un posto nel mondo. Ricche di spunti esistenzialisti, sono divenute in pochissimo tempo virali nei social, conservando tuttavia quell’onestà intellettuale tipica di chi ha qualcosa di sincero da raccontare.


http://www.comaempirico.it/chi-sono/

La malattia e la fotografia come terapia – Intervista a Claudia Amatruda

Claudia Amatruda è foggiana e ha 23 anni. Quattro anni fa la sua vita è cambiata non poco quando ha ricevuto una diagnosi parziale riguardante il suo stato di salute: neuropatia delle piccole fibre, disautonomia e (forse) connettivopatia ereditaria. Si tratta di una malattia rara, alla quale si è ispirata per l’ultimo suo progetto “Naiade“.


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Qual è il suo rapporto personale con la fotografia?


Fotografare per me è un’esigenza, mi fa star meglio: nel momento in cui avvicino l’occhio al mirino della macchina mi sento finalmente nel posto giusto, entro in un mondo che sento mio, sono a mio agio. Quindi direi che è un rapporto per niente conflittuale, è un semplice bisogno, come mangiare o qualsiasi altra azione quotidiana che ci piace tanto.


Quando ha iniziato ad appassionarsi alla fotografia?


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E’ successo pian piano, poi profondamente, non è stato un colpo di fulmine, direi che è successo più per caso: i miei genitori dipingono da quando sono nata, e quando ho compiuto 14 anni hanno deciso di portarmi in giro per le loro mostre, con un incarico in particolare, avrei dovuto fotografare le esposizioni per conservarne i ricordi. Così è iniziato tutto, ma non avrei mai immaginato di appassionarmi a tal punto da farla diventare una professione.


C’è qualcosa che preferisce omettere quando cattura un’immagine?


Dipende dalla situazione in cui mi trovo, da cosa progetto o penso di voler trasmettere. Di solito adotto una filosofia in particolare quando scatto, tratta da una poesia di Emily Dickinson: “Dì tutta la verità ma dilla obliqua”.


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Come nasce e si sviluppa l’ultimo progetto?


L’ultimo progetto nasce 3 anni fa, all’inizio come una serie di 10 autoritratti ambientati in piscina, il luogo che mi far star bene per eccellenza. Poi in quest’ultimo anno, durante un Master in progetto fotografico della scuola Meshroom Pescara, grazie all’aiuto del prof Michele Palazzi decido di trasformare quella serie in un progetto vero e proprio, che non raccontasse solo di ciò che mi fa star bene ma proprio di tutto ciò che adesso è la mia vita, la sofferenza di una malattia ancora incerta, degenerativa e senza cura: un bel fardello pesante da portare tra ospedali, medicine, mesi interi in casa, e piscina. Un diario fotografico che con tanto studio, tentativi, continui edit, critiche e consigli, è diventato adesso “Naiade”, il libro fotografico in produzione con un crowdfunding su Ulule.


C’è qualcosa con cui vorrebbe ancora confrontarsi fotograficamente?


Ma certo. Mi considero sempre agli inizi, e il bello della fotografia è che non esiste situazione identica ad un’altra, perciò ogni occasione è buona per confrontarsi con qualcosa che non si conosce, l’ideale per chi è estremamente curioso come me.


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Cos’è per lei un autoritratto?


E’ l’unico modo che ho trovato per riuscire ad amarmi un po’. Lo considero lo strumento meno narcisistico che esista (quando si parla di autoritratto e non di selfie), perché attraverso la macchina fotografica riesco a guardarmi dentro, mentre lo specchio restituisce solo l’aspetto esteriore di me, quello che vedono anche tutti gli altri; chi mi conosce sa quale sia la considerazione che ho del mio corpo, specialmente dopo aver scoperto della malattia, perciò per adesso l’autoritratto è una specie di terapia contro la negazione di sè.


Ci sono dei fotografi che apprezza particolarmente? Quali?


Troppi. Anche se la scelta è difficile, ne nomino alcuni: Todd Hido, Rinko Kawauchi, Ren Hang, Nan Goldin, Sally Man, Robert Mapplethorpe, Vanessa Winship, Letizia Battaglia, Gabriele Basilico e Luigi Ghirri.


Amore e fotografia. Come sono in relazione nella sua vita e nella sua quotidianità?


Questa domanda mi mette in difficoltà, devo ammetterlo. Ho un rapporto troppo conflittuale con l’amore nella mia vita, di conseguenza la sua relazione con la fotografia non è delle migliori, è come una coppia che litiga continuamente. Se invece parliamo di amore per la fotografia, allora non ho dubbi, è amore quotidiano e sincero.


La malattia limita in qualche modo la sua passione per la fotografia?


La malattia limita me molto spesso, ma mai la passione. Cerco di farle viaggiare su binari paralleli, non vorrei mai che si incontrassero. Quando fotografo spingo il mio corpo al limite e anche oltre a volte, sono capace di star male per giorni pur di fotografare ciò che ho in testa o di non rinunciare ad un impegno lavorativo preso, sono testarda; faccio arrabbiare i medici per questo, non sono una paziente facile. Col tempo ho imparato che il segreto è solo uno, la malattia può fermare le mie gambe ma mai la mia testa.


C’è qualche genere o qualcosa che preferirebbe non affrontare fotograficamente?


Ho paura di affrontare fotograficamente la sofferenza degli altri. Finché si tratta della mia è piuttosto “facile”, ma quando si tratta di altri, che siano amici o sconosciuti, ci vuole una dose enorme di tatto, delicatezza e coraggio ma anche sfrontatezza, cosa che a volte mi manca. Conoscendomi però, so che la paura non mi fermerebbe facilmente, affronterei comunque la situazione se dovesse capitarmi. Ragionando per assurdo, preferirei comunque non fotografare in zone di guerra, non mi sento affatto pronta e non so se lo sarò mai.


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L’acqua e la fotografia sono elementi essenziali nella vita di Claudia, che assolutamente non si arrende e lotta giorno dopo giorno con la speranza che la sua quotidianità diventi man mano sempre più leggera. E proprio questa speranza è ben evidente nelle sue immagini dove traspare un senso di assoluta calma e la ricerca di serenità . Lo fa servendosi soprattutto del corpo. D’altronde, come la giovane fotografa ha affermato, la malattia può fermare il suo corpo ma mai la sua mente carica di idee e energia positiva.


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Intervista a Gian Paolo Barbieri: la fotografia è una profonda testimonianza della condizione umana

Gian Paolo Barbieri nasce nel centro di Milano, da una famiglia di grossisti di tessuti dove, proprio nel grande magazzino del padre, acquisisce le prime competenze inerenti la fotografia di moda. Muove subito i primi passi nell’ambito teatrale diventando attore, operatore e costumista; in seguito, gli viene affidata una piccola parte non parlata in ”Medea” di Luchino Visconti. Ed è proprio il cinema noir americano ad incuriosirlo sulla gestione della luce e il senso di movimento, che rende gli attori e i personaggi ancora più affascinanti e dotati d’immensa autorità. A Parigi, inoltre, assiste il celebre fotografo di Harper’s Bazaar, Tom Kublin. Le campagne commerciali di Barbieri contribuiscono a definire la moda degli anni ’80 e ’90 dei marchi più famosi: Yves Saint Laurent, Chanel, Givenchy e Vivienne Westwood, Gianni Versace, Valentino, Giorgio Armani, Gianfranco Ferré.

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I suoi ritratti si differenziano per una naturale e straordinaria eleganza. Cos’è, per lei, l’eleganza?

L’eleganza si può paragonare alla bellezza. L’eleganza è cultura. I greci dicevano: “Dove nasce la bellezza nasce la cultura”. L’iconografia della bellezza si fonde sulla visione radicale della libertà. La libertà come la bellezza, non si concede, si prende. Come diceva A. Camus, “La nostra epoca ha nutrito la propria disperazione nella bruttezza e nelle convulsioni”. Noi abbiamo esiliato la bellezza; i greci hanno preso le armi per essa.

Tra le donne che ha ritratto vi è anche la raffinata Audrey Hepburn. Cosa ricorda di lei?

Era il 1969 quando ho fotografato Audrey Hepburn. Eravamo a Roma nello studio di Valentino per Vogue Italia. Lei era molto gioiosa, mi disse che si era appena sposata con il Dott. Andrea Dotti. E’ arrivata con delle pantofole perché così, mi disse, non avrebbe sporcato il fondale bianco. Mi ricorderò sempre della sua estrema eleganza, quell’arte che nasceva dai suoi studi di danza, prima di approdare nel teatro e nel cinema.

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Le sue immagini spiccano per un grande rigore formale. Come si pone rispetto all’errore?

Da ogni errore vedo un’opportunità, infatti, molte delle mie fotografie più belle nascono dai miei stessi errori.

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Come nasce il suo interesse per la fotografia?

Attratto dal cinema e dal teatro sono andato a Roma. Per pagarmi la pensione, facevo i test ai ragazzi di Cinecittà con la mia prima macchinetta fotografica, poi sviluppavo la pellicola. Nella pensione mi davano il permesso di usare il bagno di notte, dove stampavo le mie foto e al mattino seguente le consegnavo dopo averle posizionate sotto il letto per farle asciugare. Poi un conoscente di mio padre, Gustave Zumsteg, nonché proprietario dell’azienda Abraham di tessuti di Zurigo, mi chiese di fargli vedere le mie fotografie, anche se erano totalmente amatoriali, gliele ho fatto vedere e mi disse: “Tu hai una sensibilità pazzesca e sei tagliato per fare la moda”. Io sono rimasto allibito, non sapendo nemmeno cosa fosse la moda. Dal momento che in Italia non esisteva ancora, le riviste compravano dei servizi fotografici già pronti, confezionati dalla Francia. Da lì, andai a Parigi per lavorare con Tom Kublin: un’esperienza che segnò decisamente l’inizio della mia carriera come fotografo.

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Qual è l’aspetto a cui presta più attenzione mentre ritrae in particolare una donna?

Una donna deve essere estremamente femminile, non importa se presenta dei difetti poiché il più delle volte aiutano la fotogenia. Deve attrarre e sedurre chi osserva l’immagine. Lo sguardo è molto importante per me.

Creatività e fotografia di moda. Come si conciliano nei suoi lavori?

Tutte le arti influiscono sulla creatività fotografica. Una buona conoscenza della pittura, scultura ma anche cinema e letteratura, aiutano sicuramente il fotografo a conciliare la moda con la creatività. Per me non esiste la fotografia senza la propria capacità di invenzione. Molti pittori hanno influenzato la mia creatività unendola al mondo della moda come Gauguin, Michelangelo, Hockney, Holbein, Bacon e Rothko.

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L’avvento dei social quanto ha influenzato la fotografia di moda?

Completamente. La fotografia di moda, intesa come lo era qualche anno fa, non esiste più in seguito all’avvento dei social. Con essi, infatti, si è persa quella poesia che c’era nell’utilizzare il negativo. E’ cambiato anche lo stile, non essendoci più la moda come era concepita una volta, ossia con dei temi ben precisi che la fotografia rispecchiava. Con i social oggi, ognuno fa quello che gli pare; non viene più rappresentato uno stile, un’eleganza o un modo di essere.

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Se dovesse associare una parola alla sua fotografia, quale sceglierebbe?

Metafore della visione.

Fotograficamente parlando, si reputa soddisfatto di ciò che ha ottenuto finora?

Mi reputo abbastanza fortunato perché la fotografia è una profonda testimonianza della condizione umana. Fotografare è guardare in faccia la vita e fare della propria esistenza un’opera d’arte, come citava D’Annunzio.

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Ci può accennare i suoi prossimi rendez-vous fotografici?

Sto lavorando su un nuovo progetto fotografico ispirato al poeta inglese Shakespeare, proprio in occasione della celebrazione dei 400 anni dalla sua morte. Prendo infatti ispirazione dalle più famose tragedie e dai sonetti del drammaturgo britannico, per poi trascriverle attraverso il mio occhio.
Inoltre, da quest’anno, è stata costituita la Fondazione Gian Paolo Barbieri; si tratta di un’istituzione culturale no-profit che promuove l’arte, la fotografia e ogni forma di espressione culturale nelle sue diverse realizzazioni attraverso workshop, collaborazioni con istituzioni e attività formative. (www.fondazionegianpaolobarbieri.it).

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Gian Paolo Barbieri, tramite la sua sapiente fotografia, la collaborazione a riviste di grande importanza come Vogue America, Vogue Paris e Vogue Germania e grazie ai suoi eccellenti contributi a Vogue Italia con le campagne pubblicitarie dei marchi più noti, ha rinnovato profondamente la fotografia di moda italiana. Il senso di equilibrio, proporzione ed estrema armonia di derivazione classicistica sono il punto di forza del suo linguaggio personale e il riflesso di uno spirito di ricerca artistica, dovuto ad un’incessante curiosità. La sua Fondazione, costituita nel 2016 dallo stesso artista, è un’istituzione culturale che opera nel settore delle arti visive e che persegue finalità di promozione della figura artistica del Fondatore, delle sue opere fotografiche, dell’attività artistico-creativa nonché, più in generale, di promozione della fotografia storica e contemporanea.

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Intervista a Michele Palazzi: non amo guardare immagini di guerra e sofferenza

Michele Palazzi è il giovane e talentuoso fotografo di origini romane. Nel 2015 si aggiudica l’ambito World Press Photo nella categoria Daily Life, Stories grazie ad un interessante progetto a lungo termine sull’impatto della modernizzazione in Mongolia. Attualmente, vive a Roma ed è membro dell’agenzia Contrasto.

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Nel 2015 si è aggiudicato il premio World Press Photo, attraverso un progetto a lungo termine riguardante il processo di modernizzazione in Mongolia. Cosa ha rappresentato per lei questo progetto?

I miei viaggi in Mongolia mi hanno permesso di alimentare la mia curiosità verso un mondo e uno stile di vita (quello del nomadismo) che sta scomparendo per sempre e di misurarmi con delle realtà sociali e culturali distanti da me, ma grazie alle quali sono riuscito ad apprendere molto.

Come nasce la sua passione per la fotografia? Ricorda un aneddoto?

Questa passione è andata crescendo col passare del tempo, finite le superiori ho deciso di provare a capire se la fotografia potesse essere un mezzo espressivo a me consono; negli anni ho imparato a rispettarla e ad amarla, ricevendo altrettanto indietro.

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Ci sono dei fotografi che hanno inciso particolarmente sulla sua formazione?

Ovviamente moltissimi e sono anche cambiati nel tempo: Sally Mann è stata una delle prime fotografe che ho amato, e lo rimane anche oggi.

Cosa vorrebbe ancora fotografare?

Tutto quello che ancora non ho fotografato.

C’è qualcosa che, invece, preferirebbe non fotografare?

Non lo so. Sicuramente non amo guardare immagini di guerra e di sofferenza, poiché ho forti dubbi sull’impatto positivo che queste immagini possano avere sulla società.

Come si pone verso l’errore?

La mia prima reazione è sicuramente di frustrazione, ma successivamente cerco di fare tesoro dei miei errori e di imparare il più possibile da questi. Ultimamente mi è capitato di leggere l’ultimo libro di Erik Kessels “Che Sbaglio!” ed. Phaindon dove l’errore viene affrontato come una delle principali fasi creative di un autore: senza dubbio, questo saggio mi ha aiutato a rivalutare la concezione stessa dell’errore.



C’è un aspetto a cui presta maggior attenzione mentre fotografa?


Cerco sempre di trasporre mentre scatto le emozioni che mi suscita il soggetto fotografato, sia che esso sia una persona o un luogo.

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Come riesce a conciliare la libertà espressiva e la creatività con i lavori commissionati?

Cerco sempre di scindere le due cose, per i lavori commerciale cerco di soddisfare al meglio le necessità del committente, mentre per i miei progetti personali l’unico committente sono io.

Quanto hanno inciso le esperienze all’estero nella ricerca ed elaborazione di un linguaggio fotografico personale?

Non credo che le mie esperienze avute all’estero di per sé possano aver influito maggiormente di altre esperienze avute in Italia: più che il luogo, credo che siano formativi il tipo e l’importanza di un’esperienza.

Quali sono i prossimi progetti in cantiere?

Nell’ultimo anno ho lavorato in Portogallo al primo capitolo di “Finisterrae”, un progetto sulla crisi economica e sociale dell’Europa del sud. Al momento sto portando avanti il secondo capitolo in Italia: il progetto cerca di rappresentare la crisi sud-europea attraverso un linguaggio allegorico, guardando alla società contemporanea da un punto di vista soggettivo.

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Le immagini di Michele Palazzi sono dai toni decisi e trasportano inconsciamente l’osservatore nel pieno dell’atmosfera catturata dall’autore. Ne deriva pertanto un’atmosfera estremamente affascinante, capace di condurre in altri luoghi e in nuovi mondi.

http://www.michelepalazziphotographer.com/

Intervista a Luca Bortolato: tra dialoghi silenziosi e liberi pensieri

L’incontro tra Luca Bortolato e la fotografia avviene in maniera del tutto spontanea. La fotografia è, per lui, il mezzo più adeguato per esprimere ciò che egli stesso è. E’ una fotografia intima, molto simile ad un diario personale. Le sue immagini sono la sintesi elegante di sensazioni e profonde riflessioni.


Come nasce la sua passione per la fotografia?


La fotografia è capitata per caso. Cercavo un modo per parlare, una lingua per dialogare con me stesso e per me stesso. È arrivata nel 2007 grazie una concomitanza di incontri fortuiti che segnarono i miei inizi. Le Immagini c’erano già da molto prima.


Ha più volte affermato che in fotografia, ogni immagine è un autoritratto. Come vive il rapporto con la sua identità?


Di amore e odio, di demoni e meraviglie. Un percorso tortuoso, dolce e amaro. Noi siamo esattamente le nostre foto: un concetto semplice, ma difficile da accogliere.
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Come si è evoluta la sua fotografia negli anni? Cosa desidererebbe, invece, fotografare?


Non si è evoluta, è soltanto variata perché ha fin da subito cambiato i miei pensieri. Tutto ciò che vorrei fotografare è, invece, semplicemente me stesso.


Molte sue immagini trattano il tema della solitudine in chiave ironica. Com’è il suo rapporto personale con essa?


L’ironia è solo nel mio modo d’essere. È sempre una sorta di malinconia, invece, quella che ritrovo nei miei percorsi e nei miei ascolti. La solitudine, se accolta, è una coperta che coccola, costruita su dialoghi silenziosi e liberi pensieri.


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Ci può parlare del progetto Mericans? Come nasce e quanto si reputa soddisfatto?


Questo lavoro si differenzia molto da tutta la mia produzione precedente: io, per primo, ne sono rimasto sorpreso. Viaggio e mi sposto molto, ma la macchina fotografica non è mai con me, semplicemente perché ho bisogno di vivere appieno quello che mi sta attorno. Il viaggio a New York è cominciato come un diario di ricordi, in un luogo in cui difficilmente sarei tornato, almeno non subito. Ho cominciato da qualcosa che già conoscevo bene: l’identità. I volti delle persone non mi hanno mai interessato, esse sono sempre state come uno specchio in cui affogare. New York è diventata, in quei giorni, un riflesso in cui guardarmi. Fin da subito mi è stato familiare ritrovare la solitudine e la malinconia, sensazioni tangibili e immediatamente riconoscibili in una città che in realtà vuole mostrare l’estremo opposto di sé. Sembra che in ogni istante essa possa offrire mille opportunità diverse per chi ci vive, per chi ci prova e per chi, come me, arriva da lontano sapendo di non fermarsi. Le persone erano lì, come a ripetere a se stesse che, alla fine, andrà tutto bene.


Il corpo femminile è spesso ritratto senza che si veda il volto. E’ un modo affinché chiunque si possa riflettere nelle sue immagini?


È un modo perché io possa riflettere con le mie immagini: tutto il mio percorso parla di me. Una costante ed estenuante ricerca delle mie molte sfaccettature, una sorta di esorcizzazione dei lati che amo e che allo stesso tempo non capisco.
È diventata così una “fotografia di accettazione”, un percorso del sé, un’auto-analisi attraverso gli altri. Le persone hanno sempre fatto da filtro, fra me e la realtà.


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Quali sono i fotografi che ammira particolarmente?


Quelli che ancora non conosco.


Se dovesse associare la sua fotografia a un libro che lo ha colpito, quale nominerebbe? Perché?


“Corpi e Anime” di Maxence Van der Meersch, letto molti anni fa e ripreso di recente. Racconta di realtà sospese e di solitudini strazianti: un non tempo di personaggi accomunati dal dolore.


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C’è un progetto a cui si sente più affezionato?


Ci sono stati dei giri di boa durante il mio percorso che hanno modificato il mio approccio e il mio pensiero. C’è stato l’arrivo del colore iniziale, la consapevolezza identitaria della fotografia poi. Infine, nell’ultimo anno, si è aggiunta la consapevolezza di poter dialogare e mostrare ad altri i miei pensieri, costruendo nuove interazioni attraverso la didattica.


Quali sono i prossimi progetti o eventi fotografici in cantiere?


Ho messo nero su bianco tutto il mio percorso, l’ho sintetizzato in un laboratorio che mi sta regalando moltissime soddisfazioni. Accompagno chi vuole ascoltarmi, in una profonda riflessione su se stessi attraverso le immagini che producono. Un ottimo riscontro è stato l’essere accolto con molto entusiasmo in importanti musei e associazioni con cui continuerò a collaborare nel corso di tutto il prossimo anno, costruendo assieme percorsi didattici nei quali la fotografia consentirà di smascherarci attraverso le immagini. Un nuovo, ulteriore, giro di boa.


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Lo sguardo di Luca Bortolato sul mondo non è mai intrusivo, anche quando i soggetti ritratti sono donne. La sua fotografia si serve spesso del corpo per “documentare” l’esistenza in tutta la sua immensa complessità. Quello che più colpisce delle sue immagini è senza ombra di dubbio l’atmosfera che avvolge in maniera quasi naturale le sue donne, fragili e forti al tempo stesso; ne deriva, pertanto, una fotografia intimista, delicata, suggestiva ed intellettualmente onesta.


http://www.lucabortolato.com/

Benedetta Falugi: una fotografia di “raccoglimento”

Benedetta Falugi è una fotografa toscana che ha fatto della fotografia il suo mestiere ormai da alcuni anni. La sua formazione avviene attraverso alcuni workshop e come autodidatta.


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Tra i suoi clienti spiccano nomi ben noti come: Visa (New York), Nokia (United Kingdom), i marchi di moda Mal Familie e Noodle Park (Italia). Da tre anni, inoltre, è entrata a far parte del collettivo di street photography “Inquadra”.


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La fotografia è, per lei, innanzitutto un’esigenza, un momento di “raccoglimento” e solitudine per indagare se stessa e la realtà circostante.


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Una passeggiata diviene, così, il pretesto per scrutare luoghi, persone e oggetti su cui la fotografa fantastica e nei quali prova ad immedesimarsi, imprimendone brillantemente la storia su pellicola.


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La sua fotografia è essenzialmente dettata dall’istinto, dove le emozioni scaturite dalle immagini s’incontrano con la voglia di esercitare incessantemente la capacità di osservazione. Lo sguardo di Benedetta sul mondo è quasi infantile, alla ricerca di colori e dettagli, in cui perdersi e ritrovarsi contemporaneamente.


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L’elemento ricorrente nelle sue foto è senza ombra di dubbio il mare, che le fa da compagna nei suoi momenti di solitudine e ricerca. La solitudine che traspare dal suo punto di vista non è mai sofferta, ma è anzi l’occasione di un momento creativo con il quale cullarsi serenamente.


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https://www.benedettafalugi.com

Intervista a Michele Palazzo: dove comincia il suo mondo

Michele Palazzo è il fotografo originario di Ravenna che sarà protagonista a Milano, presso la galleria Still, a partire dal 29 novembre per la sua prima mostra personale. La mostra, intitolata “Dove comincia il mondo“, è curata da Denis Curti e Maria Vittoria Baravelli.

“Dove comincia il mondo” è il titolo della sua mostra personale. Dove comincia, invece, la sua passione per la fotografia?

Comincia molto presto, negli anni della mia adolescenza alle scuole medie. Ho frequentato una scuola media sperimentale annessa all’Istituto d’Arte per il Mosaico di Ravenna, ed a differenza delle altre scuole medie tradizionali, avevamo molte più ore di materie artistiche tra le quali fotografia. Erano ovviamente gli anni della fotografia analogica e la magia di sviluppare le foto autonomamente in camera oscura mi ha completamente rapito. Da quel momento in poi, con periodi più o meno intensi, la fotografia non mi ha più abbandonato.

Come approccia con i passanti mentre fotografa? Chiede se può fotografare o, semplicemente, cattura l’immagine?

Mai. Se chiedo il permesso, interrompo la magia del momento. I miei sono tutti ritratti fatti candidamente.

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Dalle sue immagini vien fuori un mosaico di etnie e culture differenti, che si riflette anche nei colori. Qual è l’aspetto a cui presta maggior attenzione mentre fotografa?

Ci sono molte cose che catturano la mia attenzione: i volti, i vestiti, il background o la luce. E’ una cosa che faccio quotidianamente, è un esercizio di osservazione e di curiosità continua che non mi abbandona mai, nemmeno quando non ho una macchina fotografica con me.

Che posizione occupa la tecnica nella sua fotografia?

Credo che sia una cosa acquisita per il tipo di fotografia che faccio, anche se ovviamente ci sono sempre cose da apprendere. Non sono un fotografo da studio e, quindi, quella tecnica la conosco poco e posso essere sicuramente considerato un principiante; tuttavia, se mi dovesse servire o ancora meglio incuriosire, allora mi ci dedicherei in maniera ossessiva come faccio con tutte le cose che mi intrigano.

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Ci sono dei fotografi che hanno segnato particolarmente la sua visione della fotografia?

Probabilmente moltissimi, ma anche pittori, designers e architetti. Ho sempre avuto una grande curiosità visiva e una pessima memoria per i nomi, per cui le mie influenze sono le più svariate. Ho un background in architettura, un lavoro da designer nel mondo digitale, questa passione sfrenata per la fotografia e amo viaggiare: sarebbe riduttivo citare solo qualche fotografo. Poi ne scopro nuovi e vecchi ogni giorno, preferisco mantenere vivo questo senso di continua sorpresa e scoperta.

La sua visione del mondo si riflette nella sua fotografia, o la sua fotografia ha inciso nella sua visione del mondo?

Sicuramente la prima, anche se a volte riguardando le mie fotografie e a mente fresca, scopro un punto di vista inaspettato anche a me stesso. La mia macchina fotografica è un passe-partout per nuovi mondi e avventure: probabilmente senza questa mia passione quotidiana non avrei mai avuto accesso o scoperto metà delle cose che ora fanno parte di me.

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C’è una parte del mondo che desidera fotografare attualmente?

In senso geografico, l’Asia che non ho mai visitato e che conosco solo attraverso l’occhio di altri fotografi. Sono curioso di vedere cosa, invece, il mio occhio sia capace di catturare. Se invece non parliamo di luoghi geografici, allora vorrei fotografare i momenti persi e le persone mai viste.

C’è qualcosa, invece, che preferirebbe non fotografare?

Ci sono probabilmente dei generi a cui non mi avvicinerò mai per mia indole, ma non mi precludo nulla.

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Le capita spesso di emozionarsi rivedendo una sua fotografia?

Poche volte, credo di essere molto esigente con me stesso. Mi innamoro di alcune idee di fotografia che provo ad esplorare e molte volte, deluso dai risultati, preferisco continuare a inseguire quelle idee e ogni tanto raccogliere i frutti di quell’esplorazione.

Se dovesse associare una parola alla sua fotografia, quale userebbe? Perché?

Forse direi Pancia, perché la mia fotografia è un po’ viscerale, di pancia appunto.

La mostra di Michele Palazzo presenta New York in 20 scatti, città in cui il fotografo vive per esigenze lavorative a partire dal 2010. La New York ritratta da Palazzo è spesso evanescente: il fotografo imprime nelle sue immagini l’unicità e la magia di momenti irripetibili; ne deriva, pertanto, una visione del tutto personale della Grande Mela, dove culture ed esperienze di vita differenti si mescolano tra di loro e con l’esperienza del fotografo, sino a realizzare un mosaico piacevole da osservare ed estremamente affascinante.

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Giuseppe Palmisano: la fotografia ha a che fare con l’inconscio

Giuseppe Palmisano è un giovane fotografo italiano. La sua è una fotografia che procede per sottrazione e in cui le donne ritratte risultano semplici, sensuali ed estremamente delicate.


Quando e come nasce la tua passione per la fotografia?


Ho iniziato a fotografare da ragazzino in maniera giocosa, ritraendomi da solo; facevo già teatro, l’artista di strada e mi dedicavo pertanto a video e foto. Acquistando poi una reflex nel 2009, ho iniziato a sperimentare in maniera più seria: il mezzo mi ha spinto verso la fotografia e poi, nello stesso tempo, la fotografia mi ha spinto lontano dal mezzo. Infatti, non mi è mai interessata particolarmente la tecnica.


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Come ti poni con i soggetti ritratti? Come interagisci?


Avviene tutto in maniera naturale, altrimenti si tratterebbe di una fotografia di moda. Io mi pongo come se fossi un regista: nel momento in cui fotografo, la modella è un’attrice e io il regista della situazione, come se si svolgesse uno spettacolo.


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Bellezza e fotografia. Come si incontrano nelle tue immagini?


Per me la fotografia non esiste. La bellezza è, invece, ciò che esiste: penso alla bellezza della donna nel contesto e non in quanto tale.


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Nelle tue immagini, la donna appare incessantemente incorniciata dal contesto circostante. Qual è l’aspetto a cui presti maggiore attenzione mentre fotografi?


Mi interessa che ogni cosa sia al suo posto: c’è sicuramente ordine nelle mie immagini. Per quanto riguarda le simmetrie, si può soltanto tentare di riprodurle poiché ci sarà sempre qualcosa di imperfetto.


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Le donne che ritrai sono sempre donne semplici, prive di tutto ciò che è superfluo. Qual è la funzione che attribuisci alla presenza femminile all’interno dell’immagine?


Non parlerei di funzione, altrimenti sarebbero soltanto degli oggetti. Semplicemente, mi piace la donna come soggetto da ritrarre, in quanto diverso da me: credo che sia più adeguata a trasmettere ciò che io vorrei.


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La tua è una fotografia “di ricerca”. Dove si dirige attualmente?


Non si può definire dove una ricerca si dirige: il senso della ricerca risiede esclusivamente in se stessa. So da dove vengo e non so assolutamente dove mi sto dirigendo.


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A quali fotografi ti sei ispirato per la tua ricerca?


Direi che mi sono ispirato a tutto ciò che ho visto e fatto, principalmente al teatro. Non conoscevo affatto la fotografia prima che iniziassi a fotografare. Ci sono alcuni fotografi che sicuramente mi hanno segnato, anche a livello inconscio, ma non sono stati affatto il mio punto d’inizio. Credo fermamente che la fotografia sia qualcosa di inconscio, contrariamente a chi ha l’esigenza di copiare altri fotografi pur di creare. Sicuramente mi hanno molto segnato le immagini di Guy Bourdin.


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Hai detto che l’arte è un modo di entrare in empatia col mondo. Puoi spiegarci meglio questa tua visione?


Per me, l’arte è un modo per conoscere gli altri e per entrarci in empatia. Non è il mezzo per farmi conoscere, bensì facendomi conoscere mi consente di avvicinarmi agli altri.


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Erotismo, Immaginazione e Fotografia. Qual è il loro punto d’incontro nelle tue immagini?


Sono tre momenti differenti. L’erotismo è un modo di vedere le cose. L’immaginazione è quella che ho quando voglio fotografare o quando guardo delle cose e le associo: può essere preventiva o estemporanea. L’immagine è invece il risultato del click.


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Ultima domanda. Se dovessi utilizzare una parola da associare alla tua fotografia, quale sceglieresti?


Utilizzerei “perchè” come parola. Tutto si basa sulla domanda, viviamo e facciamo senza farci delle domande.


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La fotografia di Giuseppe Palmisano si contraddistingue per un linguaggio del tutto personale: le sue modelle appaiono quasi sempre agiatamente sdraiate, accovacciate, con le gambe ben in vista, o in piedi contro un muro. Esse sembrano cercare un posto nell’ambiente circostante, così come l’autore potrebbe ricercarlo nel mondo attraverso il mezzo fotografico. E’ evidente la contaminazione con il teatro: l’immagine è il frutto di una specie di improvvisazione in cui la scenografia che ne deriva è di primaria importanza. Tutto ciò ha contribuito a fare di lui un vero e proprio fenomeno virale sui social, dove le sue immagini vengono recepite visivamente dai follower come intime e sincere.