Per non dimenticare

La deportazione e lo sterminio degli ebrei. Un evento tanto tragico quanto assurdo ed incomprensibile, che non va e non deve essere dimenticato. Proprio in questo senso, il cinema giunge in soccorso, attraverso la riproposizione del tema dell’Olocausto. Oggi vi proponiamo due tra le più significative pellicole riguardanti il periodo della Seconda Guerra Mondiale. La prima è datata 2006, mentre la seconda 2013. Andiamo nel dettaglio.

Black Book

Il primo film di cui vi parliamo è Black Book (letteralmente “Libro nero”), un’opera che mostra un fronte forse leggermente più sconosciuto, quello della resistenza olandese al dominio nazista.

La storia è ambientata nel settembre 1944 e vede come protagonista Rachel Stein, una ragazza che di mestiere fa la cantante di varietà. Fuggita dalla Germania per trovare rifugio in Olanda, la giovane ritrova la sua famiglia nelle zone liberate dall’invasione. La gioia tuttavia è fugace: a causa di un’imboscata tedesca, la giovane perde tutti i suoi cari. L’unica che riesce a sopravvivere all’esecuzione di massa è proprio Rachel, che ottiene asilo presso un gruppo di uomini appartenenti alla resistenza olandese con al comando Kuipers. La nostra eroina decide così di schierarsi con loro e di sfruttare la sua bellezza estetica. Dopo aver cambiato identità (il suo nuovo nome è Ellis De Vries), infatti, Rachel s’insinua nelle stanze del potere con l’incarico di sedurre l’ufficiale delle SS Muntze, finendo poi per innamorarsene. Nonostante ciò, la donna non perde di vista la sua missione: piazzare una microscopia per ottenere informazioni top secret. Ma un altro uomo vorrebbe fare breccia nel cuore di Rachel: Hans Akkermans, un medico della resistenza. Una notte, a seguito di un’improvvisa irruzione, molti partigiani vengono barbaramente uccisi e Rachel viene accusata di alto tradimento. Ma la verità è un’altra…

Black Book
Black Book

Il regista del film è l’olandese Paul Verhoeven (reso celebre per lavori quali RoboCop, Basic Instinct e L’uomo senza ombra), che inscena un dipinto realistico della resistenza olandese, inglobando gli stilemi tipici del melodramma. Nel delicato passaggio dalla dittatura alla libertà, Black Book si sviluppa attraverso l’ausilio di una serie di personaggi dallo sguardo ingannevole e dagli atteggiamenti torbidi e sibillini, presunti eroi pronti a divenire impostori e a svelare la loro naturale inclinazione alla sopraffazione. Inutile dire che su tutti spicca la protagonista Carice Van Houten (Rachel Stein), una figura femminile ammaliante e dispensatrice di erotismo. Ogni uomo, dal più spietato ufficiale delle forze armate tedesche (Muntze) al medico della resistenza (Hans), non desidera altro che possederla. La memoria di Rachel verrà racchiusa da Israele, lo Stato creato dalle Nazioni Unite nel 1948 per accogliere l’incredibile esodo della popolazione ebraica.

 

Corri ragazzo corri

La seconda pellicola che vi proponiamo proviene direttamente dalla cinematografia polacca e s’intitola Corri ragazzo corri.

Il film racconta la storia di Srulik, un bambino ebreo di 8 anni fuggito con l’aiuto del padre dal ghetto di Varsavia, fingendosi un orfano polacco per sfuggire alle truppe naziste in presidio. Anche in questo caso, il protagonista cambia identità, divenendo Jurek. Con il suo nuovo nome, il bambino si armerà di coraggio e attraverserà intere foreste pur di trovare una casa o una fattoria in cerca di cibo in cambio del proprio lavoro. La sua fuga verso la libertà non avrà sosta, anche quando sarà consegnato ai nazisti, da cui riuscirà incredibilmente a fuggire in maniera fortunosa. In attesa della fine della guerra, Srulik proseguirà il suo incessante cammino, incontrando lungo il suo percorso persone che lo aiuteranno ed altre, invece, decise ad ucciderlo.

Corri ragazzo corri
Corri ragazzo corri

Il regista Pepe Danquart (vincitore di un Premio Oscar per il cortometraggio Schwarzfahrer del 1993) inscena il progressivo e graduale allontanamento dalle proprie origini di un bambino che ha promesso solennemente al padre di sopravvivere. Tratto dal best seller omonimo di Uri Orlev, il film eleva il suo giovane protagonista a paladino della libertà e dell’intelligenza, le uniche armi in grado di contrastare e sconfiggere l’incubo nazista. Man mano che Srulik si trasforma in Jurek il suo passato viene costantemente cancellato, così come la sua religione e la sua reale identità, accompagnato dal dolore per non avere diritto ad un posto nel mondo.

L’incessante fuga per libertà, contrassegnata dalla volontà di sopravvivere, può essere interpretata come una metafora del popolo ebraico, verso il quale Srulik non crede più di appartenere, fino al momento in cui realizzerà concretamente in che modo tutto ebbe inizio.

Siamo perciò dinanzi ad un’autentica odissea, in cui un bambino di soli 8 anni continuerà a lottare pur di mantenere la promessa fatta al padre. Un’infanzia violata che solo il coraggio e la forza di volontà potranno far tornare a galla.

Tanti auguri Elijah Wood

Vi ricordate quel ragazzino di 8 anni con la maglietta rossa intento ad osservare il protagonista di Ritorno al futuro: Parte II giocare ad un videogioco? Quel bambino oggi compie 35 anni. Stiamo parlando dell’attore statunitense Elijah Wood, alias Frodo Baggins, lo hobbit della celebre trilogia cinematografica de Il Signore degli Anelli diretta da Peter Jackson.

In occasione del suo compleanno, vi proponiamo un suo breve ritratto, menzionando le sue principali apparizioni sul grande schermo.

Nato a Cedar Rapids (Iowa) il 28 gennaio 1981, Elijah Wood debutta come protagonista a fianco di Mel Gibson nel film Amore per sempre del 1992, mentre l’anno successivo è affiancato da Macaulay Culkin (Mamma ho perso l’aereo) nel thriller L’innocenza del diavolo. Nel 1996, invece, è la volta della pellicola intitolata Flipper, mentre nel 1998 di Deep Impact.

Uno dei film più noti che vede tra i protagonisti Elijah Wood è sicuramente Hooligans – Green Street, datato 2005. Uno spaccato crudo e realistico della realtà ultrà dell’Inghilterra, con particolare riferimento all’antica e mai sopita rivalità sulle sponde del Tamigi tra i tifosi del West Ham e quelli del Millwall.

Uno scontro tra i tifosi del West Ham e i supporters del Millwall nel film Hooligans - Green Street, con Elijah Wood
Uno scontro tra i tifosi del West Ham e i supporters del Millwall nel film Hooligans – Green Street, con Elijah Wood

Nello stesso anno interpreta il ruolo dello spietato cannibale dagli artigli affilati Kevin in Sin City.

Sin City, Elijah Wood nei panni dell'assassino cannibale Kevin
Sin City, Elijah Wood nei panni dell’assassino cannibale Kevin

Nel 2007, invece, diventa protagonista del film Oxford Murders – Teorema di un delitto, coadiuvato da John Hurt. Due anni più tardi, il 25 maggio 2009, si aggiudica il Midnight Award al San Francisco International Film Festival, premio conferito ad un giovane attore che abbia contribuito allo sviluppo e alla promozione del cinema indie.

Infine, nel 2012 compare in un cameo celebrativo nelle vesti di Frodo in Un viaggio inaspettato, il primo capitolo della trilogia de Lo Hobbit, nonché prequel de Il Signore degli Anelli.

 

Ogni cosa è illuminata

Evidentemente il 2005 è stato l’anno più florido per Elijah Wood, dato che, oltre ai già citati Hooligans – Green Street e Sin City, in quel lasso di tempo fu protagonista anche di un’altra opera: Ogni cosa è illuminata, diretta dall’attore statunitense Liev Schreiber (di cui ricordiamo The Manchurian Candidate, Defiance – I giorni del coraggio e X – Men le origini – Wolverine), al suo debutto dietro la macchina da presa.

Ogni cosa è illuminata
Ogni cosa è illuminata

La pellicola racconta la storia di Jonathan Safran Foer (Elijah Wood), un ebreo americano che narra a sua volta di uno studente, Jonathan, anch’egli americano, in viaggio per l’Ucraina in cerca della donna che salvò la vita di suo nonno strappandolo all’abominio nazista. È proprio in virtù di tale decisione che nell’arco dei 106 minuti di durata lo spettatore può ricostruire la memoria e la realtà del piccolo villaggio di Trachimbord, uno dei tanti shtetl bruciati e gettati nell’oblio nel corso della Seconda Guerra Mondiale. Stiamo parlando di una comunità che ha purtroppo smesso di esistere dal punto di vista geografico, ma che ha saputo rinascere e ricrearsi nell’animo di quelle persone che hanno scrupolosamente e laboriosamente conservato le sue tracce, fino ad arrivare ad una sorta di collezione di ricordi.

Jonathan inizia così il suo lungo peregrinare armato di una fotografia del nonno immortalato in compagnia della sua salvatrice Augustine. Il ragazzo sarà accompagnato durante il suo viaggio da un altro nipote, Alexander Perchov, la voce fuori campo del film, nonché da un altro nonno ebreo sopravvissuto alle stragi naziste, un uomo scorbutico che si finge cieco dietro ad un paio di grossi occhiali scuri e accompagnato da un cane guida piuttosto bizzarro.

Il personaggio di Alexander è interpretato da Eugene Hutz, noto dj e cantante del gruppo musicale dei Gogol Bordello. Egli è altresì un attore (statunitense, ma di origini sovietiche), di cui ricordiamo pellicole quali Wristcutters – Una storia d’amore del 2006 e Sacro e profano del 2008.

Elijah Wood ed Eugene Hutz in una scena del film Ogni cosa è illuminata
Elijah Wood ed Eugene Hutz in una scena del film Ogni cosa è illuminata

Ogni cosa è illuminata è un film incentrato sia sull’universalità dei canonici registri appartenenti al filone tragico, sia sui tempi e le modalità della cultura della comicità yiddish.

 

Un astro nascente

Un fiore dal profumo inebriante sbocciato immediatamente. Questa potrebbe essere una delle definizioni più calzanti per la famosa attrice statunitense Jennifer Lawrence. In occasione dell’uscita nelle sale cinematografiche del nuovo film intitolato Joy, a partire da giovedì 28 gennaio, ripercorriamo le tappe fondamentali della breve, ma già intensa carriera di uno dei talenti più puri della scuderia hollywoodiana.

Jennifer Lawrence nasce a Louisville (Kentucky) il 15 agosto 1990. All’età di 14 anni convince i suoi genitori, Karen e Gray Lawrence, a condurla a New York per trovarle un agente ed intraprendere così la carriera di attrice.

L’esordio assoluto avviene con le serie tv TBS The Bill Engvall Show, grazie alla quale, per il ruolo interpretato, ottenne uno Young Artist Awards, e Cold Case – Delitti irrisolti.

Il 2008, invece, segna il debutto ufficiale sul grande schermo con le pellicole Garden Party e The Burning Plain – Il confine della solitudine, con Kim Basinger e Charlize Theron. In virtù di quest’ultima opera, la Lawrence riuscì ad aggiudicarsi il Premio Marcello Mastroianni in occasione della 65° Mostra Internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Nello stesso anno comparve nel film The Poker House ed anche in questa circostanza fu premiata ai Los Angeles Film Festival.

Il successo è dietro l’angolo ed arriva puntuale a partire dal 2010. Il film Un gelido inverno consacra definitivamente il talento cristallino di un astro nascente del cinema in procinto di spiccare il volo nell’olimpo di Hollywood.

Jennifer Lawrence in una scena tratta dal film Un gelido inverno
Jennifer Lawrence in una scena tratta dal film Un gelido inverno


Per aver ricoperto il ruolo della protagonista Ree Dolly, Jennifer Lawrence conseguì numerosi riconoscimenti dalla critica, tra cui il National Board of Review Award per la miglior performance rivelazione femminile, nonché una nomination all’Academy Award nella categoria “miglior attrice protagonista” nel gennaio 2011.

Il 23 marzo 2012 esce nelle sale Hunger Games, tratto dall’omonimo romanzo best-seller di Suzanne Collins, in cui la Lawrence recita al fianco di Josh Hutcherson, Liam Hemsworth e del cantante rock Lenny Kravitz.

Hunger Games
Hunger Games


Per interpretare al meglio la parte della protagonista Katniss Everdeen ,l’attrice americana si prodigò in un duro allenamento che prevedeva esercizi acrobatici, tiro con l’arco, arrampicate sugli alberi e le rocce, combattimenti, corsa, parkour, pilates e yoga. La pellicola fu un vero successo ed incassò ben 152,5 milioni di dollari in soli tre giorni.

La scalata verso la gloria continua con il ruolo di Mystica nel film X – Men – L’inizio, il prequel della celebre saga degli eroi mutanti degli X – Men, coadiuvata, tra gli altri, da James McAvoy e Michael Fassbender.

Jennifer Lawrence nel ruolo di Mystica per il film X - men - L'inizio
Jennifer Lawrence nel ruolo di Mystica per il film X – Men – L’inizio

 

Coppia fissa

Nel corso della sua brillante e vincente carriera, Jennifer Lawrence ha recitato più volte a fianco del noto attore statunitense Bradley Cooper.

Bradley Cooper e Jennifer Lawrence
Bradley Cooper e Jennifer Lawrence


È il caso, per esempio, dell’opera intitolata Una folle passione, uscita nelle nostre sale cinematografiche il 30 ottobre 2014 e tratta dal romanzo omonimo di Ron Rash, con la regia di Susanne Bier.

Scena tratta dal film Una folle passione
Scena tratta dal film Una folle passione


La fama internazionale, tuttavia, giunge nel novembre 2012 con Il lato positivo, grazie al quale si aggiudicò un Oscar, un Golden Globe e altri riconoscimenti come miglior attrice.

Bradley Cooper e Jennifer Lawrence in una scena del film Il lato positivo
Bradley Cooper e Jennifer Lawrence in una scena del film Il lato positivo


Il suo sodalizio professionale con Bradley Cooper si rafforza e ne viene inaugurato un altro, quello con il regista David Owen Russell.

Il terzo film in compagnia di Bradley Cooper e il secondo con Russell in cabina di regia è American Hustle – L’apparenza inganna, con Christian Bale, Amy Adams e Jeremy Renner. La pellicola è uscita nelle sale italiane il 1° gennaio 2014.

Il cast di American Hustle
Il cast di American Hustle

 

Joy

A partire da giovedì 28 gennaio, grazie alla 20th Century Fox, sarà possibile prendere visione dell’ultimo film con protagonista Jennifer Lawrence, Joy, affiancata da Robert De Niro e, ovviamente, da Bradley Cooper e dalla regia di David O. Russell.

Jennifer Lawrence nel nuovo film di David O. Russell "Joy"
Jennifer Lawrence nel nuovo film di David O. Russell “Joy”. Sullo sfondo Robert De Niro


La pellicola racconta la storia di Joy Mangano, una sorta di Cenerentola moderna sognatrice. Alle prese con la superba e prepotente sorellastra, la ragazza trascorre le sue giornate a pulire casa con uno straccio. Tuttavia, incredibilmente, sarà proprio il brevetto di un semplice e banale panno per pavimenti che condurrà Joy fuori dalla sua insignificante esistenza. Ma la strada per il successo si rivelerà irta d’ostacoli e problemi da superare, un costante slalom tra tradimenti, delusioni ed umiliazioni…

Joy è una commedia drammatica a tinte fiabesche caratterizzata da una voce fuori campo che accompagna lo spettatore nei meandri della vicenda. Se qualcuno dovesse etichettare la nuova fatica di David O. Russell come una soap opera non andrebbe molto lontano dalla realtà. Il linguaggio tipicamente televisivo, infatti, regna sovrano e la scena in cui il producer Neil Walker (Bradley Cooper) spiega a Joy (Jennifer Lawrence) il controverso mondo delle televendite funge da testimonianza principale.

Per questo motivo l’amalgama tra la favola della ragazza che non ha mai smesso di sognare e che riesce a costruire dal nulla un impero imprenditoriale, e l’immaginario collettivo cinematografico non trova una sostanziale coesione strutturale. Nonostante ciò, la prova attoriale di Jennifer Lawrence risulta, come sempre, di ottima fattura.

Il fiore del Kentucky continua a sbocciare…

Simply The Best

Spesso nel calcio il talento va di pari passo con la follia. Stiamo ovviamente parlando di una sana pazzia, ma questa caratteristica, se troppo marcata, potrebbe alla lunga portare a spiacevoli conseguenze. Oggi vi proponiamo il ritratto di uno dei calciatori più forti della storia, un mix di agilità, tecnica e potenza. Un attaccante che a suon di goal e trofei vinti riuscì ad aggiudicarsi il pallone d’oro, ma, come capita sovente, la vita gli ha riservato una lunga e triste sofferenza. Signore e Signori, ecco a voi George Best, semplicemente il migliore.

George Best nasce a Belfast (Irlanda del Nord) il 22 maggio del 1946, crescendo nel quartiere a est della capitale in una famiglia protestante.

George Best
George Best


A soli 15 anni il suo immenso talento fu notato dall’osservatore del Manchester United Bob Bishop, che avvertì immediatamente l’allenatore dei Red Devils dell’epoca Matt Busby di aver trovato un genio. Best trascorse due anni aggregato alle giovanili del prestigioso club inglese come dilettante, dato che in quel periodo non era concesso offrire contratti ufficiali per le giovanili ai calciatori nordirlandesi. L’espediente fu di trovargli un posto come fattorino al Manchester Ship Canal, consentendogli in tal modo di prendere parte agli allenamenti due volte a settimana.

Il debutto ufficiale in Premier League (il Campionato inglese) avvenne il 14 settembre 1963 a 17 anni contro il West Bromwich Albion. Il 28 dicembre dello stesso anno, invece, fece il suo esordio in FA CUP (una delle coppe nazionali più importanti) contro il Burnley, partita vinta dai suoi per 5 a 1. È proprio in quella circostanza che Best siglò il suo primo goal con la maglia del Manchester. Da quel momento in poi mister Busby decise di inserirlo stabilmente in prima squadra. Best segnò 6 reti in 26 presenze nell’intera stagione 1963-64. Nella stagione successiva, invece, ingranò definitivamente la marcia, mettendo a segno 14 reti in 59 presenze, contribuendo alla vittoria della Premier League da parte dello United.

La consacrazione arrivò all’età di 19 anni, quando Best realizzò una doppietta contro il Benfica nei quarti di finale della Coppa dei Campioni (l’odierna Champions League). Due reti che consentirono al Manchester di approdare in semifinale e superare la squadra portoghese per 5 a 1 allo stadio Da Luz di Lisbona. Affascinati dalla sua classe mostrata in campo, i giornali iberici lo soprannominarono “il quinto Beatle”. Da quel momento in avanti le prime pagine dei quotidiani sportivi (e non) saranno tutte sue. Purtroppo, il 26 marzo Best s’infortunò ad un ginocchio a causa di uno scontro di gioco con un giocatore del Preston North End, arrivando in pessime condizioni fisiche alla semifinale di coppa contro i serbi del Partizan Belgrado. Rimase fermo ai box per il resto della stagione.

 

Ma il successo si era solo preso una pausa. Nella stagione 1966-67, infatti, il Manchester conquistò nuovamente il titolo di campione d’Inghilterra. Best realizzò 10 reti in 45 presenze nelle varie competizioni.

Nella stagione successiva, 1967-68, Best toccò l’apice della sua carriera. Egli si aggiudicò il titolo di capocannoniere della Premier (in coabitazione con Ron Davies del Southampton), ma soprattutto vinse la Coppa Campioni e il Pallone d’Oro. Il trofeo internazionale fu alzato al cielo grazie al successo in finale di nuovo contro il Benfica per 4 a 1, in cui Best mise a segno un gran goal nei tempi supplementari (i 90 minuti regolamentari finirono sul punteggio di 1 a 1). Piccolo inedito riguardante la vigilia di questa importantissima gara: mentre i suoi compagni riposavano, Best ebbe la brillante idea di rilassarsi in un’altra maniera, trascorrendo la notte con una ragazza di nome Sue.

All’età di 22 anni Best aveva già vinto moltissimo, ma da qui in poi la sregolatezza della sua personalità ebbe il sopravvento. Nella stagione 1968-69, nonostante 22 reti in 55 partite complessive, il Manchester United terminò il Campionato all’undicesima posizione. In campo internazionale le cose non andarono meglio. Nelle due finali di Coppa Intercontinentale (l’odierno Mondiale per Club) i Diavoli Rossi persero contro gli argentini dell’Estudiantes e, nella gara di ritorno in Inghilterra, Best fu espulso per un fallo di reazione ai danni di José Hugo Medina (che prese a calci e sputi Best per tutta la durata del match). In Coppa dei Campioni, invece, il Manchester fu eliminato in semifinale dal Milan. Dopo una stagione così deludente a discapito delle aspettative iniziali, coach Matt Busby decise di rilasciare le dimissioni. Al suo posto subentrò Wilf McGuinness.

Nella stagione 1969-70 Best mise a segno 23 reti, di cui 6 in un’unica partita, la vittoria per 8 a 2 contro il Northampton Town in FA CUP. Nel dicembre 1970 Busby tornò alla guida del Club, ma nonostante ciò i Red Devils arrivarono solo a metà classifica in Premier League. Gli atteggiamenti e i comportamenti di Best fuori e dentro il campo iniziarono a diventare problematici. Fu infatti multato dalla Federazione Sportiva inglese per aver ricevuto tre cartellini gialli per cattiva condotta, mentre il Manchester United lo sospese per due settimane per aver perso il treno in occasione della trasferta di Londra contro il Chelsea. La causa del ritardo ai binari? Un weekend trascorso con l’attrice Sinéad Cusack.

Best in azione contro il Northampton
Best in azione contro il Northampton


La nuova dimensione dello United ormai era quella di una squadra poco ambiziosa. Anche sotto l’egida dell’allenatore Frank O’ Farrell, infatti, i Diavoli Rossi ottennero un misero ottavo posto in Campionato. Best alternava grandi prestazioni a gesti fuori controllo. L’attaccante nordirlandese siglò due triplette contro West Ham e Southampton, nonché una rete contro lo Sheffield United (dopo aver scartato ben quattro difensori), ma ricevette anche un’espulsione contro il Chelsea, divenendo addirittura oggetto di minacce di morte. A gennaio si rifiutò di prendere parte agli allenamenti per una settimana, preferendo trascorrere quel periodo in dolce compagnia con Carolyn Moore, nientemeno che Miss Gran Bretagna in carica. Nonostante un carattere a dir poco estroverso e poco incline alle regole, Best realizzò 27 reti in 54 partite, divenendo il miglior marcatore della propria squadra per la sesta stagione consecutiva.

Il lento, ma inesorabile declino di uno dei più grandi talenti del calcio mondiale ormai era inarrestabile. Nella stagione 1972-73 Best annunciò il suo ritiro, ma nonostante questo continuò a giocare. Il Manchester però continuò a deludere su tutti i fronti e il nostro eroe iniziò a sprofondare con esso. A dicembre scomparve improvvisamente dai radar, rendendosi irrintracciabile da chiunque per andare a festeggiare tra i nightclub di Londra. Sospeso nuovamente dal Club, Best annunciò per la seconda volta al nuovo allenatore Tommy Docherty di abbandonare l’attività agonistica, ma, come fece in precedenza, tornò sui suoi passi e riprese ad allenarsi il 27 aprile.

Il 1° gennaio 1974 ebbe luogo l’ultima partita ufficiale di George Best, per la precisione a Londra nello stadio del Queens Park Rangers. Tre giorni dopo non si presentò agli allenamenti e Docherty lo mise fuori rosa. A fine stagione il Manchester United retrocedette in Second Division, la Serie B inglese.

A soli 28 anni Best si ritrovò senza una squadra. Tuttavia, decise di non appendere gli scarpini al chiodo e cominciò un lungo periodo in cui girovagò in numerose squadre sempre con contratti di breve durata, circumnavigando il globo terrestre. La prima tappa fu il Sudafrica, con il Jewish Guild, dove partecipò a soli 5 match e pochissimi allenamenti. Nel novembre 1975 torna in Inghilterra con la maglia dello Stockport County, appartenente alla quarta serie inglese (la nostra ex C2), dove disputò la miseria di tre gare, mentre tra il dicembre dello stesso anno e il gennaio 1976 si trasferì in Irlanda al Cork City. Anche in questa circostanza le sue performance furono tutt’altro che entusiasmanti: tre partite senza goal né assist vincenti.

Nella stagione 1976-77 pare tornare un po’ di luce. Seppur lontano dalle prestazioni con il Manchester United, Best riuscì a giocare discretamente nel Fulham (Londra), anche grazie alla presenza dell’ex capitano dell’Inghilterra Bobby Moore. La stagione, tuttavia, terminò senza trofei.

Successivamente Best si trasferì negli Stati Uniti, dove il relativo anonimato e la poca pressione gli permisero di tornare a giocare su alti livelli. La scelta finale fu quella dei Los Angeles Aztecs, concludendo la prima stagione americana con 15 reti in 24 partite. Nel 1977 mise a segno 11 reti, grazie alle quali gli Aztecs vennero trascinati fino alle semifinali. Nonostante i traguardi raggiunti, il pubblico non era molto caldo ed appassionato. Nel 1978 Best decise così di approdare ai Fort Lauderdale Strikers, sulla East Coast, dove ebbe la possibilità di esibirsi di fronte ad un pubblico molto più numeroso.

Il carattere ribelle di Best si fece notare anche all’estero. In occasione della sconfitta per 3 a 0 rimediata contro i New York Cosmos, a fine partita litigò con l’allenatore e i suoi compagni di squadra, mettendo in forte dubbio la loro voglia di vincere.

Best decise così di tornare nel Regno Unito, firmando un contratto con gli scozzesi dell’Hibernian. Ma le cose precipitarono. Mentre i suoi compagni lottavano in campo per non retrocedere, Best si fece trovare ubriaco in compagnia di alcuni membri della Nazionale francese di Rugby, giunta ad Edimburgo per giocare contro la Scozia. Fu licenziato in tronco. Nonostante la riassunzione dopo una settimana, l’Hibernian retrocedette.

Le ultime e fugaci tappe di Best furono di nuovo l’America (San Jose Earthquakes), Hong Kong (per giocare come ospite d’onore in due squadre locali, il Sea Bee e gli Hong Kong Rangers), ancora Inghilterra (in terza divisione con il Bournemouth, rimanendovi fino a fine stagione) ed infine Australia (Brisbane Lions, giocando altresì come ospite per Osborne Park Galeb, Nuneaton Burough e Tobermore United).

Per quanto riguarda la Nazionale nordirlandese, Best realizzò 9 reti in 37 presenze, senza mai disputare un Mondiale. Nel 1965 l’obiettivo fu molto vicino, ma l’1 a 1 contro l’Albania consentì alla Svizzera di strappare il pass per la qualificazione proprio all’ultima giornata del girone. Una situazione analoga accadde anche nel 1970, quando l’Unione Sovietica (la Russia per intenderci) ebbe la meglio. Proprio con la maglia della sua Nazionale, Best fu protagonista di uno degli episodi più strani e famosi della sua carriera: in occasione della gara contro l’Inghilterra, mentre il portiere avversario Gordon Banks si apprestava a rinviare, Best riuscì ad infilare il piede e a far impennare il pallone sopra le loro nuche. La sfera si diresse così verso la porta sguarnita e, una volta superato Banks con uno scatto fulmineo, calciò la palla in rete, ma il goal fu annullato dall’arbitro Alistair Mackenzie. Nonostante i problemi di alcolismo e il progressivo declino della sua carriera, Best continuò ad essere convocato regolarmente in Nazionale per tutto il corso degli anni ’70.

George Best con la maglia della Nazionale nel match contro il Galles
George Best con la maglia della Nazionale nel match contro il Galles


Quando passi una vita a spingere sull’acceleratore, prima o poi il conto arriva. L’alcool rappresentò il problema di salute principale. Nel 1984, ad esempio, Best scontò una pena di 4 mesi per aver guidato ubriaco e per resistenza a pubblico ufficiale. Nel 2000, invece, fu ricoverato d’urgenza per gravi danni al fegato, mentre due anni più tardi subì un trapianto al suddetto organo.

Il 2 ottobre 2005 venne nuovamente ricoverato in terapia intensiva in una clinica privata londinese per un’infezione ai polmoni. Le sue condizioni si aggravarono. Il 20 novembre, il tabloid inglese News of the World pubblicò su sua esplicita richiesta una foto che lo ritraeva nel suo letto d’ospedale, con tanto di dichiarazione finale: “Non morite come me”.

La straziante agonia durante il ricovero in ospedale
La straziante agonia durante il ricovero in ospedale


Il decesso avvenne il 25 novembre 2005 al Cromwell Hospital di Londra a causa di un’infezione epatica. I funerali si svolsero il 2 dicembre dello stesso anno a Belfast. Tra i presenti Alex Ferguson (storico ex allenatore del Manchester United) e Bobby Charlton (ex compagno di squadra e grande attaccante ai tempi dello United), nonché numerosi altri ex compagni.

Concludiamo questo ritratto con la frase forse più celebre di George Best:

“Ho speso molti soldi per alcool, donne e macchine veloci. Il resto l’ho sperperato”.

Steve Jobs: la rivoluzione dell’informatica

Il 5 ottobre 2011 scomparve Steve Jobs, noto fondatore della Apple Inc., nonché inventore del mouse, delle icone, dell’iPhone, dell’iPod e dell’iPad. Un imprenditore visionario che ha saputo ispirare il genio creativo del regista inglese Danny Boyle. Nasce così Steve Jobs – Il film, fresco d’uscita nelle sale cinematografiche italiane grazie alla Universal Pictures. Un’opera biografica con un cast d’eccezione, in cui spicca Michael Fassbender nei panni del compianto informatico statunitense.
 

 
Siamo nel 1984 e il conto alla rovescia per il lancio del primo Macintosh è partito. Quattro anni più tardi toccherà al NeXT, mentre nel 1998 sarà la volta del iMac. Costantemente accompagnato dalla fedelissima Joanna Hoffman (Kate Winslet), Steve Jobs (Michael Fassbender) dovrà affrontare gli imprevisti dell’ultimo momento, i classici ed immancabili contrattempi che puntualmente fanno la loro comparsa sotto le sembianze di alcuni personaggi: Lisa, la figlia diciannovenne (Perla Haney-Jardine), Chrisann Brennan, madre di Lisa (Katherine Waterston), Steve Wozniak, il partner da sempre collaboratore fin dagli inizi di Los Altos (Seth Rogen), John Sculley, amministratore delegato della Apple (Jeff Daniels) ed Andy Hertzfeld, l’ingegnere del software (Michael Stuhlbarg).
 
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Il film di Danny Boyle (di cui ricordiamo Trainspotting, The Millionaire e 127 ore) è dotato di un’ottima ed intuitiva idea grafica. D’altra parte non poteva essere altrimenti, dato che stiamo parlando di un inventore informatico che ha fatto dell’anomalia il suo credo principale. Ispirato alla biografia di Walter Isaacson, Steve Jobs – Il film è altresì basato sul punto di vista del drammaturgo Aaron Sorkin, il quale, lungi dal raccontare la classica storia a tutti già nota del successo professionale affiancato dagli insuccessi nel campo privato, mischia le carte in tavola, mettendo in primo piano il successo umano ottenuto attraverso numerose fatiche e inanellando diversi momenti di decadenza personale, rappresentata da sogni andati in frantumi e addirittura da umiliazioni pubbliche. Tutto ciò non deve farci ingannare. Steve Jobs è un uomo caparbio, arrogante e anticonformista. Egli è altresì perfettamente consapevole dei suoi limiti e dei lati deboli del suo carattere, ma altrettanto saldo nei suoi difetti. Tuttavia, proprio grazie a queste qualità e a questi lati negativi della sua personalità, egli riuscì a creare prodotti imperituri e rivoluzionari. È proprio in questo contesto che Jobs viene dipinto come un leader a cui non interessa il gradimento della folla. Per lui ciò che conta è lasciare un segno indelebile nella storia. In fin dei conti il popolo, col passare del tempo, capirà, e Lisa, in rappresentanza della critica del volgo, farà lo stesso.
 
La pellicola è completamente ambientata dietro le quinte. Attraverso le lenti degli occhiali del protagonista Michael Fassbender, il pubblico prenderà visione di un artista le cui doti personali hanno fatto la differenza nel mondo dell’informatica. Steve Jobs era un mix di tecnica e capacità interpretativa, una sorta di direttore d’orchestra in grado di far suonare ogni singolo strumento in perfetta armonia con la propria concezione dell’arte.

 

Approfondimenti e curiosità
 

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Steve Jobs (24/02/1955 – 5/10/2011)

 
Steven Paul Jobs nacque a San Francisco il 24 febbraio del 1955. Egli fondò la Apple Inc. e la società NeXT Computer. Fu inoltre amministratore delegato di Pixar Animation Studios (prima dell’acquisto da parte della Walt Disney Company). Una delle sue invenzioni più importanti e rivoluzionarie fu l’”Apple Lisa”, il primo Pc dotato di mouse. Jobs fu uno dei primi informatici ad intuire le diverse funzionalità e potenzialità del mouse e dell’interfaccia a icone presenti sui Xerox Star arrivando a realizzare il Macintosh.
 
Il 2003 segna l’inizio della parabola discendente della salute di Steve Jobs. A causa di una rara forma di tumore maligno al pancreas da poco riscontrata, egli sviluppò il diabete di tipo 1, lasciando temporaneamente il posto di amministratore delegato di Apple a Tim Cook per circa due mesi.
 
Nell’aprile del 2009 Jobs subì un trapianto di fegato nel Tennessee.
 
Il 17 gennaio 2011 Apple annunciò che Jobs aveva richiesto un nuovo congedo medico.
 
Il 5 ottobre dello stesso anno, a soli 56 anni, Jobs morì a causa di una recrudescenza del carcinoma con conseguente arresto del sistema respiratorio.
 
Il 12 febbraio 2012, in occasione della cerimonia di consegna dei Grammy Awards, la National Academy of Recording Arts and Sciences insignì Steve Jobs con un’onorificenza ufficiale postuma per aver fortemente contribuito alla creazione di prodotti e tecnologie che hanno saputo trasformare le modalità di ascoltare la musica, guardare la televisione e i film e leggere i libri.

Il grande regista Federico Fellini

Federico Fellini, uno dei più importanti e celebri registi dell’intera storia del cinema. Durante la sua gloriosa carriera vanta 4 premi Oscar come miglior film straniero e in virtù della sua attività ricevette inoltre l’Oscar alla carriera nel 1993. Egli ha altresì ottenuto per due volte il Festival di Mosca, nel 1963 e nel 1987, nonché la Palma d’oro al Festival di Cannes nel 1960 e il Leone d’oro alla carriera alla Mostra del Cinema di Venezia nel 1985. Nei suoi capolavori, Fellini ha sviluppato e tratteggiato un cospicuo numero di personaggi memorabili, immergendoli nella satira, ma anche nella malinconia di uno stile onirico e visionario. Ripercorriamo insieme le tappe fondamentali della sua vita e della sua filmografia.
 
Federico Fellini nasce a Rimini il 20 gennaio 1920 (avrebbe compiuto 96 anni) da una famiglia modesta. Fin da ragazzino mostrò un’innata passione per il cinema.
 
Tra il 1941 e il 1942 Fellini fece la conoscenza di Tullio Pinelli, uno scrittore teatrale. Tra i due scocca subito una forte intesa professionale. Le idee e gli schemi del primo andavano così ad inserirsi nella struttura di testo elaborata dal secondo. Le prime esperienze a livello scenografico cominciarono così. I grandi successi di Aldo Fabrizi, come Avanti c’è posto del 1942 e Campo de’ fiori di Mario Bonnard, portarono la loro firma. Nel 1945, invece, Fellini incontrò Roberto Rossellini, collaborando alle sceneggiature di Roma città aperta e Paisà, ritenute le prime opere surrealiste italiane. In quest’ultima, Fellini pare che abbia girato (in assenza di Rossellini) alcune scene, tra cui quella ambientata sul Po. La sua carriera da regista ebbe inizio proprio con queste modalità.
 
Nel 1950 Fellini fece il suo debutto ufficiale dietro la macchina da presa con Luci del varietà, seppur co-diretto con Alberto Lattuada. Il tema dell’opera è incentrato sul mondo dell’avanspettacolo e la sua decadenza, con un tono ironico e disteso a fungere da cornice contestuale. Il film ricevette giudizi piuttosto positivi per quanto riguarda la critica, ma non altrettanto per quanto concerne il pubblico.
 
Il rapporto professionale tra Fellini e il compositore Nino Rota contribuì fortemente alla creazione de Lo sceicco bianco e di 8 e mezzo. La prima pellicola venne alla luce nel 1952, segnando il debutto da regista in solitario, con la presenza dell’indimenticabile Alberto Sordi tra gli interpreti. Attraverso la collaborazione con Ennio Flaiano (coautore della sceneggiatura), Fellini inaugura un nuovo modo di fare cinema: estro, umorismo, realismo magico e onirico si fondono insieme in unico elemento. Tuttavia, il film non fu all’altezza delle aspettative e gli incassi si rivelarono un totale insuccesso.
 
Per Fellini è giunto il momento di dimostrare il suo reale potenziale. Presentato alla Mostra del cinema di Venezia il 26 agosto del 1953, ecco I vitelloni. Il film si aggiudicò il Leone d’argento e la fama del regista romagnolo si espanse così tanto da superare i confini nazionali. Infatti, in Argentina, Francia, Stati Uniti ed Inghilterra l’opera riscosse un enorme successo.
 

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Federico Fellini – I vitelloni

 
I vitelloni è caratterizzato da un uso smodato di episodi e ricordi dell’adolescenza di Fellini (all’epoca poco più che trentenne) densi di personaggi destinati a rimanere scolpiti nella memoria. Per la prima volta nella sua filmografia, il regista riminese sviluppa la trama tramite lunghi episodi, una caratteristica che diverrà uno dei tratti peculiari nelle pellicole successive. Nonostante il carattere autobiografico, l’ambientazione de I vitelloni si discosta dalla realtà, contestualizzandosi in una città fittizia e miscelando fantasia e ricordi.
 
Il successo internazionale giunge con La strada, del 1954.
 
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Federico Fellini – La strada

 
Il film, incentrato sul mondo del circo e degli zingari, spicca per i toni poetici e narra del dolce, ma tormentato rapporto tra Gelsomina (Giulietta Masina) e Zampanò (Anthony Quinn), due stralunati e bizzarri artisti di strada che vagabondano per l’Italia del dopoguerra. La presentazione dell’opera avviene in anteprima assoluta il 6 settembre 1954 a Venezia. Accolto tiepidamente nel nostro Paese, la pellicola all’estero ottenne il premio Oscar come miglior film straniero (premio instituito per la prima volta in quell’edizione).
 
Dopo il flop de Il bidone del 1955, arriva il secondo Oscar grazie a Le notti di Cabiria, con Giulietta Masina di nuovo protagonista.
 
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Federico Fellini – Le notti di Cabiria

 
L’opera rappresenta la degna conclusione della trilogia ambientata nel mondo degli umili e degli emarginati.
 
L’opera forse più famosa di Federico Fellini è La dolce vita, del 1960.
 
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Federico Fellini – La dolce vita

 
Essa, fin da subito, suscitò polemiche e sconcerto, sia per alcune scene giudicate troppo esplicitamente erotiche sia per la descrizione di un certo decadimento morale, insito, secondo il regista, nel benessere economico ormai raggiunto dalla società italiana. Protagonisti indiscussi dell’opera gli immensi Marcello Mastroianni e l’attrice svedese Anita Ekberg. La scena del bagno nella Fontana di Trevi rimarrà per sempre nella memoria di tutti noi.
 
La consacrazione definitiva per Fellini arrivò con 8 e mezzo del 1963, con Guido Anselmi protagonista.
 
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Federico Fellini – Otto e mezzo

 
Il film parla di un regista che voleva girare una pellicola, ma non si ricordava più quale fosse (l’idea da cui l’opera prende vita è proprio questa). Il titolo trae origine dal seguente motivo: 8 e mezzo veniva cronologicamente parlando dopo 6 film interamente diretti da Fellini, più 3 “mezzi” film, costituiti dalla somma “ideale” di 3 opere co-dirette con altri registi (Luci del varietà, l’episodio Agenzia Matrimoniale ne L’amore in città e quello intitolato Le tentazioni del dottor Antonio in Boccaccio ’70, in cui viene adottato per la prima volta il colore). L’opera fu premiata con un altro premio Oscar ed è tutt’ora ritenuto uno dei più grandi film della storia del cinema.
 
Nel 1973 arriva il celebre Amarcord, incentrato sul tema della memoria (il titolo significa “mi ricordo” in dialetto romagnolo).
 
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Federico Fellini – Amarcord

 
Attraverso l’esplorazione delle tre città dell’anima, il Circo, la Capitale e Rimini, Fellini cerca le radici della propria poetica. Anche in questo caso giunge puntuale un altro premio Oscar, il quarto in totale. I personaggi descritti nella pellicola rappresentano delle proiezioni autobiografiche del regista. Titta, ad esempio, potrebbe costituire l’adolescenza di Fellini. Nonostante ciò, il regista riminese dichiarò in più circostanze che ogni cosa o personaggio inscenato era semplicemente il frutto della sua immaginazione.
 
Il 20 gennaio Federico Fellini avrebbe compiuto 96 anni. Tanti auguri, non ti scorderemo mai.

 

L’omosessualità ai giorni nostri

Proviamo a chiudere gli occhi per un istante ed immaginare una società priva di pregiudizi e preconcetti morali. Sarebbe un autentico paradiso terrestre, in cui ognuno è libero di esprimere il proprio pensiero senza il timore d’incappare in assurdi giudizi, offese o accuse gratuite. Purtroppo però, una volta riaperti gli occhi, ecco di nuovo l’anacronistica e retrograda società civile odierna, densa d’ipocrisia, falsità, buonismo e prevaricazione. In un mondo come quello attuale una delle sfere messe maggiormente a repentaglio è sicuramente quella sessuale. È incredibile che ancora oggi, nel 2016, ci siano persone che intendono l’omosessualità come uno stato d’inferiorità o, in taluni casi, persino come una malattia da curare.

 

Riavvolgendo il nastro della storia, pongo alla vostra attenzione alcuni celebri personaggi che hanno saputo scrivere pagine indelebili nell’ambito della politica, della filosofia, dell’arte, della letteratura o della musica: Alessandro Magno, Giulio Cesare, Socrate, Leonardo da Vinci, Oscar Wilde e Freddy Mercury. Per chi non lo sapesse, ognuno di loro era omosessuale. Sono tutti personaggi dotati di un talento immenso, ma chissà perché nel momento in cui si viene a sapere della loro identità sessuale qualcosa viene a mancare. Per carità, rimangono delle grandi figure, ma il loro apprezzamento da parte del volgo moderno diminuisce drasticamente. Immaginate una persona che, riferendosi ad esempio al grande Freddy Mercury, leader della storica rock band dei Queen, pronunci queste parole: “ Si, bravo cantante, grande carisma, però era gay…”. E quindi? Dov’è il problema? Come se essere gay andasse ad inficiare sulla personalità o sulle capacità proprie di una persona.

 

L’Italia, come sempre, non può mancare all’appello. Il nostro Paese vanta una nutrita schiera di bigotti e benpensanti. D’altra parte c’è il Vaticano. Come si può pensare ad un rapporto d’amore se non quello tra un uomo ed una donna. Tutto il resto è contro natura. Potremmo controbattere questa tesi affermando che, statistiche alla mano, circa il 70% degli appartenenti al clero di Roma è stato accusato di atti di pedofilia o omosessuali, ma questa è un’altra storia.

 

Il concetto chiave su cui occorre porre l’accento è che l’omosessualità non deve essere discriminata. Essa, invece, va intesa semplicemente come una condizione assolutamente privata (e perciò libera da giudizi) di chi prova piacere nell’amare una persona dello stesso sesso. Ci sono tanti modi di dimostrare i propri sentimenti e l’affetto nei confronti degli altri e questo è uno di quelli.

 

 

Tuttavia c’è un barlume di speranza. Nella realtà occidentale gli omosessuali, negli ultimi anni, hanno compiuto notevoli progressi, affermando con orgoglio e dignità la propria normalità e i propri diritti. Un esempio su tutti: la cattolica Spagna.

 

Purtroppo in Italia, così come in alcuni Stati dell’Asia, la situazione è ancora molto bloccata. L’ufficializzazione legale delle unioni di fatto al momento resta un’utopia. Quando si accetterà il principio laico secondo il quale un omosessuale è una persona uguale alle altre e con gli stessi diritti? Nell’attesa, non ci rimane che riaprire gli occhi e goderci questa moderna, aperta e civile società italiana.

 

CAROL,il film diretto da Todd Haynes è candidato a 6 premi Oscar

Cambiamo pagina e tuffiamoci nell’oceano del cinema. Riportiamo qui di seguito un approfondimento su una pellicola da poco uscita nelle nostre sale. Essa descrive la commovente storia di una coppia di donne decise a lasciare indietro il proprio passato in nome dell’amore. Un film drammatico ambientato in America durante la Guerra Fredda ed incentrato proprio sul tema quanto mai attuale e delicato dell’omosessualità, con protagoniste assolute Cate Blanchett e Rooney Mara. Ecco a voi Carol.

 

Cate Blanchett e Rooney Mara

 

La vicenda è ambientata a New York nel 1952. Therese Belivet è una ragazza impiegata in un enorme magazzino di Manhattan. La giovane è serratamente corteggiata da Richard Semco, che ha tutte le intenzioni di sposarla, e da Dannie McElroy, che non vede l’ora di baciarla. Tuttavia, Therese è innamorata di Carol Aird, un’elegante e distinta cliente affascinata ed attratta da un trenino elettrico in vendita. Grazie ad un guanto dimenticato e all’acquisto del tanto agognato trenino, Carol e Therese si prendono la licenza di andare a prendersi insieme un caffè in un bar. Davanti alle tazzine fumanti le due donne si aprono e si confessano: Carol ha un marito (Harge) da cui vuole divorziare e una figlia che vuole tenere e crescere, mentre Therese desidera scaricare l’insistente Richard e realizzarsi economicamente e professionalmente. Decidono così d’intraprendere un viaggio verso Ovest, verso nuovi orizzonti, lasciando per sempre il rigido inverno di New York e sfidando i pregiudizi morali e le convenzioni sociali dell’epoca. Carol e Therese scopriranno l’amore e la passione, in un Paese che considerava l’omosessualità come un disturbo psichico della personalità.

 

Distribuito nelle sale cinematografiche italiane dalla Lucky Red, Carol è un melodramma diretto da Todd Haynes (Lontano dal paradiso e Io non sono qui). Il regista statunitense propone il tema dell’omosessualità filtrandolo attraverso le gesta di Cate Blanchett (attrice australiana nota per opere quali Veronica Guerin – Il prezzo del coraggio, Babel e Cenerentola) e del suo personaggio che conferisce il titolo al film, e Rooney Mara (di cui ricordiamo Millenium – Uomini che odiano le donne, Effetti collaterali e Trash), nei panni della dolce Therese.

 

Nell’atmosfera avvolgente e romantica del periodo natalizio, Carol e Therese sono costrette a condurre una vita non loro, in nome delle regole sociali e del sistema di valori vigente. Allo stesso tempo, le due donne cercano di divincolarsi dagli schemi convenzionali imposti dall’America degli anni ’50 per poter vivere serenamente la loro reale natura sessuale. Tuttavia, in un’epoca e in una società dense di giudizi morali, i sentimenti rappresentano delle armi potenzialmente pericolose da maneggiare con cura nell’ambito di una storia d’amore apparentemente impossibile da coronare liberamente.

 

La relazione sentimentale fra le due protagoniste è sviluppata su due livelli: il piano sociale, in quanto Carol appartiene all’alta borghesia, mentre Therese alla “plebe”, e il piano di genere, dato che all’uomo è permesso scegliere, mentre alla donna no. All’interno di questa cornice concettuale, ciò che prende forma è la sofferenza. Carol infatti, ritenuta inidonea ad accudire la figlia per un’assurda “clausola morale”, deve rinunciare alla sua custodia e sottoporsi all’umiliazione di una serie d’invasivi controlli medici che eliminino la sua omosessualità. Il dolore e il tormento di questa tragica situazione sono ottimamente incarnati dal volto di una superba Cate Blanchett, sotto il cui sguardo caustico si cela il desiderio di amare Therese. Sull’altra sponda, ecco sbocciare il talento di Rooney Mara. Invaghita di una donna più grande di lei, la sua Therese sfoggia egregiamente una mimica facciale ed una fisionomia in cui ogni movenza è perfettamente sotto controllo. La crisalide che contiene il suo personaggio si schiude progressivamente sotto lo sguardo blu e glaciale di Carol, svelando un mistero da tenere ben nascosto sotto la superficie del pregiudizio.

 

Cate Blanchett incarna il cuore e il motore della pellicola. Una donna coraggiosa e determinata contro un’America infettata dalla crudeltà, dal razzismo e dalla paura per tutto ciò che viene considerato “diverso”. Haynes esplora e smaschera l’orrore del sistema, ribadendo l’estetica e il romanticismo della sua filmografia del passato tramite un semplice, ma significativo gesto: la mano che Carol poggia delicatamente sulla spalla di Therese, una dichiarazione d’amore in una società fatta di apparenze e convenzionalità.

Steven Spielberg e Tom Hanks: la coppia vincente

Da Salvate il soldato Ryan a Prova a prendermi, da The Terminal fino ad arrivare al recente Il Ponte delle spie. Nell’ambito cinematografico il duo composto da Steven Spielberg e Tom Hanks rappresenta indubbiamente una collaborazione professionale vincente e ben assortita.

 

Prima di analizzare i passaggi più importanti della filmografia realizzata in tandem, introduciamo brevemente i protagonisti di questo articolo con le loro rispettive biografie.

 

Steven Spielberg

 

Il celebre regista statunitense nasce a Cincinnati (Ohio) il 18 dicembre 1946 da genitori ebrei. Ritenuto all’unanimità uno dei cineasti più influenti di sempre, Steven Allan Spielberg agli albori della carriera fu un membro dei cosiddetti “movie brats”, una corrente artistica che contribuì fortemente alla nascita della Nuova Hollywood targata anni ’70, in compagnia dei colleghi ed amici Francis Ford Coppola, Martin Scorsese, Brian De Palma e George Lucas. Spielberg vinse due premi Oscar come miglior regista per il capolavoro Schindler’s List del 1993 e per il famoso Salvate il soldato Ryan del 1998 con protagonista Tom Hanks. Sempre nel 1993 conseguì il Leone d’oro alla carriera alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, mentre nel 1987 si aggiudicò il Premio alla memoria Irving G. Thalberg. Infine, fondò, insieme a Jeffrey Katzenberg e David Geffen, la Amblin Entertainment e la DreamWorks.

 

Tom Hanks

 

Il noto attore americano Thomas Jeffrey Hanks nasce a Concord (California) il 9 luglio del 1956. La fase embrionale della sua carriera prende forma a partire dagli anni ’80 in occasione della serie tv Henry e Kip (Bosom Buddies), grazie alla quale iniziò a farsi a conoscere. Da quel momento in poi, Hanks recitò in numerosi film, riscuotendo un enorme successo sia di pubblico sia di critica. Egli può vantare 5 nomination agli Oscar, vincendone due consecutivamente come miglior attore per Philadelphia del 1994 e Forrest Gump del 1995.

 

Le pellicole

Il primo film diretto da Steven Spielberg con protagonista Tom Hanks (nelle vesti del capitano John Miller) è Salvate il soldato Ryan (1998).

 

Tom Hanks ( capitano John Miller ) in Salvate il soldato Ryan (1998)

 

La storia è incentrata sullo sbarco in Normandia del 6 giugno 1944. I primi 24 minuti dell’opera sono stati quelli più apprezzati dalla critica e dal pubblico in sala. In questa fetta di tempo il regista inscena in maniera diretta e senza fronzoli lo sbarco degli alleati sulle coste della Normandia, abbandonando l’enfatizzazione patriottica e l’esaltazione eroica dei precedenti lavori su questo tema. Salvate il soldato Ryan è stato co-prodotto da Spielberg ed Hanks e costò ben 120 milioni di dollari. Presentato fuori concorso al Festival di Venezia, la pellicola ricevette 11 nomination all’Oscar, aggiudicandosene 5: miglior regia, fotografia, montaggio, sonoro ed effetti sonori.

 

Il secondo film frutto della coppia Spielberg-Hanks fu Prova a prendermi del 2002.

 

Prova a prendermi, 2002

 

L’opera narra le vicende di Frank Abagnale Jr., un truffatore che si spacciò pilota d’aereo, medico ed avvocato pur di poter vivere. Il personaggio è interpretato da Leonardo Di Caprio, mentre il ruolo dell’agente dell’FBI Carl Hanratty viene ricoperto da Tom Hanks, un esperto in frodi bancarie che farà di tutto pur di catturare il suo antagonista. La pellicola incassò ai botteghini la bellezza di 164 milioni di dollari e l’attore Christopher Walken (nei panni del padre di Frank) ottenne la nomination per l’Oscar come miglior attore non protagonista.

 

Nel 2004, invece, è la volta di The Terminal, con l’affascinante Catherine Zeta-Jones protagonista femminile.

 

The Terminal, 2004

 

In questo caso Tom Hanks è Viktor Navorski, personaggio ispirato alla storia del rifugiato iraniano Mehran Nasseri, il quale, nel 1988, visse per un certo periodo bloccato all’interno del terminal 1 dell’aeroporto di Parigi Charles de Gaulle. Tuttavia non mancano le modifiche: Spielberg, infatti, ambienta la vicenda a New York ed Hanks Navorski diventa un cittadino dell’Europa Orientale. Presentato alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, fu girato in soli tre mesi.

 

Piccola curiosità. Nel 2009 Spielberg ed Hanks produssero la miniserie The Pacific. Basata sulle guerre del Pacifico, vede come protagonisti tre marines rimasti bloccati nel suddetto Oceano.

 

Il Ponte delle Spie

 

L’ultimo lavoro frutto della collaborazione tra Steven Spielberg e Tom Hanks è Il Ponte delle Spie, un serrato e teso spy-movie uscito ad ottobre 2015 che può vantare ben 6 candidature all’Oscar.

 

Il film è ambientato a Brooklyn nel 1957 e racconta la storia di Rudolf Abel, un pittore arrestato con l’accusa di essere una spia sovietica. Il clima ostile derivante dalla guerra fredda fra America ed Unione Sovietica non fa sconti a nessuno e l’uomo viene etichettato come un terribile nemico da condannare. Ma la democrazia esige che venga processato per ribadire i principi costituzionali americani. L’incarico della sua difesa viene affidato all’avvocato James B. Donovan, che fino a quel momento si era occupato di assicurazioni. Attirandosi lo scontento della moglie Mary, del giudice e dell’intera opinione pubblica, Donovan prende a cuore la causa. Nel frattempo però un aereo spia americano viene abbattuto dai militari sovietici e il tenente Francis Gary Powers viene fatto prigioniero in Russia. Ecco che all’orizzonte s’intravede la possibilità di effettuare uno scambio e sarà proprio Donovan, incaricato dalla CIA, a gestire la delicata trattativa di negoziazione.

 

Distribuito nelle sale cinematografiche italiane dalla 20th Century Fox, Il ponte delle spie è un film thriller in cui le premesse narrative alla Hitchcock cedono progressivamente il posto ad uno sviluppo sempre più letterario. Lo svolgimento tematico, infatti, assume un carattere leggendario e il presente risulta quanto mai oscuro (emblematica in questo senso l’immagine tombale di Berlino).

 

Tom Hanks si trova perfettamente a suo agio nei panni dell’avvocato James B. Donovan. Sotto il suo cappotto e il suo ombrello (spesso sotto una pioggia battente) egli non incarna la giustizia, egli è giusto. Un uomo che onora il suo lavoro, ma che non vuole sapere veramente se il suo assistito è colpevole o innocente. A Donovan pare incredibile che il suo cliente Rudolf Abel (interpretato dall’attore inglese Mark Rylance, noto per pellicole quali Blitz, Anonymous e The Gunman, in uscita nel 2016 con Il gigante gentile, con la regia nuovamente affidata a Steven Spielberg) si disinteressi completamente circa il suo destino. Ma questo fa parte del suo mestiere. Alla fine a lui non importa tutto ciò, l’unica cosa che conta è cercare di assolvere la propria funzione, salvare la vita di una persona, a prescindere dal tipo di uomo che bisogna difendere. È proprio in quest’ottica che Donovan non reputa Abel come una spia sovietica o una minaccia, ma semplicemente come una persona che necessita del suo aiuto e della sua difesa. Nel corso dei giorni egli lo considererà come una sorta d’amico, individuando in lui un colore ed una profondità.

 

Una delle scene più significative è quella iniziale, dove Abel è intento a dipingere il suo autoritratto tramite l’utilizzo di uno specchio. L’immagine riflessa e quella impressa sulla tela riguardano la stessa persona, ma sono comunque differenti: la prima ritrae un’oggettività superficiale, mentre la seconda è il prodotto dello scorrere del tempo e dei pensieri che si sono susseguiti nelle ore dell’operazione, lasciando la traccia del suo autore. Il valore semantico intrinseco di questa scena è riassumibile nella frase pronunciata da Donovan al tenente Powers:

Non conta quello che di te penseranno gli altri, ma quello che sai tu”.

 

Per tutti questi motivi, Il ponte delle spie è un film straordinariamente attuale. In una società in cui regnano sovrani i sospetti, le intercettazioni e le false ed affrettate identificazioni di una persona col suo credo, il suo costume o la sua provenienza, l’opera di Steven Spielberg farà riflettere non poco il pubblico presente in sala.

 

TRAILER 

La Shoah nella storia del cinema

Il giorno della memoria. L’orrore dell’Olocausto e il dramma della deportazione della popolazione ebrea da parte dei nazisti hanno caratterizzato e influenzato in maniera netta e decisiva le rappresentazioni cinematografiche a partire dallo scorso secolo. Autori, registi, storici, esperti e critici si sono cimentati nel produrre svariate pellicole sul tema della Shoah, allo scopo di far rivivere un passato che non può e non deve essere cancellato dall’oblio.

 

La persecuzione e lo sterminio degli ebrei è stato riprodotto in modalità differenti nel corso degli anni. Alcuni registi, ad esempio, hanno voluto mettere in primo piano la cruda realtà del genocidio. Su questo percorso tematico, non possono non essere citati George Stevens e Steven Spielberg rispettivamente con Il diario di Anna Frank del 1959 e Schindler’s list del 1993. Stando a tempi più recenti, invece, troviamo Il pianista di Roman Polanski del 2002, Ogni cosa è illuminata di Liev Schreiber del 2005, Il nastro bianco di Michael Haneke del 2009, La chiave di Sara di Gilles Paquet-Brenner del 2010, In Darkness di Agnieszka Holland del 2011 e Anita B. di Roberto Faenza del 2014.

 

Altri autori invece hanno posto l’accento sulla deportazione e la realtà del lager. In questo senso, uno dei più importanti lavori del passato è senza dubbio Il viaggio dei dannati di Stuart Rosemberg del 1977, nonché il grande kolossal Olocausto dell’anno successivo, targato Marvin J. Chomsky. Ovviamente non poteva mancare La vita è bella di Roberto Benigni del 1998, così come l’opera d’oltralpe Train de Vie di Radu Mihaileanu del 1999, in cui è altresì percepibile una chiara deriva ironica per sdrammatizzare l’orrore. Incanalati all’interno del medesimo contesto tematico, ecco che trovano posto anche Il Falsario – Operazione Bernhard di Stefan Ruzowitzky del 2007, il celebre e più volte riproposto in tv Il bambino con il pigiama a righe di Mark Herman del 2008 ed infine Vento di primavera del 2010 diretto da Roselyne Bosch.

 

Alcuni registi hanno voluto inscenare il lato più battagliero e patriottico della situazione, schierandosi apertamente al fianco delle persone che hanno lottato, anche a costo della propria vita, pur di rimanere nella propria dimora e nel proprio Paese nonostante l’invasione nazista. Il tema della resistenza viene sviscerato ed esplorato in Arrivederci ragazzi di Louis Malle del 1987, Rosenstrasse di Margarethe von Trotta del 2003, La rosa bianca – Sophie Scholl di Marc Rothemund del 2005 e in Defiance – I giorni del coraggio del 2008, con Daniel Craig (James Bond) tra i protagonisti e la regia di Edward Zwick.

 

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La produzione cinematografica italiana non è stata certo a guardare. La persecuzione degli ebrei e le stragi naziste avvenute nel nostro Paese sono il leitmotiv de Il giardino dei Finzi Contini di Vittorio De Sica del 1970, mentre in tempi più recenti ricordiamo Concorrenza sleale di Ettore Scola del 2001 e L’Uomo che verrà di Giorgio Diritti del 2009.

 

L’ironia utilizzata come arma contro l’orrore è il caposaldo de Il grande dittatore di Charlie Chaplin, superbo ed ilare capolavoro del 1940.

 

Il punto di vista delle vittime e degli spietati assassini che si sono macchiati di terribili omicidi viene analizzato da film quali Il maratoneta di John Schlesinger del 1976, L’ultimo metrò di Francois Truffaut del 1980 e il recente The Reader – A voce alta di Stephen Daldry del 2007.

 

La pellicola Vincitori e vinti di Stanley Kramer del 1961, invece, si fa notare per aver affrontato il tema spinoso dei processi dei criminali di guerra nazisti, mentre le opere intitolate Non dire falsa testimonianza di Krysztof Kieslowski del 1988 e Homicide di David Mamet del 1991 gettano la luce sulle tracce indelebili provocate dall’orrore dell’Olocausto.

 

Il labirinto del silenzio

 

 

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Uno degli esempi di cinema legato tematicamente al ricordo e alla rielaborazione della Shoah è il film, da poco uscito nelle sale, Il labirinto del silenzio, in cui la tragedia dell’Olocausto viene esaminata in maniera sobria ed efficace. Un film-dossier teso ed appassionante dai toni inquisitori e diretti.

 

La storia è ambientata a Francoforte (Germania) nel 1958. Johann Radmann è un giovane procuratore idealista, ambizioso e ligio al dovere. Attraverso l’incontro con un giornalista poco incline alle regole e dallo spirito combattivo, Thomas Gnielka, Johann fa la conoscenza di Simon, un artista ebreo sopravvissuto ai campi di concentramento di Auschwitz, le cui figlie gemelle sono state sottoposte ad una serie di crudeli test da parte del Dott. Josef Mengele. Simon riconosce nella figura di un insegnante di una scuola elementare uno degli aguzzini del campo di sterminio. Johann, rimasto colpito sia dalla sofferenza provata da Simon sia dalla tenacia di Thomas, decide di occuparsi del caso, ma la bocca cucita di coloro che vorrebbero dimenticare e di chi purtroppo non potrà mai affidarsi all’oblio, costringono il giovane procuratore a chiedere aiuto a Fritz Bauer, il procuratore generale, il quale gli consentirà di svolgere in piena autonomia e in totale libertà il proprio lavoro, infondendogli al contempo il coraggio di perorare la sua causa. Dopo aver ascoltato numerose testimonianze, Johann entrerà in contatto con l’orrore del passato recente della sua Germania ed avvierà il cosiddetto “secondo processo di Auschwitz”.

 

Il labirinto del silenzio è un film drammatico tedesco del 2014, distribuito nelle sale cinematografiche italiane a partire dal 14 gennaio grazie alla Good Films. Dietro la cinepresa troviamo il regista Giulio Ricciarelli, nato a Milano, ma naturalizzato tedesco, il quale, attraverso questa pellicola, fa slittare il piano visivo verso quello auditivo e il piano delle immagini verso quello verbale.

 

Il protagonista della vicenda è un biondo e baldanzoso procuratore che a distanza di 60 anni dalla liberazione dei campi di concentramento di Auschwitz e Birkenau guida la propria Nazione verso la redenzione. Il 1958 diviene così l’anno spartiacque, in cui finalmente s’inizierà per la prima volta a far luce sui crimini di guerra e sui criminali nazisti.

 

Giulio Ricciarelli costruisce un film giuridico e drammatico perfettamente corretto da un punto di vista storiografico. Tale operazione viene eseguita amalgamando personaggi fittizi (Johann Radmann) e realmente esistiti (Thomas Gnielka e Fritz Bauer, a cui il film è dedicato).

 

Ne Il labirinto del silenzio il male assume le sembianze di un essere vivente dotato di un nome, un volto, un’età anagrafica e un recapito. Il giovane procuratore protagonista dell’opera prende sulle spalle la Germania, facendosi carico del suo ingombrante e sconcertante passato. I campi di sterminio non saranno più definiti (e giustificati) come “luoghi di detenzione privata”, ma verranno chiamati col loro vero e reale nome. Tuttavia, Johann, persuaso d’indagare su un omicidio, dovrà fare i conti con l’omertà delle persone e con la falsità delle loro dichiarazioni. A 20 anni di distanza dal processo di Norimberga, 22 criminali nazisti, di cui tuttavia solo 6 saranno condannati all’ergastolo, presenzieranno dinanzi al tribunale di Francoforte, in quello che è stato ribattezzato come il “secondo processo di Auschwitz”. Tale evento segnò un vero e proprio cambiamento di rotta: la Germania per la prima volta assunse il suo passato come un dovere morale. L’opinione pubblica e la magistratura iniziarono gradualmente a prendere coscienza e a sensibilizzarsi su ciò che accadde. L’oblio dell’Olocausto fu così scongiurato.

 

In questo film i mostri del passato verranno braccati e i gerarchi e i secondini saranno messi a confronto. Il silenzio degli aguzzini e delle vittime sarà spezzato ed interrotto da una serie di domande, le quali cercheranno di farsi largo nel loro dolore. Attraverso la figura di Simon, inoltre, Il labirinto del silenzio parlerà anche dell’isolamento dei sopravvissuti e dell’integrazione in Germania e in Israele, facendo riflettere chi ha ignorato e nascosto per troppo tempo la portata dello sterminio di massa.

Il ritratto di un dittatore

Il male ha un volto. Forse è un’estremizzazione, ma Kim Jong-un, il dittatore nordcoreano, rappresenta senza dubbio una seria minaccia per la pace nel mondo. Gli orrori, le atrocità, la violenza gratuita e i campi di prigionia allestiti sono il biglietto da visita del capo di stato più giovane in assoluto. Ripercorriamo insieme le tappe fondamentali della sua carriera politica.

 

Kim Jong-un ha da poco compiuto 33 anni e, oltre ad essere il leader supremo della Repubblica Popolare Democratica di Corea (meglio conosciuta come Corea del Nord) dal 18 dicembre 2011 (appena un giorno dopo la morte del padre), è altresì Segretario del Partito del Lavoro di Corea, Presidente della Commissione di Difesa Nazionale, Presidente della Commissione militare centrale e Comandante Supremo dell’Armata Popolare Coreana.

 

Appassionato di pallacanestro e amante del lusso e dello sfarzo, Jong-un possiede due lauree, una in fisica presso l’Università Kim Il-sung e l’altra presso l’Accademia Militare Kim Il-sung. Il 27 settembre 2010, alla vigilia della Conferenza nazionale del Partito del lavoro, è stato eletto Generale dell’Esercito insieme alla zia Kim Kyong-hui, mentre il giorno successivo fu nominato membro del Comitato centrale del Partito del lavoro, nonché vicepresidente della sua Commissione militare.

 

Due giorni dopo la scomparsa del padre, il 19 dicembre 2011 la Tv di stato della Corea del Nord lo incensa come il Grande Successore, esortando l’intero Paese a riunirsi attorno al nuovo leader. L’11 aprile del 2012 la 4° conferenza generale del Partito del Lavoro di Corea lo elegge Primo Segretario del partito.

 

Tre mesi più tardi, Jong-un viene nominato Capo delle forze armate nordcoreane, un’elezione che quasi coincise con l’annuncio del suo matrimonio con la ballerina e cantante locale Ri Sol-ju.

 

I primi attriti con gli Stati Uniti vengono a crearsi il 7 marzo 2013 quando Jong-un minaccia gli USA e gli acerrimi rivali della Corea del Sud con un attacco nucleare. Dopo poco più di tre settimane, egli annuncerà a tutto il mondo che la Corea del Nord è pronta ad adottare una nuova strategia di sviluppo economico basata sulla produzione di armamenti nucleari.

 

Uno degli episodi più sconcertanti che ha caratterizzato l’inizio della sua carriera politica è datato agosto 2013, quando condannò a morte lo zio Jang Song Thaek tacciato di essere un uomo corrotto e un depravato sessuale.

 

Anche il 30 aprile 2015 è una data che non passa certo inosservata. In quel giorno, infatti, Jong-un pare abbia giustiziato il comandante della Difesa Hyon Yong-chol, capo delle forze armate popolari. La sua colpa sarebbe stata quella di addormentarsi durante un evento militare presieduto proprio da Jong-un e di non avere seguito correttamente le sue direttive. L’esecuzione è stata eseguita nella capitale Pyongyang (città natale di Jong-un) con l’ausilio di un intero plotone d’esecuzione munito di armi pesanti, tra cui spicca persino un cannone antiaereo. Secondo l’agenzia informativa Yonhap , filtrando le notizie provenienti dal National intelligence service, a partire dal gennaio 2015 sono stati barbaramente uccisi altri 15 funzionari di stato.

 

Le follie di Kim Jong-un

 

North Korean leader Kim Jong Un attends the Supreme People's Assembly in Pyongyang, in this still image taken from video released by Kyodo April 9, 2014. North Korea on Wednesday announced its leader Kim was re-elected as First Chairman of the ruling National Defence Commission at the meeting of its assembly. Mandatory credit   REUTERS/Kyodo (NORTH KOREA - Tags: POLITICS PROFILE TPX IMAGES OF THE DAY) ATTENTION EDITORS - THIS IMAGE WAS PROVIDED BY A THIRD PARTY. FOR EDITORIAL USE ONLY. NOT FOR SALE FOR MARKETING OR ADVERTISING CAMPAIGNS. THIS PICTURE IS DISTRIBUTED EXACTLY AS RECEIVED BY REUTERS, AS A SERVICE TO CLIENTS. MANDATORY CREDIT. JAPAN OUT. NO COMMERCIAL OR EDITORIAL SALES IN JAPAN - RTR3KKDI
Kim Jong Un

 

Nella notte tra il 5 e il 6 gennaio, Kim Jong-un e i suoi più stretti collaboratori, in linea con la recente linea strategica economica intrapresa, hanno eseguito un test sulla bomba a idrogeno. Attraverso l’ONU, tutte le Nazioni hanno espresso la loro ferma condanna a questo esperimento nucleare, teso ad incutere timore fra le popolazioni mondiali. Una sorta di minaccia terroristica, nonché un gesto deprecabile foriero di cattive intenzioni, verso il quale Russia, Stati Uniti e Corea del Sud, in primis, si sono immediatamente ed apertamente schierati contro il dittatore di Pyongyang.

 

Il test sulla bomba H è solo una delle tante follie messe in atto da Kim Jong-un.

 

La BBC, ad esempio, ha recentemente annunciato che le campagne pubblicitarie nordcoreane approvino le acconciature “ufficiali” e ridicolizzino le persone con i capelli lunghi. Questo perché una folta chioma pare  possa danneggiare l’intelligenza e consumare l’energia del cervello. Ma non è tutto. Sembra infatti che in Corea del Nord ci sia il divieto, ovviamente imposto da Jong-un, di portare capi d’abbigliamento con diciture in inglese per gli uomini, mentre per le donne d’indossare i pantaloni. È altresì obbligatorio per legge indossare il distintivo che riporta le immagini dell’ex capo di stato Kim Il Sung e del figlio, Jong-un.

 

Se queste due regole, per quanto assurde e bizzarre, vi sono parse quasi divertenti, quello che segue lo sarà sicuramente di meno. La follia omicida e lo spirito di vendetta di Kim Jong-un trovano la loro essenza in una serie di atti brutali ed efferati. L’attendibilità dubbiosa delle fonti e l’impossibilità di verificare la veridicità delle notizie ha permesso talvolta che circolassero notizie false, smentite successivamente dai fatti. Basti pensare, a titolo esemplificativo, alla condanna a morte dell’ex fidanzata del dittatore insieme al suo gruppo musicale, con l’accusa di aver girato un video pornografico, fotografata successivamente viva e vegeta settimane dopo a fianco al dittatore.

 

I crimini di cui pare si sia macchiato Kim Jong-un non sono quantificabili. Nell’aprile 2014, infatti, un quotidiano della Corea del Sud, Chosun Ilbo, ha sparso la voce che Jong-un ha bruciato vivo con un lanciafiamme un alto funzionario del reparto militare di Jang. La notizia è praticamente impossibile da verificare, ma non è la prima volta che un tale metodo d’esecuzione viene segnalato. Un mese prima, infatti, un manipolo di giornalisti appartenenti alla rivista Rimjingang, sotto copertura in Corea del Nord, ha riportato la notizia secondo cui tutti i funzionari rimasti fedeli a Jang sarebbero stati uccisi da una granata e i resti dei loro corpi inceneriti da un lanciafiamme. Rimanendo in questa truce prospettiva, il Chosun Ilbo ha altresì riferito che nel 2012 un altro funzionario militare, colto in stato d’ebbrezza durante il periodo di lutto per Kim Jong-il (padre di Jong-un), sarebbe stato barbaramente ucciso con una cannonata, a seguito dell’ordine imposto dal dittatore: ”Non deve rimanere nessuna traccia di lui, capelli compresi”.

 

Al di là dell’attendibilità e della veridicità delle fonti, ciò che crea sgomento è il fatto che nel 2016 possa ancora esistere un capo di stato in grado di commettere simili atrocità e barbarie senza nessun tipo di provvedimento nei suoi confronti.

 

The Interview

 

Dave Skylark (James Franco) and Kim Jong-un (Randall Park) in Columbia Pictures' in the movieTHE INTERVIEW.  (amusements,movies)
Dave Skylark (James Franco) e Kim Jong-un (Randall Park) in THE INTERVIEW

 

La particolarità della figura di Kim Jong-un è stata fonte d’ispirazione persino a livello cinematografico. Nel 2014, infatti, la casa di produzione statunitense della Sony Columbia Pictures diede vita al film The Interview, con la coppia composta dal canadese Evan Goldberg e dall’attore americano Seth Rogen alla regia, e come protagonisti James Franco e lo stesso Seth Rogen.

 

Ecco la trama: Dave Skylark (James Franco) è un egocentrico e bizzarro conduttore televisivo del famoso talk show dai toni fortemente trash “Skylark Tonight”. Dave è noto per le sue ficcanti interviste alle celebrità, ma il suo enorme successo è dovuto quasi esclusivamente alla mente ingegnosa del suo produttore (nonché migliore amico) Aaron Rapoport (Seth Rogen). È proprio quest’ultimo che rende possibile il sogno di una vita, procurando a Dave un’intervista con Kim Jong-un, il dittatore della Corea del Nord. In procinto di partire, i due vengono avvicinati dalla CIA che chiede loro di assassinare Jong-un. Dave e Aaron accettano e diverranno gli uomini meno qualificati in assoluto per uccidere (o quantomeno intervistare) il dittatore più spietato del mondo.

 

La pellicola suscitò non poche polemiche tra Stati Uniti e Corea del Nord, con molti attacchi informatici effettuati da una serie di hacker nordcoreani. L’attore che interpreta il ruolo di Kim Jong-un è Randall Park, nato a Los Angeles (California), ma di chiare origini coreane.