Il Cenacolo di Leonardo da Vinci

Il dipinto, che copre una parete del refettorio del Convento di Santa Maria delle Grazie in Milano, si riferisce al racconto dell’ultima cena, consumata da Gesù prima della sua morte, in base al Vangelo di Giovanni: Gesù annuncia che verrà traditoda uno dei suoi amici. Leonardo modifica lo schema iconografico tradizionale per esprimere il significato più intimo e profondo dell’episodio.

In una sala semplice e armoniosa, in primo piano appare la lunga tavola della cena. Alcuni elementi prospettici, come il soffitto a cassettoni, gli arazzi alle pareti e le tre finestre del fondo, concorrono a definire l’ambiente.


Il Cenacolo di Leonardo da Vinci


Al centro è la figura di Cristo, dalla forma piramidale per le braccia distese. Ha il capo reclinato, gli occhi socchiusi e la bocca appena discostata, poiché ha appena finito di pronunciare la frase più triste che sia uscita dalle sue labbra: «In verità vi dico: uno di voi mi tradirà». Con il suo atteggiamento di serenità intima e profonda, Gesù costituisce l’asse centrale della scena, non solo sotto l’aspetto stilistico e prospettico, ma anche sotto il profilo simbolico e spirituale. Ogni particolare è esposto con grande accuratezza e le pietanze e le stoviglie presenti sulla tavola concorrono a bilanciare la composizione.

Attorno a Gesù gli apostoli sono disposti in quattro gruppi di tre, simmetricamente equilibrati. Il risultato complessivo di questa collocazione è quello di un rapido rimbalzare di emozioni e di scelte, simile a successive ondate che si propagano a partire da Cristo, come un’eco delle sue parole che si diffonde generando i più diversi stati d’animo e le più diverse reazioni. La psicologia dei singoli personaggi è approfondita, senza compromettere mai la percezione unitaria dell’insieme.


Ciò che colpisce particolarmente nel celebre affresco è un dettaglio di grande originalità. Infatti nelle scene dell’ultima cena dipinte da precedenti pittori, era Giuda ad essere raffigurato da solo, di solito al di qua del tavolo. Leonardo invece presenta il traditore insieme agli altri apostoli e sottolinea la solitudine di Gesù, isolandone la figura. Il Messia dona se stesso in un estremo atto di amore, eppure i suoi discepoli non lo comprendono e, in sostanza, lo abbandonano.

È il dramma nel quale ogni cristiano è coinvolto nella sua vita.

Il Partenone di Atene

Il Partenone di Atene è uno dei templi più importanti dell’antichità, che, attraverso varie fasi, è giunto fino a noi. Fu inaugurato nell’anno 432 prima della nascita di Cristo. Con la sua costruzione, il centro religioso diventa anche il centro della città. Nelle sue linee architettoniche manifesta solennità e limpida chiarezza: infatti, nella coscienza di quell’antico popolo prima del cristianesimo, esso era destinato a diventare la casa della divinità.

La dea a cui era dedicato è Atena, la dea vergine (parthènos, in greco, significa vergine), che nella religione romana sarà chiamata Minerva. È la dea della sapienza, che sconfigge la barbarie ed effonde la sua benevolenza. Perciò anche la decorazione dello scultore Fidia, oggi per la gran parte custodita al British Museum di Londra, mette in risalto la vittoria della luce sulle tenebre e la partecipazione del popolo all’incontro con l’essere divino.


Il Partenone di Atene


Il Partenone, come gli altri templi pagani, era diviso in due parti: un atrio di ingresso, circondato dal solenne colonnato, e una cella all’interno, nella quale si custodiva l’immagine della dea illuminata da due grandi finestre.

L’uomo cerca Dio. Viene attratto e affascinato dall’Essere Assoluto e, nello stesso momento, avverte tutta la distanza che lo separa da lui. Nella mentalità dei credenti, a qualsiasi tradizione culturale essi appartengano, anche Dio cerca l’uomo e lo accompagna nel suo cammino, manifestandosi a lui secondo tempi e modalità diverse. L’incontro tra l’uomo e Dio e il rapporto che ne deriva è lareligione.


È evidente che tutto ciò potrebbe essere soltanto un’illusione, destinata a mostrarsi vuota e inconsistente; l’uomo credente, invece, ritiene che l’esperienza religiosa sia un fatto serio e valido, anzi l’esperienza più seria e costruttiva della vita umana. Né la scienza è in grado di risolvere questo problema. Infatti la scienza non può dimostrare l’esistenza di Dio, ma non può dimostrare nemmeno la sua “non esistenza”. L’uomo, perciò, ha davanti a sé un campo aperto: può credere e può non credere.

Se decide di credere ed entra in rapporto con Dio, esprimerà questo rapporto attraverso alcuni segni, uno dei quali è la costruzione di un tempio: un luogo che, in qualche modo, possa favorire l’incontro, custodirne la memoria e riproporlo quotidianamente.

Il Partenone realizza in pieno questi valori.

Pitti Uomo 88 – lo streetstyle

E’ terminata anche questa edizione del Pitti Uomo 88 e sono già tutti alla ricerca degli hashtag #pitti #pittiuomo #pitti88 #pitticolor #pittiimmagine su Instagram per trovare l’immagine in cui sono ritratti o semplicemente per lasciarsi ispirare dai look.

Il tema di questo Pitti 88 è stato“That’s Pitticolor!” e il primo fashion film prodotto da Luca Finotti per l’occasione lo ha rappresentato perfettamente; in Fortezza da Basso, al Padiglione Centrale, a intermittenza dei fumogeni colorati hanno creato caleidoscopiche nuvole in aria, regista del set design Oliviero Baldini.

Giochi di luce e incursioni cromatiche soprattutto nello streetstyle che ha sfilato tra cappelli, occhiali da sole, borse e pochette uomo.

Lasciatevi ispirare dalla gallery:

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ZEROSETTANTA STUDIO PRESENTA AL PITTI IMMAGINE UOMO LA NUOVA COLLEZIONE SS 2016

(foto @Miriam De Nicolo’)

La Creazione di Adamo di Michelangelo Buonarroti

È l’alba del mondo.

Su uno sfondo naturale spoglio e arido, si staglia la figura di Adamo, che, quasi sul ciglio di un abisso, tende un braccio verso Dio. Questo «contatto a distanza» delle dita è come una scintilla vitale che passa dal Creatore alla creatura e infonde energia nell’uomo, in modo tale che egli inizia a sollevarsi da terra e a distinguersi da quella materia dalla quale (e della quale) è stato fatto.

L’Eterno si avvicina in volo, con la veste purpurea. È circondato da un gruppo di angeli, impegnati nello sforzo di partecipare all’azione divina e descritti in vari atteggiamenti. Il gruppo è inserito in un grande manto violetto, gonfio di vento, che abbraccia Dio e gli angeli in una curva dinamica. Con il braccio sinistro l’Onnipotente cinge una figura femminile, la Sapienza, perché è soprattutto nella creazione dell’uomo che egli manifesta il suo infinito provvidenziale ordinamento.


La Creazione di Adamo di Michelangelo Buonarroti


In questo celeberrrimo affresco della Cappella Sistina Michelangelo ha tenuto ben presente l’insegnamento della Bibbia, che presenta Dio come «il vegliardo, i cui capelli sono candidi come la lana»: così si era espresso il profeta Daniele.

Adamo, dal corpo anatomicamente definito, poggia il braccio sul ginocchio piegato, in un significativo effetto di risveglio. Solleva lentamente il corpo e alza il dito ancora incerto verso quello assolutamente fermo di Dio. A differenza dell’intenso ritratto di Dio Padre, «l’antico dei giorni» ricco di bellezza e di energia, con la capigliatura grigia e la lunga barba fluttuante nell’aria, il volto di Adamo, di profilo e leggermente volto all’indietro, non assume un’espressione precisa: infatti l’uomo è un progetto aperto, chiamato a diventare sempre più somigliante al suo Creatore.

La Cacciata di Adamo ed Eva di Masaccio

La colpa fa la sua comparsa nella storia. E, con la colpa, le tragiche conseguenze che da quel momento accompagneranno la vita delle singole persone e dell’umana società. Per i credenti il peccato è allontanamento da Dio, cioè allontanamento dalla luce, dalla vita, dalla verità e dalla giustizia.

Il dipinto di Masaccio, nella chiesa fiorentina del Carmine, esprime con una potentissima sintesi questo dramma che si colloca all’origine. È il peccato originale, il primo della storia, che è anche il modello esemplare di ogni altro peccato.

L’affresco riecheggia le dolorose parole della Bibbia: Adamo ed Eva improvvisamente presero coscienza di essere nudi, cioè assolutamente poveri e fragili, privi della grazia di Dio ed esposti a sprofondare in quel baratro dal quale la mano del Creatore li aveva preservati.


La Cacciata di Adamo ed Eva di Masaccio


La tragedia delle origini si manifesta in un’atmosfera cupa e pesante, su uno sfondo arido e oscuro. L’uomo e la donna hanno perso la loro primitiva bellezza e si riducono a essere delle larve. Eva apre la bocca come una ferita ed esplode in un urlo selvaggio carico di dolore e di disperazione. Adamo abbassa il capo e, poggiando i piedi su una terra ormai diventata ostile, si avvia sulla strada della vergogna. Coloro che Dio aveva creato a sua immagine e secondo la sua somiglianza sono ridotti al livello di una realtà inerte e brutale.

La scena, nella sua essenzialità, è dinamica e fortemente emotiva anche grazie ad una energica illuminazione che modella i corpi dei nostri Progenitori e li definisce in forme statuarie. Il peccato di Adamo ed Eva si trasmetterà all’intera famiglia umana.

L’amicizia: una voce del medio evo

La teoria aristotelica costituisce la base anche della concezione dell’amicizia espressa da Tommaso d’Aquino. Ma forse Tommaso penetra ancora più a fondo nell’esperienza umana. Egli vede nell’amicizia il grado più elevato dell’amore: in essa, infatti, l’amore viene radicalizzato e assume delle sfumature qualitativamente altissime. Non basta, cioè, una concordanza di vedute o una convergenza d’interessi: è necessario che l’accordo amichevole sia fondato su una tensione e una volontà che cerca il bene dell’altro proprio perché tale, cioè dell’altro.


Questo amore, d’altra parte, deve essere scambievole. Non c’è amicizia in un rapporto unilaterale, per quanto generoso possa essere. Anzi, tale reciprocità è un incontro che modifica coloro che lo realizzano: non, quindi, una semplice somma di due amori, ma una sintesi nuova e più perfetta.


Altra caratteristica indispensabile dell’amore amichevole è la stabilità. Un affetto passeggero non può ancora essere considerato amicizia. Così pure la semplice simpatia si trasforma in amicizia soltanto se si espande in un rapporto di fedeltà, di perseveranza, di continuità. Di solito ciò è possibile quando la simpatia viene assunta in una coscienza riflessa e viene scelta positivamente.


L’amicizia, inoltre, proprio perché è un’esperienza interpersonale, non può restare al livello della semplice volontà o del sentimento interiore, ma è necessario che si espliciti in gesti manifestativi, che mostrano, concretizzano e costruiscono il rapporto.


L’amicizia culmina in un atteggiamento di mutua presenza. Si realizza, qui, un amore creativo, in forza del quale l’amico sente in sé la presenza dell’altro come qualcosa che faccia parte della sua vita e della sua stessa personalità.


Infine Tommaso s’interroga sul fondamento ontologico e sulla stessa condizione di possibilità del fenomeno dell’amicizia. Tale fondamento consiste in una certa affinità che si stabilisce tra due persone. Si tratta di un’affinità a due dimensioni: un’affinità di convenienza (parola da intendersi in senso etimologico, non in senso moralistico) in base alla quale esiste una convergenza di sentimenti, d’idee e di scelte; e un’affinità di differenza, in base alla quale nasce un’esigenza di mutua integrazione, una volta constatata la diversità. Dalla tensione e dal bilanciamento tra queste due energie nasce il rapporto amichevole.


L’amicizia, conclude Tommaso, è dunque buona, nel senso filosofico del termine: essa, cioè, corrisponde al fine dell’uomo ed è positivamente orientata verso il suo conseguimento. Non solo. Dal confronto con la beatitudine, sembra legittimo affermare che l’amicizia è l’esperienza più buona che la persona umana possa compiere, quella che è sommamente ordinata al suo fine: infatti essa esprime e, almeno parzialmente, anticipa nella sua struttura la stessa beatitudine.


A differenza del pagano Aristotele, il cristiano Tommaso (per giunta anche santo!) veniva illuminato e aiutato anche da una frase del Vangelo secondo Giovanni (15,15), una delle più belle sintesi di tutta la spiritualità cristiana. Racconta dunque il Vangelo che Gesù, la sera prima di essere ucciso, cenando per l’ultima volta con i suoi discepoli, disse loro: «Non vi chiamo più servi […], ma vi ho chiamato amici». L’ideale della fede ebraica si esprimeva con il concetto di servo; l’ideale cristiano, invece, si esprime non solo con quello di figlio, ma anche con quello di amico. E dunque la beatitudine, che è lo scopo di tutta l’esistenza umana e cosmica, trova nell’amicizia uno dei suoi simboli più alti e una reale anticipazione.

L’amicizia: le voci dell’antichità

L’amicizia è stata da secoli oggetto di riflessione da parte di pensatori e, naturalmente, educatori e ha costituito un notevole capitolo dell’etica. Di solito è stata considerata come un dato esperienziale ricco di vitalità e di significato.


Così, ad esempio, si esprime Cicerone:


«Godo a tal punto del ricordo della nostra amicizia da sembrarmi di essere stato felice solo per il fatto di essere vissuto con Scipione [si tratta di Scipione Emiliano, scomparso da poco]. Insieme abbiamo avuto lo stesso interesse per le occupazioni pubbliche e private, la stessa casa, la stessa esperienza di guerra; e soprattutto la massima armonia dei desideri, delle inclinazioni, delle idee: in ciò è tutta la forza dell’amicizia»


Il primo a trattare esplicitamente e con una certa vastità il tema dell’amicizia fu Aristotele.

È noto come l’etica aristotelica sia contraddistinta dal conseguimento della felicità per mezzo delle virtù, la maggiore delle quali è la theoria, cioè la contemplazione. Però tale conseguimento, che è proprio dell’individuo, non può avvenire senza un rapporto sociale: infatti l’uomo è, per sua natura, un animale sociale (animal politicum). Perciò è nella stessa natura dell’uomo che si fonda la capacità relazionale.


L’uomo, sociale per natura, concepisce dei fini che sono comuni ad altri uomini. Nell’aspirazione a un fine comune è da ricercarsi l’origine dell’amicizia e la sua specificità rispetto ad altri tipi di relazione umana. In concreto: essendo diversi gli scopi comuni che gli uomini possono desiderare di conseguire, se ne deduce che diverso sarà il modo di realizzare la reciproca convergenza. Questa, pertanto, sarà graduale, a seconda dello scopo inteso: il piacere, l’utilità e la virtù. Il tipo di relazione corrispondente alla virtù è il più profondo, perché in tale scopo viene annullato ogni sfruttamento egoistico, ogni strumentalizzazione: ognuno desidera che l’altro sia virtuoso e, quindi, consegua la felicità.


Concretizzando maggiormente questo ragionamento e salendo dal piano della natura a quello delle persone storicamente esistenti, Aristotele dice che l’amicizia è necessaria sia all’uomo che ha già raggiunto la felicità sia a colui che è infelice: nel primo caso perché questa stessa felicità si dispiega in una comunione gioiosa, nel secondo perché l’amicizia costituisce un conforto e un incoraggiamento.


Questa sintesi aristotelica costituisce quanto di meglio il pensiero dell’antichità precristiana ci abbia lasciato riguardo al nostro tema. All’interno di tale sintesi, altri due pensatori hanno accentuato alcuni particolari elementi, restando comunque al di sotto dello Stagirita: si tratta di Epicuro e del citato Cicerone.


La filosofia epicurea affronta soprattutto il problema morale e, in un periodo di notevole benessere e di grande sbandamento culturale (periodo molto simile al nostro … prima della crisi!), ripropone esplicitamente l’eterno problema della felicità. La felicità è l’«atarassia», la calma assoluta e soave, l’assenza della preoccupazione e degli affanni. Il criterio di giudizio per essere sicuri di camminare verso la felicità è il piacere, cioè l’assecondamento metodico e calcolato di ogni tendenza della natura. È a questo punto che s’inserisce la riflessione sul fenomeno dell’amicizia.


«Di tutte le cose che la saggezza offre agli uomini per la felicità della vita, la più grande è il conseguimento dell’amicizia». Dunque l’amicizia è considerata da Epicuro nel contesto della ricerca della felicità e del piacere. Ciò, se da una parte deve rendere cauti nel giudicare Epicuro come un filosofo volgare, dall’altra, rispetto alla posizione di Aristotele, comporta inevitabilmente una diminuzione della purezza dell’amicizia. Difatti Epicuro ben volentieri collega l’amicizia a un certo interesse, una certa utilità egoistica.


Al disinteresse assoluto come nota costitutiva della vera amicizia, invece, ritorna nuovamente Cicerone, che al nostro tema dedica un’intera opera filosofica, il Laelius. In quest’opera il grande oratore romano prospetta anche una definizione dell’amicizia: «omnium divinarum humanarumque rerum cum benevolentia et caritate consensio». Se, dunque, la benevolentia e la caritas sono delle qualità inalienabili dell’amicizia, questa non può essere caratterizzata dall’interesse e dal calcolo.


Cicerone, ancor più di Aristotele, accentua l’aspetto sentimentale, parlando dell’amicizia come di un’inclinazione dell’anima congiunta a un sentimento amoroso.

GUARDARE NELLA STESSA DIREZIONE – Una riflessione sull’amicizia

«Non camminare davanti a me» – dice l’anonimo cinese – «potrei non seguirti; non camminare dietro di me, non saprei dove condurti; cammina al mio fianco e saremo sempre amici».


Queste sensazioni riecheggiano nel verso di una canzone di Michel Pergolani, intitolata, appunto, L’amicizia: «L’amicizia vuol dire […] guardare nella stessa direzione».



L’amicizia è un fatto tipicamente umano: la sua struttura implica necessariamente un consenso d’intelligenze e di libere volontà. È possibile, al limite, l’amore fra un uomo e un oggetto inanimato (amore chiaramente unilaterale!), ma mai assolutamente un’amicizia. Ora, se si considera che la specificità dell’uomo nell’universo sperimentabile consiste nella conoscenza e nella libertà, vediamo come l’amicizia si inserisca perfettamente in questa condizione «naturale», cioè tipica di ogni essere umano.



La sfera psichica, si diceva all’inizio, comprende anche emozioni e sentimenti. Analizzata lungo i secoli, soprattutto a partire da Cartesio essa viene affrontata in una chiave più scientifica e sperimentale e diventerà oggetto di studio sempre più preciso e articolato.

Nella nostra società occidentale, nella quale i fenomeni di massificazione tendono ad aumentare in maniera nevrotica, si ha l’impressione che il valore dell’amicizia tenda a eclissarsi. Ciò è particolarmente evidente per molte persone anziane. Con lo spegnersi dell’eros e la scomparsa dei legami familiari, la loro principale risorsa affettiva potrebbe essere l’amicizia.

Purtroppo si nota come anche quest’ultima non venga molto apprezzata e, di conseguenza, coltivata nel vissuto contemporaneo, al punto che l’unica amicizia che rimane loro non è quella che si stabilisce con altri esseri umani, ma con gli animali domestici, soprattutto cani e gatti. Questo, di per sé, non ha nulla di sconveniente, anzi è un fatto molto bello, che ci richiama a una comunione con gli altri esseri della natura. Diventa, tuttavia, un’esperienza malinconica e perfino frustrante quando si riduce a un ripiego e a un surrogato dell’amicizia fra creature umane.

Un contributo alla soluzione di questo problema potrebbe venire da un percorso educativo e auto-educativo che, nella frenesia della vita moderna, privilegi il dialogo tra le persone.

È proprio la persona che esige un posto centrale nell’attuale cultura. Si tratta di sviluppare una soggettività che, adeguatamente provvista di autostima, si orienti a vivere con gli altri e per gli altri. Naturalmente ciò non prescinde dall’impegno per realizzare strutture politiche, sociali ed economiche sempre più giuste; ma la persona in quanto tale non si esaurisce in queste strutture. Solo nel volto dell’altro la persona trova risposta al proprio cammino. La sollecitudine per l’altro diventa la vera cifra di ogni civiltà. Forse in questo è possibile comprendere in che cosa consista la causa principale del disagio della modernità.

Un simile disagio è avvertito non solo nelle grandi città, ma anche nei piccoli centri. Sembra che il moltiplicarsi delle azioni, lo scintillio delle cose, i desideri artificialmente indotti, il potere dei mass-media, la fascinazione della realtà virtuale abbia preso il posto dell’ascolto interpersonale disinteressato. Invece solo la capacità di ascoltare l’altro è in grado di liberarci dall’arroganza e dal pregiudizio.

Ritorna in libreria Luca Bianchini con Dimmi che credi al destino

Le storie ambientate nelle librerie hanno un fascino tutto loro, a metà tra il vintage e il romanticismo. Poi se a scriverle è Luca Bianchini, l’enfant prodige dell’editoria italiana, il successo è assicurato.


Il suo ultimo libro, Dimmi che credi al destino, è una deliziosa commedia agrodolce, che non vi lascerà delusi.

Luca Bianchini è un adorabile Peter pan, scrittore e giornalista poliedrico, è una delle più belle persone che abbia mia incontrato in questi anni di televisione. Ha energia da vendere, la sua allegria è contagiosa. Le sue storie riescono ad avvolgerti e ad accompagnarti per mano in trame romantiche, divertenti, in cui l’ironia dei personaggi non delude mai.


Ritorna in libreria, l’enfant prodige dell’editoria italiana Luca Bianchini  con Dimmi che credi al destino


Bianchini è lo scrittore che vorrei per amico. Perché la sua bontà è disarmante! Adoro la sua verve, il suo carattere giocoso (come è bello vedere una persona sorridere sempre) e come non rimanere colpiti, ad esempio, dalla descrizione che fa di sé sul suo sito?


“Sono nato l’11 febbraio 1970. Nello stesso giorno, in anni diversi, sono comparse Jennifer Aniston, Irène Némirovsky, Sarah Palin e la Madonna di Lourdes. Le cose più belle mi sono successe senza averle cercate direttamente, come a tutti, credo. Ma mi piace credere alle coincidenze e questo dipende senza dubbio dagli anni che passano. L’unica cosa di cui sono sicuro, in questo tempo precario, è che scrivere è la cosa che amo di più, dopo la pasta coi broccoli.”


Uno così lo sia ama a prima vista e non lo si lascia scappare!!!


Il suo precedente romanzo, “Io che amo solo te”, ha venduto oltre 250mila copie e sta per diventare un film, diretto da Marco Ponti. Pochi giorni fa, infatti, sono iniziate a Polignano a mare, le riprese con Michele Placido, Riccardo Scamarcio e Laura Chiatti.


Al centro del racconto c’è la storia di Ninella (che nel film viene interpretata da Maria Pia Calzone) e don Mimì (Michele Placido): un amore impossibile coronato però da un colpo di scena: sua figlia Chiara (Laura Chiatti) si fidanza proprio con Damiano (Riccardo Scamarcio), il figlio dell’uomo che ha sempre sognato e desiderato. Quando i due ragazzi decidono poi di convolare a nozze, si animano le tensioni sotterranee tra le due famiglie, creando una vera baraonda di situazioni surreali. E poi basta dare un po’ di sfogo alla fantasia per capire che non sarà un matrimonio facilissimo…e che i colpi di scena sono dietro l’angolo.


Lo stesso Bianchini, farà un cameo nel film tratto dal suo libro e non è nella pelle. Ritorna nella sua adorata Polignano che è diventata, negli ultimi anni la sua cittadina adottiva. Fu qui che si scontrò per la prima volta, con la tradizione nuziale, rimanendo affascinato dall’indimenticabile folklore pugliese.


I matrimoni del resto, non sono altro che dei crocevia tra lunghissime portate, sentimenti e risentimenti, outfit all’ultima moda, amori mancati e coronati, giorni più belli della nostra vita, costruiti intorno ai tavoli, tra menù elaborati, bomboniere di Limoges e confettate.


In questi giorni, in libreria, è uscita l’ultima fatica letteraria di Bianchini: Dimmi che credi al destino, edito da Mondadori. E dire che sta per diventare un nuovo fenomeno letterario è troppo poco.


E’ un romanzo che intreccia realtà e finzione narrativa e che parla soprattutto di donne, della grande solidarietà che sanno spesso regalarsi, per affrontare al meglio le avversità del destino. Ma è soprattutto un romanzo che parla di seconde possibilità, di amicizia e di destino.


“Il destino è quella porta socchiusa da cui ogni tanto puoi sbirciare. E allora vedi che nulla avviene per caso e che tutto ha senso, anche quando sembra non averlo”


Ornella, è la direttrice dell’Italian Bookshop di Hampstead nel cuore di Londra, una piccola libreria italiana che rischia di essere chiusa per essere trasformata in un ristorante turco. Insieme a Clelia, scontrosa e insoddisfatta collega, cerca di portare avanti la libreria, tra mille difficoltà; ma per fortuna, arrivano, in suo soccorso, la sua adorata amica Patty e i suoi inseparabili tacchi 12 e il poliedrico barbiere gay Diego, e la situazione finalmente sembra migliorare.



Tutti i personaggi fuggono da qualcosa, chi da una zia tirchia, chi da un amore sbagliato, chi dalla solitudine, chi da un marito in fin di vita e un passato troppo difficile da dimenticare.



“Alcuni amori sono capaci di restarti nel cuore anche quando sanno solo farti del male”.

Ce la faranno i nostri eroi a salvare la libreria e a liberarsi dalla loro “appuncuntria” personale?

“Cos’è l’appucuntria? Chiede una sorpresa Ornella, a Diego?

“E’ quel misto di noia, nostalgia, mal d’amore, insoddisfazione e solitudine”.

Ma soprattutto quali saranno le sorti delle vere star della libreria: due pesci rossi di nome Russell & Crowe?

E’ un romanzo che fa sorridere, piangere e riflettere, come accade ad Ornella sulla sua panchina al parco di Hampstead Heath, spesso in compagnia di Mr George, un vecchietto che ha fatto la guerra, che ha studiato a Perugia e che legge Calvino.


Come non innamorarsi di questo straordinario vecchietto che ci insegna che in guerra la cosa più importante è non pensare: non pensare al passato e non pensare al futuro. Perché è lì che scatta la paura; o ancora che non è mai tardi per gli eroi. La prima cosa da sconfiggere è la paura. Perché in guerra tu puoi essere il tuo alleato ma anche il tuo peggiore nemico”.


Ornella impara ancora una volta a farsi coraggio. Anche con l’aiuto di Jane Austen e di Orgoglio e Pregiudizio. Le bastano poche righe del romanzo per ritornare a respirare. Ama Lizzie con tutta se stessa perché è come lei: un’eterna seconda. Se fosse esistita e si fossero incontrare, sarebbero diventate amiche, ne era certa.



E anche se è una maestra di cadute, Ornella, sa risollevarsi, sa guardare avanti, sa riprendere la sua strada, con un po’ di ammaccature, qui e là. “Del resto la vita non è un film dove i colpi di scena sono previsti”.

Ma Dimmi che credi al destino è anche una storia d’amore e come in tutte le favole a lieto fine, il principe azzurro arriva a salvare l’eroina della romanzo. E non ci sorprende che l’eroe sia il vicino di casa, quello che ti aspetta da una vita e che non sa cucinare un piatto di pasta e che gli viene così scotta da sembrare una minestra. Ma con gli occhi dell’amore tutto si perdona a un inglese maldestro coi fornelli.


“E quando scopri che non t’importa più che tempo fa, vuol dire che sei innamorata”.

Tony Cairoli: “Il titolo è ancora aperto, ma spero di non ingessare il braccio”

Lo ha definito come il weekend più difficile da quando corre. Un Gran Premio d’Italia tutto in salita per Tony Cairoli, cha ha dovuto fare i conti con una doppia frattura rimediata il sabato nelle qualifiche a causa di una caduta. In seguito è stato costretto a stringere i denti la domenica in gara, conquistando un tredicesimo posto che tiene più che mai aperta la lotta al titolo. Nel GP che ha visto il francese Romain Febvre vincitore, Max Nagl, leader della classifica iridata, non è riuscito ad andare oltre la settima piazza, guadagnando solo undici punti sul siciliano.

 

Quanto è stato impegnativo correre in queste condizioni?

 

“Tantissimo. Mi sono sottoposto ad una seduta di crioterapia prima della gara, dove ti immergono in una cella con azoto liquido a -140°, perché sentivo molto dolore al braccio, infatti facevo gran fatica a guidare. Inoltre mi hanno drenato più volte l’arto per far venire a meno il male. Proprio per questo ho aspettato fino all’ultimo per decidere se prendere parte o meno a Gara 2”.

 

E’ stato un Gran Premio amaro, però negli occhi di tutti rimane la grinta dimostrata in Gara1.

 

“Ho cercato di dare il massimo fin dall’inizio. Ringrazio il pubblico di casa perché mi ha sostenuto come sempre in maniera esemplare. Speravo di vincere o quantomeno arrivare sul podio alla vigilia del weekend, però è già stato tanto aver perso soli 11 punti da Nagl. Ci riproverò senza dubbio il prossimo anno”.

 

In Gara 2 possiamo dire che sei stato un eroe solo per il fatto di essere partito?

 

“Grazie (sorride). In Gara 2 ho aspettato fino all’ultimo minuto per decidere se partire o meno. Alla fine mi sono fatto coraggio e sono salito in sella alla moto. Ho cercato di evitare ogni minimo rischio e contatto in partenza, così come durante la corsa. Avevo un solo obiettivo, arrivare sul podio”.

 

Adesso Max Nagl ti precede di 30 lunghezze in campionato. I giochi sono ancora aperti?

 

“Sì, mancano ancora diverse gare e tutto può accadere. Servirà limitare nuovi passi falsi e tornare alla vittoria il prima possibile. Sinceramente non avrei mai pensato di accusare un distacco così minimo dal tedesco”.

 

Si torna subito in pista tra sette giorni per il Gran Premio di Germania. Quanto sarà difficile rimettersi subito in forma?

 

“Adesso andrò in Belgio per farmi visitare dal dottor Tom Claes. Spero non sia nulla di grave, ma soprattutto spero di non dover ingessare il braccio. Sarebbe sicuramente un problema”.

The Kingdom of Dreams and Madness: un viaggio nello Studio Ghibli

«Sono un uomo del XX secolo. Io non voglio affrontare il XXI.»


L’uomo del XX secolo è Hayao Miyazaki, maestro del cinema d’animazione giapponese, spesso riconosciuto come il Walt Disney del Sol Levante. È con questa frase che Miyazaki pare volersi congedare una volta per tutte dal proprio regno, quel regno dei sogni e della follia richiamato dall’omonimo documentario di Mami Sunada, The Kingdom of Dreams and Madness: un viaggio attraverso la nascita dei capolavori indiscussi dello Studio Ghibli, a cui è legato il nome di Miyazaki insieme a quello di un altro grande maestro, Isao Takahata, a cui si deve, oltre al commovente Una tomba per le lucciole (al cinema da novembre 2015, pur essendo del 1988), La storia della principessa Kaguya (2013). Miyazaki ha raggiunto il punto più alto della propria carriera con La città incantata (2001), vincitore dell’Orso d’oro a Berlino nel 2002 e dell’Oscar come miglior film d’animazione nel 2003 (prima e unica volta per un anime), capace di superare al box office nipponico persino Titanic. Ma non si devono trascurare altri indimenticabili film come Nausicaa della Valle del Vento (1984), Laputa – Il castello nel cielo (1986), La Principessa Mononoke (1997) e Il castello errante di Howl (2005), fino ad arrivare a Ponyo sulla scogliera (2008) e Si alza il vento (2013).


Ma The Kingdom of Dreams and Madness non racconta la carriera di Miyazaki e Takahata. Si tratta piuttosto di uno sguardo iperrealistico, in presa diretta, sul funzionamento dello Studio Ghibli: i ritmi intensi, l’assegnazione del ruolo da protagonista a Hideaki Anno, i pensieri di Hayao stesso, il lavoro di Takahata (che compare solo fugacemente), una sessione di doppiaggio di Si alza il vento che porta Miyazaki alla commozione… Il cineasta giapponese è uno che sa come si lavora sodo (lo fa ogni giorno, dalle 11 alle 21, esclusa la domenica), e che esige la cura di ogni minimo dettaglio. Una cura maniacale che gli ha portato via cinque anni, perlomeno per realizzare il suo ultimo film, Si alza il vento, presentato al Festival di Venezia nel 2013. Sarà l’ultimo in tutti i sensi e The Kingdom of Dreams and Madness è il diario di quest’ultima fatica, incominciato nel 2012 e concluso nei primi mesi del 2013. La regista Mami Sunada ha detto che la Disney Giappone voleva farle fare un dvd commerciale sullo Studio Ghibli, ma una volta entrata nella regno del fantastico duo Miyazaki-Takahata si era resa conto che quell’ultimo anno sarebbe stato molto diverso dagli altri, e così aveva optato per un documentario. La premiere di The Kingdom of Dreams and Madness si è tenuta durante il Festival di Toronto del 2014, ma il film è stato reso disponibile in dvd o in video on-demand soltanto dal 27 gennaio 2015.


«Ci sono molti documentari sullo Studio Ghibli che in Giappone sono stati trasmessi in tv», ha detto Mami Sunada. «Per questo quando il signor Suzuki [produttore ed esecutivo dello Studio Ghibli, ndr] prende una decisione, ciò che chiede è: “Che cosa si può fare di nuovo?”. In quest’anno davvero insolito e indimenticabile sono stati fatti sia Si alza il vento sia La storia della principessa Kaguya, quindi ho deciso che sarebbe stato proprio questo su cui avrei incentrato il documentario – il confronto tra i due registi, il loro storico rapporto professionale – e come ognuno occupa il proprio posto nello studio. Questa era la cosa su cui volevo soffermarmi.»


Miyazaki non scrive copioni ma storyboard, e i suoi assistenti iniziano la produzione da questi disegni prima che lui li abbia finiti. Quando accoglie Sanada nella sua casa-studio, Miyazaki filosofeggia sull’arte e sull’umanità per sentirsi come qualcuno che viene a patti con il lavoro di una vita. E così parla dolcemente del suo modo di fare film, in particolare di come la famiglia dello Studio Ghibli vede il cinema. In Si alza il vento c’è qualcosa di talmente personale da portarlo alle lacrime dopo l’anteprima: è la prima volta per un suo film.


Si alza il vento è un film biografico sui sogni “belli ma maledetti” di Jiro Horikoshi, un ragazzino miope che progetta aerei, non potendo pilotarli. Proprio Miyazaki, da piccolo, sognava il volo. Sognava che il suo corpo sfiorasse le nuvole sulle città giapponesi di Utsunomiya e Kanuma, dove era cresciuto; in altri sogni, la magia lo avrebbe improvvisamente tagliato fuori, e lui avrebbe fatto un giro su se stesso e sarebbe sfrecciato verso il basso, risvegliandosi con un salto prima di toccare per terra. Suo padre, Katsuij, gestiva una compagnia chiamata Miyazaki Airplane, che produceva alette di coda per aerei da combattimento giapponesi durante la Seconda Guerra Mondiale. In occasione di una visita alla fabbrica, il giovane Hayao fu incantato dalla bravura meccanizzata delle parti, per esempio il modo in cui un filo si univa a un albero e gestiva un timone. Ma non riusciva a collegare in modo consapevole gli oggetti che suo padre faceva ogni giorno e ciò che sognava.


«Nella mia testa, erano totalmente separati», ha detto il regista. «Probabilmente si tratta di un ottimo caso di studio psicoanalitico. Amavo gli aerei perché erano delle macchine incredibili, ma la velocità e l’altezza del volo – queste erano cose che capivo subito, da bambino. Penso che un sacco di persone abbiano fatto i miei stessi sogni.» Del film in sé per sé, però, ce n’è ben poco. Sanada concede qualche spezzone di Si alza il vento solo in fase di montaggio: d’altronde questo è molto più che un semplice documentario su un anno di vita dello studio. Il film di Sanada, non a caso, riesce a dare il meglio di sé quando la regista trasmette la consapevolezza che si tratta di uno studio e di una voce creativa in un periodo di transizione e forse nella sua fase crepuscolare. La musica, il tono, l’oggetto dei due film, la candida riflessione di Miyazaki – tutto concorre a dipingere il ritratto di qualcosa di meraviglioso che sta per finire. E il ritratto che ne emerge non è soltanto quello di un regista che ama ciò che fa ma anche delle persone che sono coinvolte nel processo creativo e che, ognuno nel proprio piccolo, contribuiscono a trasformare una faticosa catena di montaggio in qualcosa che sembra avere vita propria. Perché i personaggi di Miyazaki e Takahata riflettono la straordinaria umanità e la sorprendente sensibilità dei loro creatori.


Sunada, che in precedenza aveva lavorato come aiuto-regista in alcuni film di Hirokazu Kore-Eda e a una manciata di altri progetti, si rende conto che c’è una buona ragione per cui questo film esista ben al di là del fatto che si possa realizzare. Il suo documentario non è solo un lamento per la fine dello Studio, ma tende ad anticipare la fine stessa: e così, dal primo giorno in cui inizia le riprese nello Studio Ghibli, Sunada è fin troppo consapevole che il suo sarà un elogio. Quando confessa che «il futuro è chiaro: cadrà a pezzi», è come se Miyazaki leggesse dal copione. Se però lo immaginate come un nonnetto adorabile dagli occhi splendenti di meraviglia, potreste restare delusi. Dal film di Sunada emerge un uomo molto diverso: un uomo cortese e un operaio diligente benedetto da un colpo di genio. Ma è un uomo segnato allo stesso tempo da momenti di cinismo, risentimento e insicurezza che alludono a qualcosa di cupo dietro alle sue creazioni. «Non mi sono mai sentito felice nella mia vita quotidiana», dice. «Il cinema porta solo sofferenza.»