Calvin Klein Jeans: la nuova campagna con Kendall Jenner

Kendall Jenner è sempre sulla cresta dell’onda: dopo il sexy servizio per la rivista maschile GQ, torna come volto per la campagna di Calvin Klein.

Gli anni ’90 sono tornati con le tradizionali tute, felpe e Denim grigio sbiadito.

Dopo Justin Bieber e Lara Stone, è il turno della ragazza più popolare del momento per lavorare con Calvin Klein.

Melisa Goldie, direttore marketing di Calvin Klein ha detto “Kendall è una bellezza moderna, che porta il suo spirito giovane a bordo di questa speciale campagna di Calvin Klein Jeans.

Inoltre ha un seguito di fan potentissimo, la portata globale del nostro messaggio sarà ulteriormente amplificata dalla sua fama e circonderà il marchio Calvin Klein Jeans evidenziando questa entusiasmante edizione limitata.

Essere la testimonial di Calvin Klein Jeans è un sogno che si avveraconfida Kendall – “Sono cresciuta indossando il marchio ed ora vedermi come icona sulle riviste e sui cartelloni pubblicitari è veramente un onore!

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Nexdoormodel Speciale Los Angeles

Los Angeles, “la città degli angeli”, anche se con gli angeli ha poco a che fare visto che ci si trovano ex celebrità alcolizzate, o donne che rincorrono l’eterna bellezza attraverso la chirurgia estetica.

Los Angeles, dove tutto è accettabile, nulla sorprende, e la libertà è uno stile di vita – qui, tra le palme che sfiorano il cielo e le donne che sfiorano la perfezione, quelle donne da copertina, quelle che corrono sui pattini a rotelle a Venice Beach, è stato scattato il servizio speciale di Nexdoormodel.

Caldo tropicale, costumi, la città in lontananza, e splendide modelle nel servizio speciale di Nexdoormodel in anteprima su D-ART.

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Persistenza dei pregiudizi

Il pregiudizio è un giudizio dato prima, cioè espresso a prescindere dall’esperienza. Esso è, nel suo aspetto negativo, un errore di valutazione.


È chiaro come un simile tema occupi tutta la storia dell’uomo, in modo particolare la storia della filosofia. Essa, infatti, altro non è che la ricerca della verità ultima su tutti gli esseri: perciò il primo problema che la filosofia deve affrontare è se e come la mente umana possa giungere a una conoscenza oggettiva delle cose, ad una conoscenza che si esprima in un giudizio e non in un pre-giudizio. Alcuni filosofi, poi, hanno fatto del pregiudizio l’oggetto esplicito del loro studio: il più famoso tra loro è Francis Bacon, che si colloca alle origini del pensiero moderno. Lo stesso atteggiamento antipregiudiziale vale per le scienze matematiche, per le scienze umane e, in genere, per ogni conoscenza che tenda a superare il livello della superficialità.


Al campo del pregiudizio sono riconducibili alcuni concetti e sfumature psicosociologiche. Tra questi si evidenziano i concetti di stabilità e di abitudine, di aggregazione, partecipazione, arbitrarietà, condizionamento, avversione, conflitto e ostilità, interesse consolidato, consenso, educazione, opinione, imitazione, linguaggio, organizzazione, propaganda, polarizzazione, interazione e via dicendo.


Persistenza dei pregiudizi


È ovvio che molti di questi aspetti esprimono dei significati di grande importanza per la vita delle persone. Quello che non è valido è l’assolutizzazione acritica di questi aspetti a discapito di altri non meno importanti. Il bisogno di appartenenza, ad esempio, è certamente positivo; a esso si collega il desiderio, anzi l’esigenza, di essere accettati dagli altri, di ricevere stima e anche affetto, di comunicare agli altri la nostra presenza. Tutto ciò va benissimo. Ma diventa un dis-valore quando è assolutizzato: in tal caso il soggetto rischia di diventare uno schiavo del suo ambiente. È necessario, allora, dare voce alla capacità di prendere posizione “contro corrente”, affermando altri valori, quali la libertà personale e il rispetto dei fatti.


Il pregiudizio, in definitiva, consiste in un processo, non di rado rozzo e tenace, di semplificazione della realtà messo in atto da un gruppo sociale e utilizzato in modo più o meno consapevole anche dai singoli individui. Il ricorso a un tale processo svolge una funzione prevalentemente difensiva, poiché assicura il mantenimento di posizioni acquisite. La condivisione sociale e la generalizzazione appaiono dei corollari del processo pregiudiziale, inteso come un dinamismo socio-culturale.


Eppure, nonostante l’immenso sforzo della cultura e delle culture di liberarsi del pregiudizio, vediamo come esso ritorni costantemente a influenzare il ritmo della vita. In tutti i momenti del cammino umano siamo costretti a prendere atto della persistenza di opinioni ingiustificatamente sfavorevoli circa le persone appartenenti a un determinato gruppo sociale, opinioni che non restano isolate in un ambito teorico ma producono comportamenti e determinano scelte di tipo discriminatorio.


La questione femminile è uno dei campi d’indagine privilegiato per osservare il fenomeno del pregiudizio. Anche la moderna civiltà occidentale, con tutto il suo enorme progresso, appare, agli occhi non solo di sociologi e psicologi ma anche del comune sentire, ancora come una società maschilista. Basterebbe pensare già soltanto al linguaggio: la parola “uomo”, ad esempio, continua a indicare sia l’umanità in genere sia l’umanità maschile, cosa che non accade con la parola “donna”; e ciò vale per molte situazioni dove il genere maschile è usato per indicare entrambi i sessi.


Se in Occidente si assiste almeno a una progressiva presa di coscienza di queste contraddizioni culturali, in molte altre aree del pianeta la condizione della donna continua ad essere ancora molto insoddisfacente: all’origine di un mancato raggiungimento dell’effettiva parità, notiamo il permanere del pregiudizio antifemminile. L’Occidente stesso, però, appare molto indietro se, al di là degli aspetti formali e giuridici, si considera l’effettiva presenza sociale della donna: i mass-media quotidianamente offrono il modello di una società in cui appare, per dirla con Bruno Mazzara, «il maschio dominante e orientato all’esterno; la femmina dominata e ripiegata su se stessa e sulla casa».


Non di rado i pregiudizi legati ai ruoli attraversano la storia, permangono e spesso si rafforzano, si radicano nelle coscienze e nelle strutture, assumono forme grossolane o più sottili ed eleganti, ma sempre condizionano la vita delle persone e delle comunità.

Linee di tendenza del pregiudizio antifemminile

Nella sua indagine la psico-sociologia non fa riferimento a valori assoluti, espressioni di una vera o presunta interpretazione della natura umana, bensì a linee di tendenza, alla prevalenza di alcuni aspetti su altri, al livello della sensibilità sociale nei confronti di problemi e proposte.


Tra le funzioni esercitate dal pregiudizio, c’è quella “semplificatrice” nei confronti della realtà. Si tratta di un aspetto, nello stesso tempo, confortevole e castrante, poiché non di rado lo stesso soggetto che è vittima di pregiudizio tende a utilizzare gli stereotipi come espedienti identificativi rassicuranti. Ciò si verifica con evidente frequenza nel caso del pregiudizio di genere, quello nei confronti delle donne, forse perché, più che in altri casi, è molto diffuso e basato su concetti condivisi perfino dalle stesse donne. È, in sostanza, un’espressione collettiva particolarmente radicata non solo nei gruppi maggioritari, ma in tutti gli strati della società. In tal modo tale pregiudizio fornisce un prontuario semplice e immediato alla valutazione e alla riflessione, all’espressione e all’organizzazione del pensiero, che è in grado di orientare concretamente anche l’azione.


Anche a causa della sua base emotiva molto consistente, i pregiudizi non di rado si fondano su acquisizioni cognitive per lo più inconsapevoli, determinate e rafforzate dal contesto sociale, familiare e amicale, prodotte già dalla prima infanzia. La donna, in questo senso, appare una vittima ancora più consenziente di quanto non si possa presupporre in altre forme di discriminazione. Ella stessa infatti ha assorbito, con il latte materno, dei veri e propri cliché fissati, difficilmente reversibili e modificabili, sia per la loro diffusione sostenuta dall’ambiente culturale sia per la legittimazione derivante dall’approvazione familiare. Lo stereotipo rafforza negli individui quei messaggi che ottengono consenso e legittimazione sociale.


Linee di tendenza del pregiudizio antifemminile


Mai come in un simile contesto appare che il pregiudizio, oltre che un mezzo di esclusione, è anche, e forse soprattutto, strumento di inclusione, perché produce e conferma il senso appartenenza. Il singolo sperimenta se stesso all’interno di relazioni significative, prima con la madre, poi con la famiglia e, infine, con il mondo esterno. In questo percorso il processo di definizione di sé s’intreccia con il senso di appartenenza o “senso del noi” come una spinta motivazionale per lo sviluppo individuale.


Nell’intreccio di relazioni sociali che danno luogo a una rete molto complessa, allora, il pregiudizio diventa una forma di approssimazione alla realtà che implica, da una parte, un’accentuazione delle differenze tra il gruppo di appartenenza e gli altri gruppi e, dall’altra, un’accentuazione delle somiglianze all’interno del gruppo, producendo un effetto di assimilazione. Questa azione di inclusione tende a compensare e gratificare l’individuo nei suoi rapporti con gli altri, generando un certo spirito conservatore tipico delle donne, dovuto ovviamente non alla natura ma alla cultura.


Il pregiudizio “aiuta” anche nell’analisi dell’immagine di sé, perché fornisce uno strumento concettuale d’immediata applicabilità. Conseguentemente chi ne è vittima, in questo caso la donna, si mostra disposto a sminuire la propria immagine, riconoscendosi nell’identità proposta e condividendone il modello: subisce cioè l’effetto dello schiacciamento sociale effettuato, attraverso l’uso degli stereotipi, dal potere di sottomissione del gruppo maggioritario. Perché sforzarsi di modificare la propria posizione d’inferiorità, se questa garantisce comunque alcuni beni e, soprattutto, un consenso di fondo?


Un esempio molto chiaro di distorsione della realtà, prodotta dal pregiudizio, sono le metafore che spesso vengono utilizzate nel linguaggio comune, come pure nei mass media e nel lessico politico: la donna è, di volta in volta e in base alle convenienze (anche proprie), l’angelo, la strega, la vampira, la valchiria, la Giovanna d’Arco, la vestale, la matrona, ecc.; e, poi, ricorrendo a seconda delle situazioni all’apparato immaginifico proveniente dalla mitologia, una Giunone, una Venere, una Diana, una ninfa, una sirena e così via.


La donna viene coinvolta nel linguaggio paradossale della metafora ed è indotta a rapportarsi con se stessa e con il proprio sapere, costruendo la propria coscienza di sé anche grazie alle attese degli altri. Si costruisce, in tal modo, quel sapere e quelle conoscenze che le permettono di relazionarsi con gli altri, si individuano le modalità e i limiti di questa relazione, si precisano i valori che definiscono ciò che è comune e ciò che è diverso.


A tutto ciò va aggiunto il ruolo della dimensione istituzionale e politica, il ruolo cioè che assumono la società e le istituzioni sociali nel delineare il senso comune e gli atteggiamenti maggioritari.
Tutti questi fattori agiscono spesso in maniera integrata, influenzandosi reciprocamente, e ognuno alimenta l’altro in una catena di attribuzioni di causalità e responsabilità reciproche.

ANIMALIER!

Chic, glamour, pop, soft, provocatorio, lussurioso; l’animalier affascina da anni molti stilisti che lo propongono e ripropongono da anni sulle passerelle.

L’animalier è considerato uno dei capisaldi del fashion system e viene definito da molti “the new black”. Viene ripresentato in tantissime varianti ed è un trend che non conosce stagioni. Sarà infatti uno dei protagonisti delle prossime collezioni autunno/inverno.

La collezione FW15/16 di 070ST riscopre il lato ludico della femminilità in un gioco che alterna linee giovani e tessuti metropolitani a capi dall’allure classico.

In questa nuova visione anche i tessuti più tradizionali come il casentino assumono vesti inedite. Le combinazioni caratterizzano la collezione e trovano la massima espressione nella reversibilità. Nella collezione troviamo le stampe leopardo accoppiate a tessuti grigi in lana su modelli ampi, forme aeree a pipistrello che rievocano il mondo punk degli anni ’80.

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La moda ci aiuterà ad esprimere noi stessi, mostrando la nostra anima ma anche lo spirito del momento e questo diventa espressione pura di femminilità e da spazio a luci e bagliori e pattern animalier.

La stampa animalier leopardata o maculata è ormai a tutti gli effetti un classico must have del guardaroba e quest’ inverno conquista un posto da protagonista nella collezione di CINTI.

Divertenti le combinazioni tra stampe leopardate e giraffa usate per le sneakers in cavallino o sulle stringate. Sensuali e intriganti gli interventi sulle ballerine, i tronchetti open-toe o gli stivaletti a punta.

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ITA-KLI propone una vasta collezione di capi in pelliccia, cappotti e gilet. Peli pregiati come volpe, anche abbinati a lane si alternano a lapin murmaski kit e rex. I tagli moderni, le vestibilità facili e l’inaspettata leggerezza sono il dna di ogni collezione.

I maculati assumono un aspetto british e sono realizzati in pregiato kid.

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“Who Is On Next?” – I prossimi saranno i primi

Alla scoperta dei talenti premiati dal contest che, da oltre 10 anni, dà la possibilità, alle giovani leve della moda, di emergere.

Chiusi i battenti degli anni accademici dei maggiorni istituti di moda, culminati con fashion show più o meno sperimentali, ecco giungere un attesissimo evento per coloro che sognano una carriera nel settore.

Who Is On Next?” è nato come uno dei principali contest che, oltre a decretare i massimi esponenti emergenti, portatori sani di impegno, caparbietà e creatività espressiva, offre la possibilità di immettersi direttamente nel mercato del Made in Italy.

Patrocinato da Altaroma e Vogue Italia, partner in crime nello scovare e sostenere nuovi talenti, il concorso si svolge durante la settimana della moda capitolina e ha luogo da oltre dieci anni.

Who's on next
Who’s on next


Location d’eccezione il Palazzo delle Esposizioni, costellato dalle opere del fotografo David LaChapelle, grazie alla personale attualmente in corso che ha accolto il 13 luglio stampa, buyer e produttori internazionali.

A seguito del dinamico evento sfilata, dove ogni candidato ha avuto modo di mostrare le proposte per la prossima primavera-estate 2016, si sono svolte le premiazioni a cura di Silvia Venturini Fendi, presidente di Altaroma, e Carla Sozzani, editor-in-chief di Vogue Italia, a capo di una giuria settoriale.

I vincitori con Franca Sozzani e Silvia Venturini Fendi
I vincitori con Franca Sozzani e Silvia Venturini Fendi


Due i premiati per la categoria accessori:

Nicolò Giannico Beretta che, con stravaganti idee creative e la massima operatività sui social network, è stato scelto per l’ancor acerbo, ma alquanto ambizioso, progetto imprenditoriale. Le scarpe Giannico, infatti, già calcano i red carpet hollywoodiani e sono apprezzate dalle star come Dita Von Teese e Lady Gaga.

A circa 20 anni, e con in tasca il sogno di frequentare la prestigiosa Central Saint Martins School, l’enfant prodige del settore calzaturiero italiano, prevede di far scintille.

Giannico
Giannico


Heritage e tradizione, invece, il connubio che ha decretato il premio per la categoria borse.
A vincere Carol Oyekunle, artista con origini americane e keniote che, trasferitasi a Parigi, ha lanciato il marchio Lolita Lorenzo Minaudière.

Nelle sue collezioni notiamo come i variopinti codici di stile africani vengono rielaborati artigianalmente per conferire alle creazioni un’ aura di intramontabilità.
Forte dell’ impegno sociale, il brand ha lo scopo di promuovere la manodopera dei paesi del Terzo Mondo. La Oyekunle, infatti, collabora con un gruppo di donne nigeriane operative nel realizzare i tessuti per la produzione delle sue borse.

Lolita Lorenzo
Lolita Lorenzo


Tris di premi per il trionfatore della categoria abbigliamento:

Il britannico Lee Wood è stato scelto principalmente per la comprovata esperienza nel mondo della moda. Con all’attivo 16 anni nell’ufficio stile della Maison Versace, nel 2015 decide di lanciare il brand L72, per far emergere la visione estetica personale. Una collezione che consegna le chiavi di accesso al suo mondo, fatto di svariate sinergie creative e collaborazioni. L72 è infatti anche studio di consulenza a 360 gradi dove, insieme a un team di validi professionisti, vengono sviluppate collezioni e materiali visivi.

A Wood inoltre sono andati anche il premio Fashion Valley, che gli consentirà di elaborare una capsule collection con il distretto tessile pratese, e quello di Yoox.com, store virtuale, leader nel mondo. Quest’ ultimo, infatti, consentirà ai vincitori di vendere un look o una creazione esclusiva in oltre 100 paesi.

L72
L72


Una lancia va, infine, spezzata a favore del designer orientale, candidato ma non decretato vincitore, MiaoRan. Cinese, con studi conseguiti a Milano nell’ambito progettuale, attualmente insegna alla NABA. L’eclettico creativo vede l’uomo e la donna indossare gli stessi capi, nel segno della filosofia no gender che conferisce a essi minimalismo, tagli e volumi over. La forte sensibilità verso la composizione pittorica e il disegno rendono MiaoRan una perla del panorama contemporaneo.

Miao Ran
Miao Ran


Al termine della manifestazione possiamo dire che sono emersi il forte ottimismo e l’effettiva volontà nella costruzione del sistema moda che verrà.
Un’unione di intenti per far sì che le risorse nascenti non si disperdano nel buco nero dei sogni. L’obiettivo primario degli organizzatori è unicamente quello di incrementare i risultati a favore della branca del settore terziario che ha reso noto il nostro Paese in tutto il mondo.

FOTO Credits: Raffaele Soccio e Luca Latrofa/ L.Sorrentino

Collegamenti:

www.altaroma.it
www.giannicoshoes.com
www.lolita-lorenzo.com
www.miaoranstudio.com

Gli angeli orfani di Elio Fiorucci

Si è spento nella giornata di lunedì 20 luglio il visionario imprenditore che, nel pieno dei moti rivoluzionari di fine anni ’60, ha cambiato il modo di percepire la moda in Italia e nel mondo.

Milano. Possiamo definirci una generazione di angeli orfani della nuvola di divertimento e provocazione, creativa e visiva, che accompagnava l’universo di Elio Fiorucci, spentosi all’età di 80 anni.

Sui social network rimbalzano post, tweet e articoli intenti a ricordare il folle meneghino che importò in Italia la rivoluzione del costume proveniente dalla Swinging London. Colui che aprì le porte verso una via di fuga dall’ancora ingessata e borghese Italia.

Il primo al mondo a ideare, nel 1974, un concept store multisensoriale, dove si potevano non solo acquistare articoli di vario genere, ma assistere a performance, degustare il “tè delle 5” e mangiare deliziosi hamburger su piatti di Richard Ginori.

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La Milano libera e cosmopolita di Fiorucci venne catapultata, grazie al suo estro e alle advertising dallo spirito ribelle, firmate da Oliviero Toscani, ad onor di cronaca.
Seguirono i monomarca in giro per il mondo, alcuni dei quali firmati in collaborazione con Ettore Sottsass, Andrea Branzi e Franco Marabelli, per poi finire nelle grazie del re della Pop Art, Andy Wahrol, che scelse di presentare il suo magazine “Interview” proprio presso una boutique Fiorucci; senza dimenticare la consolidata amicizia con Keith Haring, che dipinse le vetrine in San Babila.

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Antesignano è dir poco quando, con Lycra, diventò fautore del primo jeans stretch. Quello nato a inizio secolo come indumento da lavoro, grazie a Fiorucci viene proclamato elemento chiave del guardaroba di tutte le donne che vogliono sentirsi sexy e desiderate.

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Un marchio come espressione di uno stile di vita, senza regole e costrizioni, emblema della felicità e dell’anticonformismo di una società libera di indossare, a qualsiasi età, t- shirt con i personaggi Disney e scaldamuscoli in pieno “stile Flashdance”.

Con l’inizio degli anni ’90 il brand viene acquistato dai giapponesi per affdare a Fiorucci solo la direzione creativa.
La “sua terapia dell’amore” continua negli anni a seguire con iniziative e progetti benefci fno a pochi giorni fa quando ancora dispensava sorrisi e consigli ai vicini di quartiere in Porta Venezia.
Lui che con quegli angeli vittoriani, logo del brand progettato insieme all’architetto Italo Lupi, ha finito per giocarci davvero.

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DOVE STA ANDANDO IL CINEMA ITALIANO?

Dove sta andando il cinema italiano? Quale futuro si prospetta? Non vuole quest’articolo certo essere un’imbolsita commemorazione della fu commedia all’italiana di Monicelli o del neo realismo di De Sica. Caro lei, quando c’era lui (un cinema italiano fiorente, competitivo, degno di questo nome).

Crogiolarsi nel ricordo del passato è una patologia da cui l’italiano dovrebbe sempre sfuggire, in tutti gli ambiti, ed anzi tanto maggiore fu il lustro, tanto più alta dovrebbe essere l’aspettativa sul futuro. Ora, noi siamo il nostro presente, cioè cinematograficamente parlando, pochino.
Quanto sarebbe accomodante e tristemente appagante la consapevolezza che nel cinema italiano manchi il talento, la preparazione tecnico-teorica, la spinta creativa. Il fatto è che “purtroppo”, siamo pieni di registi talentuosi, visionari direttori della fotografia, sceneggiatori di razza e ottimi tecnici. Quello che manca è la capacità di investire sulla strada meno battuta, osare di realizzare qualcosa che non sia accomodante per il pubblico. Puntare sui giovani talenti, sulle idee originali.

Il pubblico italiano premia il cinema americano e le serie televisive, (divenute a volte giganteschi fenomeni di pop-culture) che sanno osare. E anche quelle italiane, quando sono all’altezza. Il caso di Gomorra – La serie è uno su tutti. Il buon prodotto audiovisivo, ben fatto e ben promosso, è un investimento fruttuoso. In un momento in cui la commedia demenziale è in ribasso, e le feste natalizie non fanno più rima con cinepanettone, c’è bisogno che i produttori italiani colgano il momento storico con intelligenza e prontezza, anche a fronte di una continua erosione del Fondo Unico per lo Spettacolo.

In Inghilterra, per non citare ancora i giustamente superblasonati USA, esiste una struttura industriale cinematografica molto ferrea, una filiera che comincia con le scuole di cinema e confluisce spesso in un lavoro nel settore.



Lo studio della settima arte, che è sempre, bisogna dirlo, scelta coraggiosa e senza sicurezze, non apre le porte ad un baratro di incertezze e rimpianti per gli studi di giurisprudenza snobbati, ma confluisce molto più agilmente che in Italia nella Industry, per dare linfa ad un ventaglio di offerta audiovisiva molto ampia. L’anglofonia è certamente una carta vincente, non c’è dubbio, ma ci pensa il mercato francese a ricordarci che non è l’unica via percorribile per creare una struttura che guarda anche oltre ai confini nostrani.

Ha scritto Don Serafini, direttore di America Oggi, “Si dice che il cinema italiano non si può vendere all’estero. E’ una scusa. Gli americani vendono ghiaccio agli eschimesi non perché sia migliore del loro, ma perché lo sanno presentare. Infatti, il 25% del costo dei film va speso nella promozione. Le industrie italiane della moda, degli alimentari e dell’arredamento affrontano all’estero una concorrenza spietata, eppure riescono a vendere grazie alla loro abilità di marketing”.

Quello che occorre è una presa di coscienza vera di come il mercato si sta evolvendo, di come la richiesta si stia raffinando, di come l’asticella venga posta sempre più in alto. Il fascino della maniera “all’italiana” non è tramontato, e se usato con intelligenza è un’ arma vincente.
Lo sa bene Sorrentino, che vince gli Academy Awards con La Grande Bellezza, non certo il suo miglior lavoro (seppur sicuramente ispirato, a dispetto della critica facilona disfattista che lo ha pesantemente deprezzato); lo sanno bene Salvatores, Garrone, Tornatore. Essere piccoli, provinciali, e insieme universali è possibile. Per il cinema italiano, dovrebbe essere una vocazione.

Si è spento Elio Fiorucci, il padre dello street style

Da domenica non dava sue notizie, facendo allarmare i parenti che solo lunedi 20 luglio, lo hanno ritrovato privo di sensi nella sua casa milanese in viale Vittorio Veneto.

Elio Fiorucci aveva ottant’anni, di cui quasi cinquanta passati a mantenere alto l’orgoglio della moda made in Italy ma soprattutto democratica, perché un capo Elio Fiorucci era alla portata di tutti, con poche pretese ma con tanta personalità. Ancora oggi è il nome d’alta moda che si ricollega ad un filone tutto pop, street, colorato, esageratamente giovane che ha ispirato tantissimi altri designer a venire. Questa filosofia libera dai dettami che le passerelle d’alta moda avevano sempre imposto, si era riflessa anche nelle strutture dei suoi negozi, partendo da quello aperto in Piazza San Babila nel 1967.

Lo stesso Elio Fiorucci aveva raccontato quanto fosse stato un azzardo, ma anche una fortuna: quelle vetrine luminose e sgargianti che avevano portato un tocco british in una Milano ancora troppo seriosa e borghese, avevano dato vita ad una carriera che da nazionale si trasformò in un impero internazionale negli anni ’70, quando furono aperti altri due store a Londra e New York. Quest’ultimo aveva addirittura affascinato un genio artistico quale Andy Warhol, che usò quelle stesse vetrine per sponsorizzare il suo giornale Interview.

Elio Fiorucci aveva iniziato come semplice creatore di una linea di galosce molto colorate – riprese poi anni più tardi, dopodiché erano stati i jeans, i cherubini, gli gnomi e la Love Therapy – per citare alcuni punti saldi della sua carriera, a mandare avanti un nome che ancora oggi fa pensare ad una moda allegra, semplice ma curatissima, adatta ad ogni persona, età e circostanza.

Non solo designer ma anche persona attenta alle questioni più sociali, si era attivato a favore del Parco Canile di Milano, scelta che incentivò poi la volontà di diventare vegetariano a settant’anni come segno di rispetto per gli animali.

Inchiesta su Hacking Team – SECONDA PARTE

Alcuni li ha ben messi in evidenza sul suo blog Matteo Flora, in un articolo del 9 luglio

“In capo a 24/48 ore gli antivirus inizieranno a rilevare RCS/Galileo come Virus e a notificarlo ai soggetti che ne hanno una copia installata…. una volta individuato il trojan avranno la matematica certezza di essere stati attenzionati dalle Forze dell’Ordine e quindi saranno perfettamente in grado di prendere contromisure e di provvedere a proteggersi in modo più efficiente. … qualcuno potrebbe aver avuto accesso alla lista dei bersagli, alla storia delle intercettazioni ed ai documenti intercettati (telefonate, audio, chat, email, messaggi, fotografie…) delle persone sottoposte a controllo da parte degli organi di indagine. … il software era in grado di impiantare contenuti all’interno dei computer degli ignari “bersagli”. Pensate, ad esempio, alla possibilità di inserire contenuti pedopornografici all’interno del computer di un “bersaglio” per poi incriminarlo per detenzione di materiale pedopornografico.”


Un dubbio – quello relativo agli aspetti processuali – che solleva anche Andrea Tornago sul FattoQuotidiano.it

La capacità di Rcs di modificare il contenuto dei computer monitorati potrebbe ora riaprire quei casi. E gettare un’ombra pesante su anni di investigazioni e inchieste giudiziarie. Oltre che sollevare interrogativi sulla necessità da parte di Carabinieri, Polizia e Guardia di finanza di possedere – in modo autonomo rispetto alle Procure – il potente software di intercettazione.

Ma esistono altri problemi, seri, che non sono stati ancora sviscerati.


Quelli della HT avevano delle backdoor che consentivano l’accesso remoto ai telefoni ed ai computer che erano oggetto di spionaggio. Quindi non solo gli investigatori potevano accedere a quelle informazioni e comunicazioni, ma anche quelli della HT.

Non solo. Gli stessi tecnici HT avevano accesso anche ai computer degli investigatori.

Il che sarebbe tutto normale in una condizione in cui ad esempio l’NSA fornisse software all’FBI e il tutto resta “in mano pubblica”, sotto il controllo di corti speciali federali e di due commissioni parlamentari.

Qui invece parliamo di un’azienda privata e di privati cittadini che “per dare assistenza tecnica” ai loro clienti – soggetti pubblici e inquirenti – accede ai loro dati ed alle loro stesse informazioni ed intercettazioni.


Come siano state usate queste informazioni dal 2004 ad oggi non è dato sapere. Il dato certo è che nessuno ha controllato. Peggio ancora, non esiste alcun organo “a monte” previsto e predisposto ad un controllo “a prescindere” su chi e come abbia accesso alle backdoor dei software forniti alle nostre forze dell’ordine e di informazione e sicurezza.


Questa assoluta mancanza di controllo, avallata da tutte le complicità dirette o latenti di alti funzionari delle agenzie di polizia è ancora più grave leggendo la lista dei clienti privati che hanno acquistato software e servizi.

Praticamente tutte le società italiane quotate in borsa, nonché banche, società di una certa “sensibilità strategica” come l’Eni – i cui responsabili della tlc security appaiono a dir poco sprovveduti a leggere il traffico di mail…

Leggere spiato e spiante, e avere accesso alle relative informazioni può determinare qualsiasi cosa e il non sapere come queste informazioni siano state usate lascia quantomeno ombre non meno rilevanti di quando si seppe dello spionaggio interno da parte della security Telecom qualche anno fa.

Che uso è stato fatto delle informazioni contenute nelle mail aziendali con notizie finanziarie riservate? Ad esempio bozze di accordi di appalti, gare, offerte…


Un potere straordinario, sia da detenere che da “mettere a disposizione” del politico o amico di turno. Un potere che letteralmente vale oro. Per spiare e controllare i propri avversari, rivali, colleghi, anche di governo.


Che il settore della sicurezza nazionale sia ad altissima specializzazione lo dimostra tra l’altro il fatto che nonostante si siano alternati in circa dodici anni ben sei governi, sono solo due le persone che si sono alternate nel delicato ruolo di delega e coordinamento dei rapporti tra Presidenza del Consiglio dei Ministri e Servizi Segreti.

Nei due governi Berlusconi si trattava di Gianni Letta. Nei governi Prodi, Monti, Letta e Renzi, si tratta di Domenico Marco Minniti.

Ed è proprio questo alto grado di specializzazione e questa permanenza prolungata non senza passaggi di consegne tra predecessore e successore (nel caso specifico una sorta di staffetta) che fa nascere un’ulteriore ombra su tutta questa vicenda.

Tutte le forze dell’ordine e i servizi di sicurezza usavano questo software e i due sottosegretari delegati, in dodici anni, non sapevano?

E dato che non potevano non sapere, possibile che nessuno abbia mai avuto l’idea di “limitare” la gestione e la gestibilità di questi sistemi di intercettazione?

Passino anche le forze dell’ordine, ma la Presidenza del Consiglio dei Ministri, sino al mese scorso, chi doveva intercettare con “software di intrusione offensiva” (e con quale autorità e sotto quale controllo)? O meglio, chi a spese di Palazzo Chigi spiava chi, e perché?


In sintesi…

Abbiamo dei software di intrusione capaci di introdurre documenti e presunte prove su computer e cellulari di soggetti “attenzionati” nell’ambito di indagini. Ma anche di altri soggetti privati.

Questo software è nella disponibilità delle forze dell’ordine, di intelligence ma anche di grandi aziende private. E viene usato non si sa da chi e a quale titolo e scopo in quasi tutti i ministeri e nella Presidenza del Consiglio dei Ministri.

In quasi dodici anni si consente che un’azienda privata disponga di backdoor nei computer di ogni agenzia di indagine e informazione di questo paese, nonché di ministri e ministeri.

Nessuno – ma proprio nessuno – si preoccupa di controllare, verificare, limitare, vietare, impedire questo tipo di accesso a quelle che dovrebbero essere le informazioni più delicate e riservate.

Esiste una precisa connivenza di interesse del tutto privato – a quanto emerge da molta parte della corrispondenza resa pubblica – tra alti ufficiali di ogni agenzia e forza armata e questa azienda fornitrice. Un interesse che esula da questioni istituzionali o di indagine e che mette di fatto in condizione pochi ufficiali di controllare chiunque e di avere accesso a qualsiasi informazione cellulare e disponibile su pc.

Abbiamo “legislatori” che si preoccupano di entrare in contatto con questa azienda e di favorire “nella scrittura delle leggi e dei decreti… l’inserimento di precise caratteristiche…” che favoriscano ulteriore vendita e diffusione di questo software.

Pur di averlo e poterlo usare, chiunque aveva un compito esattamente opposto, ha chiuso tutti e due gli occhi quando questi strumenti venivano venduti a governi dittatoriali e “ostili” al nostri paese.

Infine ci viene detto che questo software sarebbe “essenziale alla lotta al terrorismo jihadista”, mentre sappiamo – perché esistono studi e documenti in proposito – che la comunicazione (ad esempio dell’ISIS e quaidista) utilizza sistemi e strumenti volutamente meno evoluti, proprio per evitare l’intercettazione tramite geolocalizzazione o backdoor presenti sui software più recenti.


Anche questo sarà un muro di gomma che difficilmente verrà squarciato.

Sono troppi gli utenti di questi software che hanno interesse a che non si scavi troppo in questa vicenda. Così come sono troppe le persone di alto livello implicate in questa storia.

Che non è fatta di alto spionaggio nazionale, ma di piccoli interessi privati a conoscere fatti privati di qualcun altro. Per tutelarsi, per fare carriera, per battere un avversario politico.

Le gradi aziende che ne sono state vittima spesso lo utilizzavano a loro volta, e nessuno ha interesse a che si conosca sia la vulnerabilità propria sia il proprio utilizzo.

Lo spiato non ha interesse a divulgare la notizia, esattamente come chi lo ha spiato illegalmente.

Nessuno nelle forze dell’ordine e della magistratura ha interesse a che emergano le enormi falle nella sicurezza e la fragilità delle indagini sin qui condotte con questi strumenti.

AltaRoma 2015: al via il progetto sperimentale “5+5” firmato da AltaRoma e Vogue Talent

AltaRoma e Vogue Talents firmano il progetto sperimentale “5+5”, 5 designer affermati per 5 designer emergenti

Sono 5 i designer emergenti  affiancati da 5 affermati che hanno pienamente sposato e sostenuto il progetto presentato in occasione di AltaRoma 2015.

L’obiettivo del progetto (sperimentale) è dare spazio al talento, una vetrina (nata in collaborazione tra AltaRoma e Vogue Talents) a metà tra mostra statica e atelier che vede protagonisti le nuove leve della moda internazionale: Carlo Volpi, Maria Sole Cecchi, Fernando Jorge, Martine Rose, Matteo Lamandini.

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I talentuosi sono stati affiancati da: Thomas Tait, Marco De Vincenzo, Nicholas Kirkwood, MSGM Massimo Giorgetti e Paul Andrew.
Marco De Vincenzo (vincitore nel 2009 del contest “Who Is On Next”?) sostiene la creatività di Carlo Volpi, MSGM (Massimo Giorgetti) sostiene Matteo Lamandini (vincitore dell’edizione 2014 del concorso Designer for Tomorrow) giovane designer talentuoso.

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Thomas Tait ha invece sostenuto lo stile underground e giovanile della londinese Martine Rose (designer già conosciuta all’estero).
L’esposizione è durata tre giorni e l’iniziativa ha avuto un notevole successo.

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