Vivian Maier: l’incanto di una scoperta

Vivian Maier è nota soltanto da una decina di anni ed è attualmente una delle figure più affascinanti nell’ambito della fotografia, tanto da ispirare libri e documentari sulla sua vita. Oggigiorno, il fascino di quest’artista risiede sicuramente non soltanto nella sua opera, ma soprattutto nella sua vita non priva di difficoltà e nel ritrovamento quasi casuale della sua fotografia. Per tutto il corso della sua vita, accompagnò la passione per la fotografia derivata da un’amica della madre, all’attività da bambinaia per pagarsi da vivere.


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Ciò che affascina maggiormente della sua storia è la decisione di non rendere pubbliche le sue fotografie: molti dei suoi negativi restavano non sviluppati in vita. Sembra quasi che a lei bastasse il semplice atto del fotografare, senza la necessità di condividere il risultato dei suoi scatti. Allo stesso tempo, è evidente che non fosse interessata alle finalità commerciali dell’epoca.


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La scoperta della sua opera ha dell’assurdo: i suoi negativi sono stati scoperti nel 2007 dall’americano John Maloof. In occasione di una ricerca sulla città di Chicago, il ragazzo acquistò uno scatolone contenente gli oggetti più disparati, messo all’asta per 380 dollari e sottratto alla proprietaria in seguito alle sue gravi problematiche finanziarie. Tra i vari oggetti, ritrovò anche una cassa contenente dei negativi e dei rullini ancora non sviluppati.


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Le immagini di Vivian Maier sono il dipinto dell’America dei primi decenni del ‘900, il racconto di un popolo tramite sguardi, espressioni, luoghi e gestualità. Ciò che maggiormente colpisce osservando le sue fotografie è la spontaneità con cui cattura un’immagine o il suo ritratto allo specchio. E’ una fotografia non troppo ricercata, quasi casuale: è proprio questa spontaneità dell’atto fotografico ad impreziosire di fascino e mistero i soggetti ritratti. Negli occhi dei suoi autoritratti, è possibile scorgere una personalità ricca di luci ed ombre proprio come la sua fotografia.


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Nel 2009, Vivian Maier morì in seguito ad una caduta sul ghiaccio e al suo ricovero in ospedale. John Maloof, che pur voleva incontrare la donna del box che aveva acquistato per valorizzarne l’opera, non ebbe mai modo di conoscerla. Senza le sue ricerche, Vivian sarebbe rimasta impressa soltanto nella memoria dei bambini americani degli anni ’50 e ’60 che la conobbero nelle vesti da bambinaia.


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1954, New York, NY

Todd Hido: il fascino di strade, case e donne

Todd Hido è attualmente uno dei fotografi più noti ed apprezzati nel panorama artistico internazionale. Noto prevalentemente per fotografare case avvolte in contesti periferici foschi e oscuri, stupisce per lo stile personale che lo rende ben riconoscibile.


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Le sue immagini sono contraddistinte da atmosfere buie, dalla presenza di strade e case e dall’assenza della componente umana. Contrariamente a ciò che si può immaginare, è un tipo di fotografia che non ha nulla a che vedere con l’architettura; dalle finestre delle dimore nei quartieri americani spuntano spesso luci che segnalano un’implicita presenza umana.


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Il suo stile fotografico è pittorico e cinematografico tanto nei paesaggi notturni che nei suoi ritratti e nudi. In tutte le sue composizioni, è evidente una particolare attenzione verso l’atmosfera catturata: misteriosa e intima allo stesso tempo. Le donne ritratte, seppur nude, emanano sempre un grande fascino ed un’insolita eleganza di cui sembrano quasi esserne inconsapevoli; spesso, appaiono ritratte di sfuggita, di spalle o sdraiate in posizioni sensuali.


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Nei ritratti, Todd Hido pone tutta l’attenzione sullo sguardo e l’espressione del viso delle sue donne. Nella stanza, la luce circostante sembra abbracciarle dolcemente o in maniera più decisa, avvalorando la loro naturale bellezza.


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La fotografia di Todd Hido appare guidata dall’istinto e dalla solitudine: casualmente s’imbatte in una strada poca illuminata o si ritrova di fronte a situazioni ricche di fascino e mistero. E’ una fotografia descrittiva e narrativa contemporaneamente: un dettaglio come uno sguardo, un’insegna luminosa o un’auto parcheggiata è sufficiente per incuriosire l’osservatore e per indurlo a fantasticare. Le sue immagini sono il segno di un’indagine che va ben oltre le apparenze e che ricerca in maniera sottile e inusuale la storia di luoghi e persone


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http://www.toddhido.com/

Guy Bourdin: moda, provocazione e crudeltà

Guy Bourdin è stato sicuramente uno dei fotografi di moda e pubblicità più influenti del ventesimo secolo. Seppur meno noto rispetto al collega Helmut Newton, il suo stile ha profondamente cambiato il linguaggio pubblicitario della moda, tanto da influenzare molti dei fotografi successivi.


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Nacque a Parigi il 2 dicembre 1928 al 7 di Rue Popincourt. Abbandonato dalla madre all’età di un anno, fu Madame Maurice Désiré Bourdin che se ne prese cura e lo allevò affettuosamente. Sviluppò una particolare passione per la fotografia durante il servizio militare, a Dakar. Quando ritornò a Parigi, conobbe il grande Man Ray che incise indubbiamente sul suo stile conferendogli un tono inusuale. Nel 1961 sposò Solange Marie Louise Gèze, che morì suicida nel 1971. Dal 1955 al 1987 le sue immagini furono pubblicate su Vogue Paris; fu proprio un editore della rivista a presentare Guy Bourdin allo stilista Charles Jourdan, per il quale realizzò le campagne pubblicitarie delle sue calzature dal 1967 al 1981.


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Il fotografo parigino, che rifiutò nel 1985 il Grand Prix National de la Photographie, desiderava che le sue opere venissero distrutte dopo la morte. Durante il corso della sua vita, invece, rifiutò spesso di organizzare mostre o pubblicare libri. Si mantenne sempre ben lontano dalle lusinghe dei suoi tempi e sembra che fosse molto frustrato per la notorietà che aveva acquisito nel settore fotografico. Non fu soltanto un fotografo, ma anche un bravo artista: si dedicò alla pittura fino alla fine.


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Guy Bourdin ha sviluppato nel corso degli anni uno stile provocatorio, caratterizzato da immagini dai toni forti e da accostamenti surreali, in grado di spiazzare ed inquietare profondamente l’osservatore. I corpi femminili appaiono spesso sdraiati disordinatamente o frammentati; gambe che passeggiano, mani che si ripetono, corpi alienati ed elementi allusivi conferiscono una generale freddezza emotiva all’intera immagine che sfocia quasi nella crudeltà. Tale visione femminile deriva quasi probabilmente dal trauma infantile legato all’abbandono da parte dalla madre: sia con le donne a intorno a lui che con le modelle dei suoi shooting, si atteggiava con modi di fare spietati. Le modelle che egli seleziona, inoltre, sono quasi sempre dalla chioma rossa, dalla pelle chiarissima e truccate in maniera esagerata come la madre.


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La personalità enigmatica e ambigua di Guy Bourdin si riflette perfettamente nell’atmosfera onirica delle sue immagini, a tratti disturbante. E’ stato il primo fotografo a frammentare fino all’estremità il corpo della donna e a costruire un linguaggio ricco di metafore sensuali . L’artista francese è stato in grado di assorbire l’influenza di Man Ray e dei surrealisti Magritte e Balthus, creando uno stile complesso, provocatorio, stupefacente e difficile da decifrare nel settore pubblicitario della moda.


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Andrea Tomas Prato: Ghirri ha svelato quello che c’era e nessuno vedeva

Andrea Tomas Prato vive a Tortona, in provincia di Alessandria. La scoperta della fotografia avviene, per lui, in maniera del tutto casuale. Da quel momento, sarà la sua passione più grande, trasformandosi in un vero e proprio “gioco artigianale“.

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Come nasce la sua passione per la fotografia? Ci racconta un aneddoto?

La passione per la fotografia nasce per caso, per aver accompagnato un collega ad un corso base di fotografia nel 2011. L’aneddoto, invece, è che fotografavo da anni per lavoro le scene del crimine con uno schema, una metodologia,  che avrei usato lo stesso strumento con tanta passione e senza metodo, in maniera opposta.

Cosa c’è di autobiografico nella sua fotografia?

Il fatto stesso che la realizzo io.

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I dettagli del corpo femminile sono i veri protagonisti di molte sue immagini. Cosa intende comunicare tramite essi?

Non credo che dietro una immagine ci debba essere per forza un messaggio. Al contrario, credo di non voler comunicare proprio nulla. E’ solo una ricerca di ciò che io considero bello esteticamente; in questo caso, ricerco ciò che più bello ci sia negli aspetti armonici del corpo femminile. Vorrei solo precisare che i veri protagonisti delle mie immagini sono le persone che fotografo nella loro unicità, e quindi nei loro ritratti.

Come si pone verso la modella, mentre fotografa?

In modo riconoscente, educato ma informale. Ci tengo molto al fatto che la persona ritratta capisca che di fronte ha qualcuno che può risultare molto meno interessante delle proprie fotografie, ammesso che lo siano.

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La presenza umana sembra essere molto significativa nelle sue immagini. E’ anche un modo per sottolineare l’unicità del momento?

Certo, ma il momento è unico anche quando fotografo in assenza di soggetto; d’altronde, ogni secondo della nostra vita è unico.

Che posizione occupa l’istinto nella sua fotografia?

Un’importanza fondamentale, unitamente alla necessità di mettersi dietro l’obiettivo.

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E la tecnica?

Direi, l’ultima posizione. Alcune foto, tra quelle che più amo, le ho scattate con macchine usa e getta che anche mio nipote di 5 anni sa usare. Il senso dell’inquadratura ce l’abbiamo tutti fin da bambini. Lo schermo televisivo, quello di un cinema o di un quadro ci ha inconsciamente educato. Il gusto, invece, è personale e per questo vengono fuori foto differenziate, che qualcuno si arroga il diritto di giudicare; ma è evidente che non esistono dati oggettivi in fotografia.

Cosa le piace cogliere nei paesaggi che fotografa?

Mi piace muovermi nei nostri amati colli, quelli Tortonesi, e omaggiarli catturandoli in un’immagine.

Hai affermato di apprezzare Luigi Ghirri. Quali sono gli aspetti delle sue immagini che apprezzi maggiormente?

Ghirri ha svelato quello che c’era e che nessuno vedeva, facendolo con tanta eleganza ed in silenzio. Ora tutti quanti vedono di più attraverso i suoi occhi. Ha educato davvero tutti, da quel momento in poi.

Se dovesse associare una parola alla sua fotografia, quale userebbe? Perchè?

Gioco artigianale”, perché la fotografia che preferisco è quella che mi permette di acquistare bobine di pellicole, fare rullini, scattare, sviluppare e stampare in una piccola camera oscura; tutto questo fatto per gioco.

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La fotografia di Andrea Tomas Prato è la dimostrazione di come non sia necessario essere professionisti per creare una “buona fotografia”. Nelle sue immagini, il buongusto si unisce alla semplicità, dando vita ad un momento unico e irripetibile . Il risultato finale di ogni sua ricerca è una fotografia d’impatto, intima ed armoniosa.

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Marco Michieletto: siamo quello che fotografiamo

Nel corso della sua vita, Marco Michieletto ha fatto della fotografia la sua più grande passione. Egli non si limita soltanto a ritrarre incantevoli donne, ma mira ad imprimere in immagini molto di più: gesti, sguardi, fascino e personalità.


Cos’è per lei la fotografia?


Per me, la fotografia è come se fosse un figlio: gioia, dolori, molti pensieri e una spinta motivazionale continua. Non riesco a restare un solo giorno senza studiare una foto, sfogliare un libro o discuterne con gli amici. E’ una buona abitudine che quotidianamente mi crea interesse e arricchisce lo spirito.


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Come si pone verso l’errore?


L’errore fa parte delle mie foto; nonostante io sia un perfezionista nel lavoro, nella fotografia amo la spontaneità. Dunque, se apprezzo l’espressione, il momento, la luce, non mi soffermo troppo a guardare la mano tagliata o la piega del pantalone messa male. Personalmente, ritengo che i dettagli che contano nella buona fotografia siano differenti da quelli che comunemente si è portati a criticare.


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Quanto conta per lei la tecnica?


Personalmente, la tecnica non conta nulla. Non ho mai usato un flash in vita mia, così come non uso pannelli e post-produco il minimo indispensabile; se posso, lo faccio fare ad altri. Per me la fotografia è altro: prendere una modella, farle dimenticare che ho una macchina fotografica in mano ed entrare in stretto contatto con la sua personalità. Per me, la fotografia è tutto quello che riesce a trasmettermi con il viso o con il corpo, nel modo più naturale possibile; si può trattare di un gesto, una movenza o un pensiero. E’ in base a questo ragionamento che arrivo ad affermare che la tecnica, per me, non conta. Avrei risposto diversamente se non mi avesse chiesto “per lei”.


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Cosa c’è di autobiografico nelle sue immagini?


Tutto quanto. Sono un forte sostenitore della frase “siamo quello che fotografiamo“. Guardando una foto, spesso mi diverto a capire la personalità e l’educazione del fotografo che l’ha prodotta. Ho ben chiara la mia, ma mi fermo qui.


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Le donne che lei fotografa sono estremamente sensuali, pur rimanendo eleganti. Qual è l’aspetto che vuole catturare maggiormente in una donna?


La semplicità. Oggi le donne sono come un prestigiatore: vivono su Instragram e tentano di incantarti con tutti i filtri a disposizione. Io voglio prendere il loro cappello e guardare cosa c’è nel doppio fondo.


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Ha sempre affermato di aver voluto separare la fotografia dal suo lavoro. E’ contento di questa scelta?


Assolutamente sì. Conosco molte persone che hanno mollato il loro lavoro per diventare fotografi. Hanno gli stessi problemi e gli stessi problemi che ho io nel mio, con la differenza che non fotografano più per divertirsi. Io fotografo per puro piacere, quando, con chi e come voglio; il fatto di non dover render conto a nessuno di ciò che si fotografa è una libertà impagabile.


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Le sue modelle ricordano molto le dive di un tempo. C’è qualcuna di loro a cui s’ispira?


Jane Birkin.


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Se dovesse associare una sola parola alla sua fotografia, quale sceglierebbe? Perchè?


Sarò banale e ripetitivo ma direi “semplicità”, poiché sono io attraverso i miei click.


C’è un fotografo che ammira particolarmente?


Indubbiamente, Jerry Schatzberg.


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Le è mai successo d’ispirarsi a un libro o ad un film mentre fotografa?


Credo che inconsciamente io lo faccia ogni volta. Sfoglio molti libri e divoro film come patatine; credo sia impossibile non essere influenzati da queste abitudini.


Osservando la fotografia di Marco Michieletto, è impossibile non notare la singolare eleganza delle sue donne che appaiono estremamente sensuali, grintose e semplici al tempo stesso. Le sue immagini si contraddistinguono, pertanto, per un linguaggio proprio, deciso e raffinato. Servendosi di esso, l’autore rappresenta il corpo femminile in maniera spontanea, senza troppi artefici e nel totale rispetto della personalità delle modelle.

Monica Cordiviola: la fotografia è una cosa seria



La fotografia di Monica Cordiviola è una fotografia tutta al femminile. Le donne che ritrae sembrano tutte quante atipiche: dotate di straordinaria personalità e charme.


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I soggetti delle sue immagini sono prevalentemente donne. Qual è l’aspetto su cui si sofferma?


Molto probabilmente amo ritrarre donne perché mi rivedo o tento di farlo in ognuna di esse. Mi soffermo soprattutto sui loro punti di forza e sulle loro debolezze per trarne al meglio l’immagine che maggiormente le rappresenta. Adoro soprattutto i dettagli dei loro corpi.


Le donne fotografate da lei sembrano tutte quante dotate di forte personalità e contemporaneamente molto emotive. Quanto c’è di autobiografico?


Credo che ognuno di noi nasconda in sé forza e debolezza; la mia fotografia ancora oggi è completamente autobiografica. Infatti, rivedo sempre qualcosa di me stessa mentre fotografo.


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Micol Rochi



Le donne nelle sue immagini sono piene di sensualità e carica erotica. Come pone in relazione fotografia ed erotismo?


L’erotismo in fotografia è molto soggettivo: in un’epoca in cui il nudo è all’ordine del giorno, trovo molto più erotiche le donne che si coprono e nascondono il proprio corpo. Io sono in controtendenza, da sempre. Ho studiato molto sul tema del corpo femminile nel corso degli anni, a livello antropologico e di cultura; oggi ritengo che sia una delle forme più dirette nella comunicazione e la fotografia, il suo mezzo.


Come si pone quando ritrae i suoi soggettI?


Quando ritraggo i miei soggetti cerco di mettere, per quanto possibile, a proprio agio le persone; non sempre ci riesco. Nel lavoro, come nella vita, non sempre abbiamo le famose affinità elettive e quando non vi sono, il risultato finale parla per noi.


Come è nata la sua passione per la fotografia? Ci racconta un aneddoto?


La fotografia è entrata nella mia vita circa quindici anni fa e in maniera molto particolare. In realtà, da spettatrice, sono sempre stata circondata dal mondo della fotografia. Da bambina mi dilettavo con le Polaroid ovunque mi trovassi, poi per molto tempo ritagliavo immagini dai magazine degli anni 80 come Harper’s Bazaar e Vogue e le raccoglievo meticolosamente in quaderni che ancora conservo. A trent’anni avevo talmente tante riviste che sfruttavo i loro fogli per ricavarci comodini e mobili in casa. Poi, intorno ai trentacinque anni, comprai la mia prima reflex semi-professionale e da lì è iniziato il mio vero e proprio percorso fotografico.



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Martina Colombari


Dove si dirige la sua fotografia?


La mia fotografia si dirige verso la ricerca dell’essenza del ritratto, sempre contestualizzato ma molto più intimo. Inoltre, sto pensando di iniziare a ritrarre anche gli uomini con la stessa identica intensità.


Se dovesse utilizzare una parola, quale riterrebbe più appropriata per definire la sua fotografia?


Una parola sola? Carnale.


Molte sue immagini sono in bianco e nero. Come giustifica questa scelta?


La scelta di produrre prevalentemente in bianco e nero deriva dal fatto che adoro la vecchia pellicola. Nonostante oggigiorno è sempre più difficile utilizzare l’analogico, ma amo editare le mie immagini con quel sapore. A livello emotivo, mi trasmettono molto di più le immagini in bianco e nero.


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Dove si sta dirigendo la fotografia attuale?


La fotografia attuale non la guardo troppo. A parte alcune eccezioni ovviamente, per me oggi la fotografia è violentata e dissacrata. Molto probabilmente ciò accade perché sta andando di pari passo con la nostra società. Non vorrei sembrare “catastrofista” o colei che è legata alla vecchia scuola, tutt’altro, ma purtroppo vedo un ambiente inflazionato e deprezzato dal suo vero valore. Abusata. Io dico spesso che la fotografia è una cosa seria.


Ci sono dei fotografi da cui si è sentita particolarmente ispirata durante il suo percorso fotografico?


Certamente. Per anni, mi sono nutrita di immagini di Helmut Newton, Dorothea Lange e Steven Meisel.


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Il corpo è il vero protagonista delle immagini di Monica Cordiviola. Esso è inevitabilmente il punto di partenza per comunicare e la fotografia è il mezzo di cui si serve per farlo. Ne deriva una visione della donna che si distanzia da quella proposta attualmente dalla società; sensualità, carattere e grande personalità risultano i caratteri peculiari delle sue donne.


http://www.monicacordiviola.com/

La fotografia di Riccardo La Valle: “una sorta di effimera eternità, così lieve da apparire irreale”

Il fotografo Riccardo La Valle nasce a Latina ma attualmente risiede a Milano. E’ conosciuto per i suoi editoriali e per le pubblicità che ha avuto modo di curare nell’ambito della moda. La sua è una fotografia fatta non soltanto di immagini, ma anche e soprattutto di parole. Ed è proprio la parola “eterea” che egli adora utilizzare per riferirsi alle proprie immagini. La pelle chiara, l’utilizzo di elementi simbolici, l’intimità e l’interiorizzazione della modella sono elementi caratteristici della sua fotografia.

Luoghi e soggetti fotografati. Nell’immagine, i corpi che lei ritrae sembrano quasi voler essere un tutt’uno con l’ambiente circostante. Ce ne può parlare?

Nel cercare l’interpretazione di un soggetto e ancora più a fondo, nel tentativo di raccontare una storia, bisogna inevitabilmente affrontare il contesto in cui si sceglierà di rappresentare la propria idea. Nel mio caso, ho deciso di far sì che l’ambiente diventi un tutt’uno con il soggetto al fine di trasportate l’interiorizzazione della modella a tutto ciò che la circonda, come se ogni cosa fosse presente e disposta per un preciso motivo. Potrei definirla una sorta di scelta pittorica. La più grande opportunità di questo percorso di rappresentazione è quella di poter connotare il soggetto con elementi simbolici, così da poter, in una certa misura, far dialogare la modella con chi osserva la foto.



Introspezione, scrittura e fotografia. Come s’incontrano nelle sue immagini?

In un contesto ormai così ampio e fuori controllo come la fotografia, l’unico modo per ripristinare un controllo sull’immagine e un contenuto nella rappresentazione è quello di far sì che le fotografie divengano rappresentazione di un concetto: un’idea che non sia una semplice visione di una scena, ma che in qualche modo sia la manifestazione tangibile di un sentire più profondo e vero. In questa maniera l’osservatore può venire trascinato in una nuova realtà. Le parole sono la base dell’immagine poiché è attraverso l’organizzazione dei pensieri che possiamo trovare nuove visioni. L’ispirazione che più mi travolge è proprio quella generata dalla scoperta di accostamenti di parole. Sono come un fiume ricolmo di immagini possibili, una musa, da cui devo solo attingere. Nelle mie immagini, trovano forma parole che ho avuto modo di scrivere in attimi che precedono la fase di scatto: anche solo per questo motivo, potrei direi che all’origine di una mia immagine vi è la parola che l’ha ispirata.

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Lei si approccia alla fotografia all’età di 21 anni. Si ritiene soddisfatto dei risultati che ha ottenuto finora?

La verità è che non potrei non esserlo, eppure sto cercando di cambiare tutto per poter nuovamente sentirmi soddisfatto come la prima volta che lo sono stato. Ciò che mi sono prefissato da quando ho scelto di trasformare la fotografia in lavoro, si è concretizzato nonostante gli imprevisti incontrati. Tutto ciò mi ha dato la convinzione che sia ancora possibile poter decidere della propria vita ed essere soddisfatti nel proprio operato. Il problema, sono i costanti nuovi stimoli che ti portano a guardare sempre più in là, e che di conseguenza ti costringono a stare in stretto contatto con l’insoddisfazione per il presente.

Ci sono dei fotografi ai quali crede di essersi ispirato?

Assolutamente, Tim Walker e Paolo Roversi, attraverso le loro opere ho potuto educare la mia immaginazione e così la mia capacità rappresentativa.

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Se dovesse rappresentare la sua attuale fotografia tramite un’immagine, quale userebbe?

Molto probabilmente sceglierei ciò che è più facile riconoscere come proprio dai miei occhi, e opterei per una delle foto in cui studio la rappresentazione del corpo: è in quelle figure piegate ed eteree, così pallide da sembrare eterne, che vado trovando profonda quiete nella loro irremovibile compostezza. Ciò che le rende così intime ai miei occhi è la sensazione di sacro che le avvolge, possiedono un fascino religioso.

Se dovesse associare una parola invece, quale indicherebbe e perché?

Etereo, perchè è ciò che cerco di rappresentare: una sorta di effimera eternità, così lieve da apparire irreale. Questa parola va al di là delle mie immagini. E’ un concetto fondante della mia percezione delle cose, un postulato della mia persona che provo ad infondere in tutto ciò che faccio.

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Le riesce più facile rappresentare le immagini che ha in testa tramite la fotografia o tramite la scrttura?

Direi attraverso le parole per quanto detto prima, ma anche per via dei miei limiti fotografici.

C’è stato mai un sogno che l’ ha ispirata fotograficamente?

Assolutamente si, ma per essere più precisi direi che quel sogno più che ispirato, mi ha proprio svelato la storia di un progetto. L’idea di base già era stata scritta, ma durante il sogno, ho potuto vedere tutte le scene svolgersi una di seguito all’altra, esattamente come fosse un film. E’ stato fortemente illuminante.

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In quale direzione va attualmente la sua fotografia?

Sto cercando di varcare la soglia del settore della fotografia artistica. E’ un processo che richiede molti sacrifici e compromessi con il presente, ma sono certo che lì potrei trovare la mia reale dimensione, nella quale potermi muovere più liberamente e iniziare così a creare le opere che ho sempre voluto.

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Ha dei progetti in cantiere? Può accennarci qualcosa?

Molti, ma preferisco non andare nel dettaglio perchè sono progetti a cui tengo molto e non vorrei snaturarli parlandone prima che siano conclusi.

Riccardo La Valle, nonostante la sua giovane età, è riuscito a costruire un proprio linguaggio. Sempre in bilico tra sogno e realtà, le sue immagini risultano agli occhi degli osservatori lievi ed eleganti. Tuttavia, egli è perennemente alla ricerca di se stesso e di un linguaggio che lo rifletta nel migliore dei modi. Non resta dunque che augurargli buon lavoro.

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Addio a Pierre Bergé: ex socio e compagno storico di Yves Saint Laurent

Lutto nel mondo della moda: si è spento, all’età di 86 anni, il celebre imprenditore francese Pierre Bergé. Malato da anni di miopatia, si è spento nella sua residenza a Saint Rémy-de-Provence, in Francia. A darne la triste notizia è stata la stessa fondazione Pierre Bergé-Yves Saint Laurent.

Bergé, nel 1961, è stato cofondatore della rinomata Casa Yves Saint Laurent Couture. Dopo la sua chiusura, è divenuto presidente della Fondazione Pierre Bergé-Yves Saint Laurent. Oggigiorno, l’imprenditore francese viene ricordato soprattutto per la sua lunga relazione sentimentale con il socio Yves Saint Laurent. Anche dopo la sua fine, avvenuta in maniera ufficiale nel 1976, Bergé rimarrà al fianco del compagno fino alla sua morte avvenuta nel 2008 per colpa di un tumore al cervello. La sua passione per il grande couturier è durata innumerevoli anni, nonostante i vizi risaputi di YSL. In merito al suo amore folle, diceva: «Yves aveva bisogno di fare le esperienze anche estreme che si facevano nella Swinging London. A me diceva sempre che ero noioso, troppo preciso. Mi amava molto, su questo non ho mai avuto dubbi, però io non bevevo, non mi drogavo, facevo una vita molto normale».

Pierre Bergé è stato nel corso della sua vita un uomo provocatorio, amante dell’arte e della cultura. Egli stesso si autodefiniva un “artista mancato”. In occasione di un’intervista, durante la quale gli è stato domandato cosa avrebbe fatto se avesse avuto 20 anni, ha affermato: “Non lo so. Forse farei il terrorista. Poi guardo a quello che succede oggi e capisco l’inconsistenza di questa affermazione. Però ne apprezzo la provocazione. Viviamo in un’era di politically correct, termine odioso che per me rappresenta la morte dell’intelligenza. Bisogna tornare a essere radicali e a seguire le proprie convinzioni senza paure, fino in fondo”.

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In vita, si è molto battuto per la difesa dei diritti degli omosessuali, lottando sempre al fianco del compagno. Sempre durante un’intervista, egli ha dichiarato: “L’omosessualità è quello che è, non è una deviazione o una malattia. Yves aveva un po’ paura a parlare di questo, era un giovane timido venuto dall’Algeria. Ma io l’ho aiutato ad andare avanti per la sua strada. Volevo che diventasse il centro del mondo“.

Efrem Raimondi: in buona sostanza ho un ottimo rapporto col mio invisibile, sono io!

Efrem Raimondi nasce a Legnano il 16 agosto 1958. La sua fotografia ha come soggetto nient’altro che se stessa. Le sue immagini si collocano in una zona in bilico tra il sogno e la realtà. Esse vanno alla ricerca dell’essenza profonda di ciò che viene visto, indipendentemente dal soggetto. Raimondi parla, precisamente, di “Invisibile”.

Il mese di ottobre La vede impegnato in tre città: Milano, poi Siena e Pordenone. Può anticiparci qualcosa?

Con piacere. Premesso che è un impegno in parte didattico coi workshop sul ritratto a Siena e a Pordenone. E con un corso avanzato, sempre sul ritratto, a Milano. Entrambi i percorsi si pongono il problema di come poter produrre fotografia di ritratto superando gli stretti argini del genere. Che in alcuni casi, il genere, ha la sua motivazione e collocazione, ma più spesso finisce per soffocare la fotografia, quella maiuscola, nella morsa di cliché e manierismi: qui si intende andare oltre. Facendo in primis fotografia, che poi sia di ritratto non cambia nulla.
Poi ancora a Siena la lectio magistralis Presente imperfetto , sulla falsariga di quella tenuta a giugno al MAXXI di Roma, insieme alla curatrice Benedetta Donato che è stata fondamentale. Questa volta ad accompagnarmi c’è Alessandro Pagni. E confido molto sulla sua presenza, perché ha uno sguardo acuto. La lectio è una sorta di viaggio sull’idea che ho di fotografia attraverso quella che è la mia produzione. A partire dal 1980 sino ad oggi. Non si può spiegare in due righe, bisogna esserci.
E poi ancora Siena con una piccola mostra, PORTRAIT FOR SALE: 19 opere, ritratti, a figure internazionali di primissima grandezza e a persone che il circo mediatico definirebbe comuni – incluso un mio nudo, un autoritratto del 1986 – ma che per me hanno una valenza particolare. Il differenziale vero è sempre il COME si fotografa. Non COSA, non CHI. Per un autore il soggetto è solo il pretesto per raccontare sé stesso. Sempre. E questo è il mio PERCHÉ. Non ne conosco altri.
Comunque tutte le informazioni di questo ottobre denso si trovano sul mio blog. Per chi volesse: http://blog.efremraimondi.it/

Nei Suoi ritratti, il gesto assume una rilevanza particolare e sembra quasi diventar soggetto. Come si approccia a fare un ritratto?

Per me il soggetto della fotografia è la fotografia stessa, tutta quanta. Tutto ciò che è nel perimetro compone il soggetto e esiste. Ciò che non c’è non esiste. Anche una cosa apparentemente marginale, ficcata in un angolo, ha un suo peso specifico ed è partecipe dell’immagine che restituiamo. Con una premessa del genere la risposta è abbastanza scontata: con l’intento di portarmi a casa qualcosa che soddisfi me in primis. Non cercando mai, ma proprio mai, alcuna stranezza, alcun artificio.

Questo modo di approcciarsi al ritratto è rimasto immutato negli anni o reputa che abbia subito un’evoluzione?

L’approccio è sempre stato lo stesso. E passa per un concetto chiaro: essere diretto e molto semplice. La mia è una fotografia semplice. Certo, nel corso del tempo la capacità di modulare questa semplicità ha contribuito a precisare la mira. Ma non è stato un travaglio. Proprio un percorso: l’ambizione è sempre stata far coincidere ciò che produco con ciò che intendo produrre. E perché questo diventi possibile servono due elementi: ampliare lo sguardo e affrontare i dubbi, riflettere su ciò che si sta facendo, prima e dopo. Durante, non penso. Fotografo.

All’interno del suo blog, in più sezioni, lei afferma: “La fotografia si occupa dell’invisibile”. Come definisce il Suo rapporto personale con l’invisibile?

Ognuno di noi intercetta solo ciò che intimamente gli appartiene, sforzarsi non serve a nulla. Alla fin fine sei come che fotografi. Il vero differenziale lo fa il linguaggio, quella proprietà soggettiva che permette o meno di esprimersi. L’invisibile è tale finché non lo cogli. Ma appunto non basta, poi devi renderlo espressione. In buona sostanza ho un ottimo rapporto col mio invisibile: sono io! Ed è un buon rapporto solo quando lo traduco in immagine, altrimenti è un tormento.

Sempre all’interno del suo blog, lei accenna che fin da bambino le piaceva fantasticare mentre sfogliava riviste di fotografia come “Popular Photography”, alla quale suo padre era abbonato. E’ iniziata così la passione per la fotografia?

Anche così. Ma era un altro mondo, stiamo parlando della metà degli anni ’60: allora, piccolissimo, girovagavo per mostre e musei coi miei genitori. Accompagnavo mio padre a sviluppare e stampare in una meravigliosa camera oscura persa nella nebbia della periferia di Milano, proprio di fronte all’aeroporto di Linate. Vedere l’emergere di un’immagine da una bacinella mi affascinava un po’ come quando vedevo gli aerei spuntare dalla nebbia, a 50 metri dal tetto di casa mia. Con quella luce rossa lampeggiante dalla pancia dell’aereo e nient’altro. Solo il suono dei motori.

Cosa significa, per lei, fotografare una donna? Qual è l’elemento che adora catturare maggiormente in un soggetto femminile?

Significa fotografare una persona. Coinvolgersi. Coincidere. Ma è esattamente come quando ritraggo altri soggetti. Per intenderci non la butto mai sulla sessualità, semmai sulla fascinazione. E basta davvero uno sguardo. E lo sguardo non ha età. Ho ritratto fanciulline e donne anziane: in ognuna trovo quello che cerco. E non è mai definibile a priori.

MILANO, IDROSCALO. JUNE 2012. Alias Charlyn "Chan" Marshall. U.S.A. SINGER-SONGWRITER.
Cat Power, 2012 per Rolling Stone Italia


Se dovesse definire la sua fotografia con una parola, quale preferirebbe utilizzare?

Detto: semplice. Che non significa facile. E trasversale: fotografo tutto l’invisibile che mi riguarda.

Fotograficamente parlando, come si pone nei confronti dell’errore?

L’errore, la consapevolezza dell’errore, è il prodotto di una conoscenza. Se lo individui diventa prezioso contributo del tuo percorso espressivo. Ho fatto dei redazionali in cui l’errore era il soggetto. Poi sa, a volte si equivoca sull’errore. C’è chi pensa che esistano delle regole ferree non trasgredibili. In genere chi pensa questo è un subordinato della regola. E di fatto ne sottolinea la non consapevolezza. La scarsa padronanza. Le regole esistono. Il linguaggio, per essere tale, le possiede e le usa a suo piacimento. La perfezione non esiste ed anzi è proprio grazie all’imperfezione che sottolineamo la nostra cifra espressiva.

Che rilevanza attribuisce alla quotidianità e all’intimità?

Alta. Ma non è detto che abbiano una relazione direttamente proporzionale. Può accadere che ci siano singoli elementi di intimità con una persona sconosciuta. Per una fotografo, per chiunque esercita lo sguardo, è un elemento vitale.

Ultima domanda. In che direzione si sta dirigendo la fotografia nel mondo contemporaneo?

Dobbiamo, credo, fare un distinguo: le fotografie non necessariamente sono il prodotto di una consapevolezza. Se invece è di consapevolezza che parliamo, allora sì, il prodotto sarà realmente rappresentativo del produttore. E quindi fotografia. Penso che la forbice qualitativa, espressiva, sia destinata ad allargarsi. Già accade. E paradossalmente a fronte di una spropositata, spaventosa produzione di immagini, corrisponde una produzione autoriale che va per la propria strada. Ma esattamente come sempre gli artisti hanno fatto.
Poi c’è il mercato e il marketing, che cavalcano la massificazione iconografica. Instagram ne è l’esempio: una grande bolla. C’è tanta demagogia nel concetto di democrazia in fotografia: la fotografia, come qualsiasi linguaggio complesso, e perciò davvero significativo, non è democratico. E non media l’espressione col mercato.

Ottobre sarà un mese intenso per Efrem Raimondi, in quanto lo vedrà protagonista di un ciclo didattico di grande interesse. Il prossimo anno, come egli sottolinea anche all’interno suo blog, si aprirà con delle novità. Nel frattempo, non resta che augurargli un buon lavoro e di continuare al meglio la sua splendida carriera.

http://blog.efremraimondi.it/
http://www.efremraimondi.it/

Mostra del cinema di Venezia 74: applausi per «The Leisure Seeker» di Paolo Virzì

E’ stato presentato il 3 Settembre alla 74^ Mostra del cinema di Venezia il primo film italiano in concorso: «The Leisure Seeker» di Paolo Virzì.

Dopo “La Pazza Gioia” il regista livornese racconta la storia commovente dei due coniugi Ella e John che si amano nella malattia fino alla fine delle loro vite. In occasione della prima proiezione, Virzì e i due interpreti stranieri (l’inglese Helen Mirren e il canadese Donald Sutherland) si sono aggiudicati intensi e lunghi applausi.

John è un ex professore di letteratura e un grande appassionato dello scrittore Ernest Hemingway, affetto da un Alzheimer destinato progressivamente ad aggravarsi. La moglie, Ella, è affetta invece da un grave cancro allo stadio terminale. I due scelgono di avventurarsi in un lungo viaggio segreto verso Key West, dirigendosi verso la casa dello scrittore che John aveva tanto adorato ai tempi dell’insegnamento.

the-leisure-seeker

Il film, che si apre con l’immagine della campagna presidenziale, è anche la raffigurazione dell’attuale America: un Paese in cui Ella e John stentano a riconoscersi. Esso è al tempo stesso la metafora della fuga da un destino doloroso. L’anziana coppia sceglie il divertimento e l’avventura alle cure ospedaliere. Il loro ultimo viaggio rappresenta dunque la scelta della libertà e della dignità, anche negli ultimi istanti di vita e nella malattia. L’avventura prosegue poi per la Route 1 sulla East Coast degli States e termina a Key West.

Tra le parole e i lunghi silenzi, tra il dipinto della condizione attuale e i ricordi, il regista è riuscito a mettere alla luce con grande sensibilità una tematica così delicata come l’anzianità.

The Leisure Seeker è per Paolo Virzì il primo film girato interamente in America, in lingua inglese e s’ispira all’omonimo romanzo di Michael Zadoorian.
L’uscita al cinema è prevista per il 25 gennaio 2018.

Conversano ospita “L’uomo infinito” di Man Ray

L’uomo infinito” è il titolo della mostra del celebre artista Man Ray allestita nel castello di Conversano, in provincia di Bari, dal 15 luglio al 19 novembre 2017; organizzata dall’Associazione Culturale Artes in collaborazione con l’Amministrazione Comunale di Conversano, la Fondazione Marconi ’65 di Milano ed il Man Ray Trust.

Il titolo della mostra attinge dal nome dell’omonima opera dell’artista americano, “Lhomme infini”, risalente al 1970. La mostra presenta circa 100 opere tra fotografie, sculture, dipinti, disegni e litografie di colui che viene considerato il massimo esponente del Dadaismo. Le sezioni che si susseguono sono otto: “”New York 1912 – 1921”, “Il rapporto con Marcel Duchamp”, “Gli amici artisti e autoritratti”, “Muse e Modelle”, “Dadaismo ed avanguardie”, “”Realtà e finzione-voyeurismo e sadismo”, ‘Juliet’ e “Ritorno in Francia”.

La mostra ripercorre l’intero percorso artistico di Emmanuel Rudzitsky (il vero nome di Man Ray) in tutta la sua evoluzione ed ha inizio a partire dall’incontro con il grande artista Marcel Duchamp e con la nascita di un Dadaismo di stampo americano. Ben presto, Man Ray abbandonerà la sua terra natale per recarsi nella capitale francese dove troverà un luogo culturale più accogliente e più adeguato per la sua poetica dadaista. Ed è proprio a Parigi che Man Ray comincerà a ritrarre le figure intellettuali più importanti di quell’epoca, come Jean Cocteau.

Noire et Blanche, 1926 Photo de Man Ray
Noire et Blanche, 1926
Photo de Man Ray


Nell’ambito dell’arte fotografica, egli dimostrerà che la fotografia non è affatto la riproduzione della realtà ma la creazione di concetti completamente nuovi attraverso associazioni di idee e l’utilizzo di linguaggi preesistenti. Meritano una menzione speciale i suoi “rayographs”: fotografie ottenute poggiando direttamente gli oggetti da ritrarre sulla carta sensibile.

Oggigiorno Man Ray, attraverso la sua capacità di sperimentazione, si rivela agli occhi del pubblico come un artista completo. Le sue opere, avvalendosi delle tecniche e poetiche più disparate, rappresentano la sintesi perfetta delle avanguardie della sua epoca e sono la dimostrazione dell’abilità dell’artista a creare un linguaggio innovativo personale.