Ci sono icone il cui fascino resta indelebilmente scolpito nell’immaginario collettivo di intere generazioni. Modella, attrice, icona di stile, socialite e attivista politica, Bianca Jagger è riuscita come poche a sfatare il vecchio ma sempreverde tabù che guarda con sospetto al connubio di bellezza e intelligenza.
Sopravvissuta brillantemente agli eccessi della New York anni Settanta, la sua bellezza da copertina ha ammaliato fotografi del calibro di Cecil Beaton, Richard Avedon, Patrick Lichfield, solo per citarne alcuni; ma spenti i riflettori sul suo matrimonio celebre con il divo per antonomasia, Mick Jagger, anche dopo essere uscita da anni dalle luci della ribalta, la ritroviamo, senza un briciolo di botox, ancora bella alla veneranda età di 71 anni, in prima linea nella lotta per i diritti umani.
All’anagrafe Bianca Pérez-Mora Macias, la futura icona di stile nasce a Managua, Nicaragua, il 2 maggio 1945. Suo padre era un mercante e la madre una casalinga. I due divorziarono quando Bianca aveva dieci anni e lei e i suoi due fratelli vennero affidati alla madre. Non ancora ventenne, la giovane Bianca ottenne una borsa di studio per andare a Parigi, dove frequentò con profitto il prestigioso Istituto di studi politici di Parigi, conosciuto come Sciences Po. Erano gli anni della Beat Generation e della contestazione giovanile; anni impegnati, anni divisi tra lotte studentesche e vita notturna. Influenzata da Gandhi e dalla filosofia orientale, Bianca si recò diverse volte in India.
Nel settembre 1970 l’incontro della vita: a Parigi, ad un party dopo un concerto dei Rolling Stones, Bianca incontra Mick Jagger. Lei, procace bellezza esotica, sembrava fatta apposta per lui, strampalato e ribelle. Opposti eppure complementari, come accade spesso in amore: e fu certamente amore a prima vista per i due, che convolarono a nozze il 12 maggio 1971 a Saint-Tropez, con rito cattolico. Un matrimonio entrato nella storia: incinta di quattro mesi, il décolleté sembrava sul punto di esploderle sotto al tailleur maschile bianco disegnato per lei da monsieur Yves Saint Laurent. Le foto iconiche degli sposi che lasciano la chiesa a bordo della macchina sono entrate nella storia. Lui, alticcio, perso nei fumi della sua fama, e lei, compagna fidata e fedele, sempre pronta a riportarlo a terra con il suo amore. La loro unica figlia, Jade, nacque a Parigi il 21 ottobre 1971.
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Bianca Jagger a Monaco, 1980 circa
Foto di Andy Warhol, 1981
Bianca in Yves Saint Laurent, 1978
In Halston, foto di Roy Galella, 1980
Foto del 1974
Foto di Ron Galella, 1979
Foto di Francesco Scavullo
Bianca Jagger e Mick Jagger, foto di Peter Beard, 1972
Foto di Michael Putland, 1974
Bianca Jagger in uno scatto di Mike Lawn, 1972
ARCHIVES – BIANCA JAGGER ET DAVID BOWIE SORTANT D’ UNE SOIREE A PARIS
[NEW YORK CITY – DECEMBER 6: Bianca Jagger and designer Halston attend The Metropolitan Museum Of Art Costume Exhibition of “The Glory Of Russion Costume” on December 6, 1976 at the Metropolitan Museum of Art in New York City. (Photo by Ron Galella, Ltd./Wireimage)] *** []
Bianca in Zandra Rhodes, Sunday Times, 1972
Bianca Jagger, 1989, foto di David Macgough
Foto di Rose Hartman, 1978
Bianca Jagger, foto di Cecil Beaton, 1978
Bianca Jagger, foto di Norman Parkinson
Lee Radziwill, Mick e Bianca Jagger ritratti da Peter Berard a Montauk, 1972
1970
Björn Borg e Bianca Jagger allo Studio 54, 1978
Bianca in una foto di Richard Corkery, Studio 54, 1977
Bianca Jagger, foto di François Lamy per Vogue, 1980
Bianca in una foto di Annie Leibovitz, 1975
Bianca Jagger, foto di David Bailey, Vogue 1974
Bianca e Nathalie Delon, New York, 1974
Bianca allo Studio 54, 1977
Bianca e Mick Jagger, foto di Patrick Lichfield, 1976
Foto di Andy Warhol, 1980
Foto di Cecil Beaton, 1978
Bianca Jagger per Interview, numero di Andy Warhol, foto di Francesco Scavullo, 1973
Bianca Jagger al Bardney Pop Festival, 1972, foto di Leslie Lee
Bianca Jagger in Halston, 1979
Bianca Jagger in Ossie Clark, 1972
Bianca Jagger a Long Island, foto di Harry Benson, 1977
Bianca e Mick Jagger allo Studio Pilar, 1975
Bianca Jagger in una foto di Ron Galella, 1977
Foto di Ron Galella, 1978
Bianca Jagger in una foto di Ron Galella, 1983
Bianca Jagger nel front-row di una sfilata, 1971
Bianca Jagger al tour dei Rolling Stones, 1975
Mich e Bianca Jagger a Saint-Tropez, 1971
Foto di Warhol, 1975
La socialite in una polaroid di Andy Warhol, 1978
Bianca e Mick Jagger, foto di Ron Galella, 1974
Bianca Jagger per il Telegraph, foto di Pat Booth, 1979
Una foto di Bianca Jagger
Bianca Jagger in Zandra Rhodes, Sunda Times, 1972
Bianca Jagger, foto di Francesco Scavullo, 1976
Il matrimonio tenne banco su tutti i tabloid: Bianca e Mick erano la coppia più paparazzata, protagonisti indiscussi del jet set internazionale. Ma le nozze durarono solo otto anni. Nel maggio 1978 arrivò inesorabile il divorzio: Bianca, personalità e grinta da vendere, non poteva certo accettare lo scotto del tradimento di Mick, che ormai faceva quasi coppia fissa con la modella Jerry Hall, biondissima e algida, così diversa da lei. Bianca ricorderà il matrimonio dicendo che si concluse lo stesso giorno in cui venne celebrato.
Intanto lei era entrata di diritto nell’Olimpo dello stile: nessuna riusciva ad unire la sua naturale carica erotica, potenzialmente esplosiva, impressa nel DNA sudamericano, ad una sofisticata eleganza di stampo europeo. Pelle ambrata, labbra carnose e occhi profondi, la vediamo fare un ingresso trionfale allo Studio 54 -di cui era presenza fissa- in sella ad un cavallo bianco, nel giorno del suo compleanno, o in una delle innumerevoli uscite ufficiali al fianco di Mick: belli e dannati, ma anche iconici nel loro stile inimitabile. Musa di designer del calibro di Halston e Yves Saint Laurent, trendsetter ante litteram, il suo era uno stile tipicamente Seventies: tra turbanti e dettagli glam, dai lunghi abiti costellati da profondi drappeggi e scollature mozzafiato, fino all’iconico tuxedo maschile, che non ne offuscava mai la linea sinuosa. Presenza fissa della International Best Dressed List, il suo stile è entrato nella storia del costume, divenendo emblema degli anni Settanta.
Bianca Jagger è stata fotografata dai più grandi, dall’intimo amico Andy Warhol a Cecil Beaton, da Francesco Scavullo a Patrick Demarchelier. Innumerevoli le cover, a partire da Vogue UK del 1974. Inoltre prese parte anche a diverse pellicole come attrice.
Non solo mondanità ma anche impegno sociale per la bella Bianca. Dopo aver cominciato, ancora giovanissima, ad interessarsi di cause sociali e di diritti umani, si espresse più volte su temi come il genocidio, la guerra in Iraq, i crimini contro l’umanità e i cambiamenti climatici. Inoltre si schierò apertamente a favore dei diritti delle donne e contro la pena di morte. Nel 1972, dopo il terremoto che distrusse il Nicaragua, organizzò il primo concerto a scopo benefico della storia. Dopo aver istituito la Bianca Jagger Human Rights Foundation, di cui è a capo, dal 2003 è ambasciatrice del Consiglio d’Europa e membro del consiglio esecutivo di Amnesty International. Tra le maggiori attiviste politiche, vanta collaborazioni con diverse organizzazioni umanitarie, tra cui Human Rights Watch. Nonna felice di Assisi Lola (nata nel 1992) e Amba Isis (nata nel 1996), nel 2014 è diventata bisnonna.
Nasceva oggi Jane Mansfield, conturbante attrice hollywoodiana, simbolo di un’epoca e storica rivale di Marilyn Monroe. Curve da capogiro e capelli biondo platino, l’attrice è stata a lungo considerata un sex symbol. Autentica bombshell, sublime incarnazione della bellezza anni Cinquanta, si fece strada dalle pagine di Playboy fino alla celebrità.
All’anagrafe Vera Jayne Palmer, nacque a Bryn Mawr il 19 aprile 1933. Figlia unica di Herbert William Palmer e Vera Jeffrey, i suoi antenati erano immigrati dall’Inghilterra, mentre dal ramo paterno aveva origini tedesche. Il padre, avvocato, muore a causa di un infarto quando la piccola ha appena tre anni. Dopo la sua morte, è la madre a dover provvedere alla famiglia, iniziando a lavorare come maestra, fino al secondo matrimonio con Harry Lawrence Peers e al trasferimento dal New Jersey al Texas. Jayne a sette anni suona il violino e si esibisce per strada per raccimolare qualcosa. Ben presto sorge in lei il sogno di divenire un’attrice.
Nel 1950, ad appena 16 anni, convola a nozze con Paul Mansfield e mette alla luce la sua prima figlia, Jayne Marie Mansfield, nata l’8 novembre 1950. Dopo il trasferimento ad Austin Jayne studia con successo teatro e fisica all’Università del Texas. A Dallas avviene l’incontro che la introduce nel mondo del cinema, con Baruch Lumet, padre del regista Sidney Lumet, di cui Jayne segue le lezioni al Dallas Institute of the Performing Arts, da lui fondata. La prima apparizione sul palcoscenico è del 22 ottobre 1953, nella piece Morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller.
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Sempre in Texas Jayne diviene una reginetta dei concorsi di bellezza. Ma la grande avvenenza fisica ne ha a lungo oscurato la personalità. Pochi sanno che la bionda esplosiva -dal titolo di uno dei suoi film- vantava un quoziente intellettivo superiore al genio della fisica Albert Einstein (162 contro 160); inoltre l’attrice parlava correttamente cinque lingue e suonava il violino e il pianoforte. Nel 1954 l’attrice si trasferisce col marito e la figlia a Los Angeles; qui studiò teatro all’Università della California. La sua carriera cinematografica iniziò nel modo più inaspettato: venne infatti scritturata dalla 20th Century Fox come sostituta di Marilyn. Female Jungle (1954) è una delle pellicole iniziali girate dalla Mansfield, che diviene playmate del mese sulla rivista Playboy nel febbraio 1955. L’anno seguente venne premiata col Theatre World Award per la sua interpretazione nella commedia di George Axelrod Will Success Spoil Rock Hunter?
La prorompente bellezza di Jayne Mansfield continuava ad oscurarne la capacità interpretativa e ben presto l’attrice si ritrovò a fare i conti con l’immagine di oca giuliva che il pubblico le aveva ormai cucito addosso: quasi paradossale, per una donna tanto intelligente, dover sottostare a questo cliché. Ma la grandezza spesso sottovalutata della bellissima Mansfield sta anche nell’essere riuscita nell’ingrato compito di gestire la fama e l’immagine che i media le avevano appioppato sfruttandola a suo favore: ben presto Jayne inizia a rendersi protagonista di piccoli incidenti che ne sottolineano la procace bellezza. Celebre è lo scatto che la ritrae accanto a Sophia Loren in una cena in onore di quest’ultima, nel 1957. Qui Jayne perde una spallina, e l’incidente entra nel mito. Ma non tutti apprezzarono questi atteggiamenti, a partire da Richard Blackwell, che curava il suo guardaroba, che la eliminò dalla sua clientela.
Vanitosa e sopra le righe, l’attrice non era una patita del less is more: famoso è il suo Palazzo Rosa, l’enorme villa di quaranta stanze che l’attrice acquistò nel 1957 sul Sunset Boulevard, a Beverly Hills. L’arredamento prevedeva rosa all over, una vasca da bagno a forma di cuore e piccoli Cupido alle pareti. Nel 1959 il secondo matrimonio con il culturista Mickey Hargitay. Sebbene furono costantemente messe a confronto, Jayne Mansfield fu molto più sfortunata della rivale Monroe. E neanche dopo la morte di quest’ultima, avvenuta nel 1962, riuscì a prenderne il posto. Nel 1964 convolò in terze nozze con Matt Cimber, dal quale ebbe Antonio Raphael Ottaviano. Inoltre lungo è il carnet di amanti che le vennero attribuiti, da Robert Kennedy a Tony Curtis, da Dean Martin a Burt Reynolds. I rumours non perdevano occasione di descriverne l’insaziabile appetito sessuale. Nonostante alcune pellicole importanti, Jayne Mansfield non riuscì mai ad affermarsi a Hollywood e finì per comparire in melodrammi indipendenti a basso costo e commedie, fino alla parabola discendente, che la vide protagonista di esibizioni nei nightclub.
“The one and only” furono le ultime parole pronunciate dalla procace attrice a Biloxi, New Orleans, poche ore prima della sua terribile fine. Lei, che aveva sognato Hollywood sfiorandone il bagliore, ora per vivere doveva accontentarsi di squallide esibizioni nei locali notturni. Ancora una volta quel suo fisico statuario si rivelava croce e delizia per una donna consapevole e colta; dopo aver rinunciato ad una carriera cinematografica, quel corpo burroso era l’unico strumento che le restava per mantenersi. Lei, che aveva combattuto una vita intera contro il cliché di donna oggetto, si ritrovava ancora una volta ad ammettere che il fisico non l’avrebbe mai tradita, anche a costo di vedersi osservata con lascivia da decine di uomini. Dopo la separazione dal terzo marito iniziò a frequentare Sam Brody, l’avvocato che seguiva la sua pratica di divorzio. Quella sera era in compagnia di quest’ultimo. Nella Buick Electra del 1966 presa a noleggio viaggiavano l’autista appena ventenne, Ronnie Harrison, l’attrice, con i tre figli Miklos, Zoltan e Mariska, i due inseparabili chihuahua Popeicle e Monaicle e l’avvocato Brody. All’una e un quarto della notte il tragico scontro che vide come unici superstiti i tre ragazzi, che dormivano nel sedile posteriore. L’auto ridotta ad un ammasso di lamiere e l’orrore che dilaniò il corpo della diva, la cui testa venne sbalzata fuori strappandone i capelli, che restavano sull’asfalto, quasi come una macabra parrucca. Bella fino alla fine. Una tragica processione di voyers accompagnò la diva anche nei momenti successivi alla sua prematura scomparsa. I funerali si svolsero il 3 luglio 1967 a Pen Argyl, Pennsylvania. Sulla sua tomba un epitaffio che recita “Viviamo per amarti ogni giorno di più”.
Jane Mansfield, coi suoi abiti animalier, le sue curve e la sua bellezza, ha continuato ad ispirare intere generazioni: incredibile la somiglianza della diva hollywoodiana con Anne Nicole Smith, altrettanto sfortunata, mentre una celebre campagna di Guess Jeans ne ha omaggiato solo pochi anni fa lo stile, con una giunonica Kate Upton nei panni di Jayne Mansfield.
Lunghi capelli castani, quell’aria acqua e sapone e una bellezza naturale, oggi divenuta un miraggio: Ali MacGraw nell’immaginario collettivo resterà sempre indissolubilmente legata a Love Story, la pellicola strappalacrime che le diede la fama mondiale. Nel celebre film diretto da Arthur Hiller, uscito nel Natale del 1970, la bella Ali interpreta una ragazza gravemente malata. Impossibile dimenticare la coppia cinematografica formata da lei e Ryan O’Neal, in una tormentata storia d’amore osteggiata a causa delle differenze sociali e priva del fatidico lieto fine.
All’anagrafe Elizabeth Alice MacGraw, detta Ali, la bella attrice americana è nata a Pound Ridge, New York, il primo aprile del 1939. Sua madre Frances Klein era un’esperta d’arte di origine ebrea, mentre il padre Richard MacGraw aveva origini scozzesi. Da parte di nonna la ragazza vanta inoltre origini ungheresi. Ali ha un fratello, Dick, artista. Dopo aver conseguito il diploma in storia dell’arte presso il Wellesley College, all’inizio degli anni Sessanta la giovane entra nella redazione della celebre rivista Harper’s Bazaar, dove diviene assistente di un celebre fotografo di moda, sotto la supervisione della mitica fashion editor Diana Vreeland.
Viso pulito e lunghi capelli lisci, in breve le viene chiesto di posare e inizia così a lavorare come modella. Immortalata da fotografi del calibro di Bert Stern e Patrick Lichfield, Ali MacGraw posa per Vogue e lavora anche come stylist e decoratrice d’interni. Dopo aver preso parte a diversi spot pubblicitari, l’esordio sul grande schermo, che risale al 1968, con la pellicola Jim l’irresistibile detective. Seguì il ruolo da protagonista, nella commedia romantica La ragazza di Tony, nel 1969. L’anno seguente è la svolta nella sua carriera, con Love Story. L’interpretazione della studentessa universitaria gravemente malata le vale una nomination all’Oscar e un Golden Globe. Per Ali MacGraw è la consacrazione: ottiene la fama mondiale e le copertine, a partire dal Time.
Bellezza acqua e sapone, l’attrice incarna alla perfezione lo stile boho-chic tipico degli anni Settanta, imponendosi come un’icona di stile, sebbene nel 1971 il critico di moda Richard Blackwell la include nella lista da lui stilata delle donne peggio vestite al mondo. Il suo taglio di capelli, con la riga in mezzo, le sopracciglia folte e lo charme la consacrano come un’icona, come anche i look bohémien che la diva non perde occasione di sfoggiare.
La sua vita sentimentale è stata turbolenta: dopo il college sposò il banchiere Harvard Robin Hoen, da cui divorziò dopo appena un anno e mezzo. Il 24 ottobre 1969 l’attrice convolò a nozze con il produttore cinematografico Robert Evans, capo della Paramount Pictures, da cui ebbe un figlio, Josh, divenuto attore, regista, produttore e sceneggiatore; la coppia divorziò nel 1972, dopo che l’attrice perse la testa per il collega Steve McQueen, conosciuto sul set di Getaway. Il 31 agosto 1973 Ali MacGraw convolò a nozze con McQueen, che è stato il più grande amore della sua vita. Tuttavia anche questo matrimonio naufragò e i due divorziarono nel 1978.
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Film star Ali MacGraw models an outfit of long skirt and cropped blouse by British designer Ossie Clark. (Photo by Harry Dempster/Getty Images)
Nella sua autobiografia Moving Pictures l’attrice ha parlato apertamente della sua battaglia contro l’alcol e della sua dipendenza da sesso. Nel 1978 ha girato Convoy-Trincea d’asfalto, a cui seguirono negli anni Ottanta dei ruoli nelle serie televisive Venti di guerra e Dynasty.
Nel 1991 fu inclusa dalla rivista People tra le 50 persone più belle del mondo, mentre nel 2008 GQ la annoverava tra le 25 donne dei film più sexy della storia. Amante dello yoga, l’attrice ha anche prodotto un video con il maestro americano Erich Schiffmann, divenuto un vero bestseller, al punto che nel giugno 2007 la rivista Vanity Fair designava l’attrice come principale responsabile della nuova ondata di popolarità che la pratica dello yoga aveva visto negli Stati Uniti dopo l’uscita di quel video. Nel luglio 2006 l’attrice ha girato un video in collaborazione con PETA, divenendo attivista del rispetto degli animali. Dal 1994 vive a Tesque, Nuovo Messico, dopo diversi anni trascorsi a Malibu.
Due occhi da cerbiatto verde smeraldo, la pelle ambrata, l’ovale perfetto; una bellezza naturale, ritratta acqua e sapone su spiagge assolate o nel sole di location esotiche, capace di trasformarsi un attimo dopo in una diva dall’allure sofisticata, tra abiti haute couture e party esclusivi: Marisa Berenson è stata una delle modelle più pagate al mondo e ha alle spalle una lunga e prolifica carriera cinematografica, in cui spiccano i film di Visconti e Kubrick.
Definita da Yves Saint Laurent “the girl of the Seventies”, Marisa Berenson ha incarnato la quintessenza del glamour a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta. Presenza fissa dell’International Best Dressed List, impossibile dimenticare le foto di Slim Aarons che la immortalano a Capri in turbante anni Venti, bella e carismatica, o con i suoi celebri look boho-chic, ritratta dall’amico di una vita, Andy Warhol. Non solo attrice e modella, ma anche icona di stile e protagonista assoluta del jet set internazionale e delle riviste patinate, testimone di una New York fatta di glamour ed eccessi.
Nata a New York il 15 febbraio 1947, Marisa Berenson discende da una famiglia blasonata: il padre è Robert Lawrence Berenson, diplomatico americano di origini ebraiche e lituane, che si era distinto per aver diretto i cantieri navali di Onassis, e che sotto la presidenza Kennedy divenne ministro per i paesi in via di sviluppo. Berenson era nipote del grande esperto d’arte Bernard Berenson, bisnonno di Marisa. Il cognome originario della famiglia era Valvrojenski. La madre di Marisa è la contessa Maria Luisa Yvonne Radha de Wendt de Kerlor, meglio conosciuta come Gogo Schiaparelli, socialite di origini italiane, svizzere, francesi, polacche ed egiziane, figlia della celebre stilista Elsa Schiaparelli, storica rivale di Chanel.
Se tua nonna si chiamava Elsa Schiaparelli lo stile non può che far parte del tuo DNA. È così che la piccola Marisa finisce sulla cover di Vogue America che è ancora in fasce, mentre ad appena cinque anni viene immortalata sulla cover di Elle, insieme alla sorella Berry. Tanti sono gli aneddoti raccontati dall’icona di stile in cui viene fuori un ritratto di Elsa Schiaparelli, da lei affettuosamente chiamata “nonna Schiap”: dai viaggi insieme a Venezia alle amicizie negli ambienti della Parigi intellettuale, dove la piccola Marisa conobbe Salvador Dalí e Alberto Giacometti.
Ma non finisce qui: il nonno di Marisa è il conte Wilhelm de Wendt de Kerlor, teosofo e medium, mentre il bisnonno era Giovanni Schiaparelli, astronomo scopritore dei canali di Marte. La sorella minore di Marisa, Berinthia Berenson, detta Berry, diventerà anche lei modella, attrice e fotografa, e morirà nei tragici attentati dell’11 settembre 2001 al World Trade Center.
Nonostante le prime cover risalgano alla sua infanzia, la lunga e prolifica carriera di modella di Marisa Berenson inizia ufficialmente nei primi anni Sessanta. È Diana Vreeland, celebre fashion editor di Harper’s Bazaar e direttrice di Vogue America, ad intuire per prima l’impressionante fotogenia di quel volto. Venerata da fotografi e stilisti, Marisa Berenson posa per i più grandi, da Richard Avedon a Patrick Lichfield, da Irving Penn a Bert Stern fino a Robert Mapplethorpe e Henry Clarke, che la immortala in foto dal fascino esotico, esaltandone lo spirito gipsy e il carisma. In pochissimo tempo Marisa Berenson ottiene fama internazionale e diviene la modella più pagata al mondo, come lei stessa dichiara in un’intervista al New York Times. Il suo fisico incarna perfettamente gli anni Sessanta: è un’epoca ricca di ribellione. “Noi modelle ci truccavamo da sole. Giravo con un borsone enorme pieno di toupet e cianfrusaglie”, ricorderà più avanti la modella. La consacrazione avviene nel luglio del 1970, quando ottiene la cover di Vogue, e nel dicembre 1975, quando è sulla copertina del Time.
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Marisa Berenson in un caftano Tina Leser. Foto di Henry Clarke Condé Nast Archive/Corbis, 1967
Marisa Berenson ritratta da Bert Stern, Vogue, marzo 1970
Su Vogue, 15 settembre 1966, foto di Bert Stern
Vogue America, dicembre 1969, foto di Irving Penn
Borse Pucci, Vogue 1965, foto di Bert Stern
Marisa Berenson in uno scatto di Slim Aarons, 1968
Gennaio 1968, foto di Gianni Penati
In Sardegna per Vogue 1967, foto di Henry Clarke
Foto di Bert Stern, 1966
Su Vogue in un caftano laminato Chanel, 1 gennaio 1969, foto di Gianni Penati
Marisa Berenson in André Courrèges, foto di Andre Carrara, 1967
In Bill Blass, gennaio 1966, foto Bert Stern
Foto di Henry Clarke, Condé Nast Archive/Corbis, 1969
Marisa Berenson in Giorgio di Sant’Angelo, Vogue 1967, foto di Bert Stern
Ritratta da Patrick Lichfield, 13 giugno 1964, foto Getty Images
In Emilio Pucci, Sardegna, 1970, foto Nello di Salvo
Foto di Bert Stern
Foto di Arnaud de Rosnay, 1968
In Dior Haute Couture, Vogue UK Archive, foto David Bailey, 1965
Marisa Berenson in giacca Halston e cintura Elsa Peretti, foto di Hiro, Harper’s Bazaar, maggio 1972
Marisa Berenson nel 1972, foto di Jeanloup Sieff
Vogue 1967, foto di Gianni Penati
Marisa Berenson per Vogue America, Settembre 1967, abito Yves Saint Laurent e scarpe Roger Vivier, foto di Irving Penn
Vogue America, 15 settembre 1967, foto di Arnaud de Rosnay
Con Benedetta Barzini nell’appartamento romano di Cy Wombly, abito Valentino, foto di Henry Clarke, Condé Nast Archive/Corbis, 1968
Vogue aprile 1970, foto di Irving Penn
Foto di Richard Avedon, gennaio 1966
Ritratta da Cecil Beaton per Vogue, 1966
Marisa Berenson su W Magazine
Foto di Gian Paolo Barbieri, Vogue 1 aprile 1969
In Sardegna, foto di Henry Clarke, 1967
Ancora in Sardegna, abito Emilio Pucci, foto Henry Clarke
Foto di Henry Clarke
Marisa Berenson in Chanel, foto di Arnaud de Rosnay, 1969
In Valentino, foto di Henry Clarke per Vogue, 1968, Condé Nast Archive
In Jack Sarnoff, foto di Gianni Penati, 1968
Foto di Gianni Penati, 1968
In seguito la modella si avvicina alla recitazione. A lanciarla nel cinema non è uno qualsiasi ma Luchino Visconti, che la vuole nel suo Morte a Venezia, nel 1971, dove Marisa interpreta il ruolo della moglie di Gustav von Aschenbach. L’anno successivo recita in Cabaret, nel ruolo di Natalia Landauer, interpretazione che le vale una nomination ai BAFTA e due nomination ai Golden Globe. Impossibile dimenticare la sua interpretazione di Lady Lyndon nel celebre film Barry Lyndon, del 1975. Tra crinoline settecentesche ed estenuanti ore di trucco, è la consacrazione come attrice. Per incoraggiarla, il regista della pellicola, Stanley Kubrick, le dice: “Nessuno, in tutta la tua vita, ti raffigurerà così bella”.
Negli anni Settanta la Berenson diviene famosa grazie ad un nuovo soprannome: “The Queen of the Scene”. Un po’ come il prezzemolo, la Berenson è ovunque, sempre nel posto giusto e al momento giusto, regina della vita notturna e dei nightclub, onnipresente in ogni occasione mondana, seguita da uno stuolo di corteggiatori. Ma non ci sono solo lustrini e paillettes nella sua vita: dietro agli abiti da sera e alle ciglia finte c’è una profonda introspezione. La meditazione cambia la sua vita, come lei stessa dichiara. Si avvicina alla spiritualità nel 1968, quando i viaggi in India divennero l’ultimo fashion trend per celebrities annoiate: dai Beatles a Mia Farrow fino ai Beach Boys, il viaggio in India era l’ultima moda dei protagonisti del jet set. E Marisa Berenson non poteva certo mancare. Di quel viaggio alle pendici dell’Himalaya la diva ricorderà la sua amicizia con George Harrison e Ringo Starr, con i quali trascorreva le giornate in meditazione e le notti seduti per terra a suonare la chitarra.
La vita privata di Marisa Berenson è ricca di liaison e corteggiamenti da film: nei primi anni Settanta fu la compagna del barone David René de Rothschild. Celebre la sua relazione con il collega, il bellissimo ed efebico attore Helmut Berger. Lei ed Helmut sono la coppia ideale: bellissimi e fotogenici. Luchino Visconti li incitava a sposarsi, come lei stessa racconta nell’autobiografia Momenti intimi, pubblicata nel 2010 da Barbès editore.
Il suo primo marito fu James Randall, detto Jim, sposato a Beverly Hills nel 1976, da cui divorziò due anni più tardi. Il matrimonio fu regale, l’abito era firmato Valentino e lo stesso stilista si aggirava per casa per dare gli ultimi colpi di ferro da stiro al vestito mentre l’altro inseparabile amico Andy Warhol era intento a fotografare i preparativi delle nozze. Dal matrimonio nel 1977 nacque una figlia, Starlite Melody Randall. Il secondo matrimonio nasconde retroscena dal sapore cinematografico: se in genere le donne ricevono rose rosse, Marisa Berenson ricevette dall’avvocato Aaron Richard Golub due immensi camion per traslocare da Los Angeles a New York, dove lui abitava. Il matrimonio tra i due venne celebrato nel 1982, mentre nel 1987 i due divorziarono.
A New York Marisa Berenson diviene musa ed intima amica di Andy Warhol e Truman Capote, collega di Liza Minelli, con la quale recita in Cabaret, cognata di Anthony Perkins, che sposa sua sorella Berry. Dopo un breve periodo lontano dai riflettori, riprende a recitare: la ritroviamo nell’indimenticabile spaccato di vita mondana Via Montenapoleone, ma anche in pellicole impegnate, diretta da maestri del calibro di Clint Eastwood. Nel 2001 il debutto a Broadway, mentre tra i suoi ultimi film spicca Io sono l’amore, di Luca Guadagnino, e Matrimoni e altri disastri.
La sua vita ha visto anche momenti molto difficili, come l’incidente automobilistico avvenuto in Brasile in cui la diva è rimasta coinvolta, che le ha sfregiato la parte sinistra del viso. Ma quello che poteva essere un dramma irreparabile, per Marisa Berenson, ha visto invece un lieto fine: l’ex top model è stata infatti una peziente di Ivo Pitanguy, pioniere della chirurgia estetica, che le ha ridato la bellezza. Un’altra tragedia invece ha scosso la sua vita, stavolta senza il lieto fine: l’amata sorella Berry ha perso la vita l’11 settembre 2001, a bordo dell’aereo che da Boston si è schiantato contro la Torre Nord. Lei stessa invece si trovava in volo da Parigi a New York. Una perdita che l’ha aiutata a riscoprire la fede, come raccontato dalla stessa Berenson nella sua autobiografia. Un anello appartenuto a Berry verrà ritrovato a Ground Zero un anno dopo la tragedia.
(Foto cover Irving Penn per Vogue, settembre 1967)
Occhi da gatta, labbra carnose, gambe lunghissime e curve da capogiro: Madalina Diana Ghenea, valletta di Sanremo 2016 accanto a Carlo Conti, Virginia Raffaele e Gabriel Garko, è una bellezza rara.
Ma chi è questa valchiria dallo sguardo dolce e dal collo da cigno? Un passato da modella e poi l’esordio al cinema, con Youth di Paolo Sorrentino, che forgia a sua immagine e somiglianza un personaggio poetico: Madalina nasce l’8 agosto 1988 a Slativa, in Romania. La vita in quel contesto economico non è delle più facili: è lei stessa a raccontare sul palco dell’Ariston che quando era bambina a casa sua si seguiva Sanremo tutti ammassati davanti all’unico televisore, per non svegliare il papà che tornava stanco dal lavoro.
La piccola Madalina sogna un futuro come étoile ma la sua altezza svettante non le permette di realizzare il suo sogno. Naturalmente elegante, la figura leggiadra cede il posto a curve mozzafiato e ad un sorriso sensuale: è la moda ad offrire a Madalina una strada. È così che la giovane arriva a Milano appena quindicenne, con una grande valigia piena di sogni e speranze per un futuro migliore. L’avvenenza sarà per lei biglietto di sola andata verso la celebrità. Come modella sfila per Gattinoni e poi ottiene numerosi contratti come testimonial.
Nel 2011 partecipa al programma di punta della Rai Ballando con le stelle, dove danza sinuosa incantando il pubblico.
Successivamente avviene l’esordio al cinema: è Paolo Sorrentino a volerla in Youth, un film che vanta un cast internazionale, da Jane Fonda a Michael Caine. Dopo il successo de La Grande Bellezza, il regista romano resta colpito dalla bellezza della giovane e le affida il ruolo di una Miss Universo poetica, quasi struggente, che incarna la giovinezza che dà il titolo al film.
Ma Madalina Ghenea non punta solo sulla bellezza fisica: con una passione per la filosofia e quattro lingue parlate, la ragazza è una cittadina del mondo con un bagaglio culturale che poche sue colleghe possono vantare.
Intanto il gossip la insegue: la bella Madalina colleziona relazioni con attori del calibro di Gerard Butler, con cui fa coppia fissa per un anno, e successivamente con Michael Fassbender.
La ritroviamo ora sul palco dell’Ariston, dove si rivela grande padrona di casa dall’alto del suo metro e ottanta e di un italiano perfetto. Umile nonostante il successo ottenuto, Madalina Diana Ghenea piace anche anche per questo.
Enigmatica, androgina, sensuale: Charlotte Rampling spegne oggi 70 candeline. L’attrice britannica, divenuta celebre a seguito della sua interpretazione nel film di Liliana Cavani Il portiere di notte, è ancora oggi un sex symbol.
Nata a Sturmer, nell’Essex, il 5 febbraio 1946, all’anagrafe Tessa Charlotte Rampling, l’attrice è figlia di un ex atleta olimpico e di una pittrice. Un’infanzia vissuta tra Inghilterra e Francia e i primi lavori come modella. Il suo fascino torbido e la sua fotogenia la rendono un’icona.
Posa, tra gli altri, per Cecil Beaton, David Bailey ed Helmut Newton, che immortala la sua bellezza in scatti che coniugano magistralmente il suo charme sofisticato alla sua potente carica erotica. Ancora bellissima nonostante il passare degli anni, l’attrice ha posato per Peter Lindbergh, Bettina Rheims, Paolo Roversi e molti altri, ed è apparsa su magazine del calibro di Vogue, Interview, Elle, solo per citarne alcuni.
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Charlotte Rampling in Bill Gibb per Vogue UK, 1971
Charlotte Rampling in una foto di Gianni Penati, 1972
Charlotte Rampling in Yves Saint Laurent per Vogue, 1970. Foto di Jeanloup Sieff
Charlotte Rampling, gennaio 1967 Foto John Pratt/Keystone Features/Getty Images
Charlotte Rampling, 1982, foto di Peter Lindbergh
Charlotte Rampling in Yves Saint Laurent, foto di David Bailey, Vogue UK 1972
Charlotte Rampling ritratta da Helmut Newton, 1973
Charlotte Rampling ritratta da Paolo Roversi per Interview, Settembre 2014
Nel 1965 il debutto cinematografico con il film di Richard LesterNon tutti ce l’hanno, vincitore della Palma d’oro al Festival di Cannes. L’anno seguente si apre per Charlotte un periodo buio, a causa del suicidio della sorella, che le viene nascosto dai familiari e che l’attrice scopre solo pochi anni fa. La giovane si prende una pausa dal cinema e si dedica alla meditazione, ritirandosi in un monastero in Scozia.
Due anni più tardi, nel 1968, recita ne La caduta degli dei di Luchino Visconti, che le affida il ruolo tragico di una madre deportata in un campo di concentramento con i suoi due bambini. Ma è con Il portiere di notte di Liliana Cavani che Charlotte Rampling ottiene la fama a livello internazionale: indimenticabile il suo ruolo intriso di suggestioni sadomaso e la straripante sensualità che l’attrice conferisce al suo personaggio. Lucia Atherton è un’ebrea che inizia una relazione sadomaso col suo aguzzino: la bellissima attrice in quella pellicola appariva inguainata in lunghi guanti in pelle nera e bretelle che fanno capolino sui seni nudi, mentre il volto enigmatico è coperto dal berretto tipico delle Schutzstauffeln. Fu così che Charlotte Rampling entrò di diritto nell’immaginario erotico.
Nella vita privata fece scandalo il suo ménage a trois con il fotografo Randall Lawrence e il migliore amico di quest’ultimo, l’agente pubblicitario Brian Southcombe, che nel 1972 sposò la Rampling dandole un figlio, Barnaby. Il matrimonio finì quattro anni dopo. Nel 1977 al Festival di Cannes l’incontro con il secondo marito, il compositore francese Jean Michel Jarre, da cui ebbe altri due figli. Ancora affascinante e scandalosa, la ritroviamo nel 2003 nella pellicola diretta da François Ozon, Swimming Pool.
Nel 2015 vince l’Orso d’argento come migliore attrice al Festival di Berlino con il film 45 anni di Andrew Haigh, al fianco di Tom Courtenay (anch’egli premiato come migliore attore). Grazie alla pellicola la Rampling viene candidata all’Oscar 2016 come migliore attrice protagonista. Il prossimo 28 febbraio sapremo se la celebre statuetta sarà sua.
Nasceva oggi Ava Gardner. In un periodo storico in cui il termine bellezza è costantemente abusato e spesso oltraggiato, osservare le foto della celebre attrice ci riporta al significato primigenio di questa parola: sì, perché Ava Gardner è stata donna di una bellezza singolare, rara, quasi un Sacro Graal oggi inseguito invano da fanatici del bisturi e donne che non godono della simpatia di Madre Natura. Ma nel caso dell’attrice non era solo una questione prettamente estetica: aggressiva, sfrontata, la diva nella sua vita privata come in quella pubblica è stata sublime incarnazione della femme fatale per antonomasia.
Eccessiva in tutto, dalla sfacciata fisicità agli amori turbolenti, Ava Lavinia Gardner nacque a Smithfield, in North Carolina, il 24 dicembre 1922, la più giovane dei sette figli di due agricoltori. La futura diva trascorre un’infanzia povera e disagiata, e il padre muore quando lei ha solo 15 anni.
Nel 1941 la bella Ava va a trovare a New York la sorella Beatrice ed attira l’attenzione del marito di quest’ultima, Larry Tarr, fotografo professionista, che le chiede di posare per lui. Il risultato di quella prima sessione fotografica, quasi improvvisata, è talmente sorprendente che Tarr decide di esporre uno scatto nella vetrina del suo studio fotografico, sulla Quinta Strada. Il volto luminoso e perfetto d Ava cattura un giorno l’occhio di Barnard Duhan, talent scout della MGM. Duhan entra nello studio e chiede il numero telefonico della ragazza, dovendo insistere per superare le iniziali perplessità del suo interlocutore. La chiamata per Ava arriva quando lei è ancora una studentessa diciottenne presso l’Atlantic Christian College. Prontamente la giovane si precipita a New York, per sostenere il provino negli uffici di Al Altman, capo del dipartimento talenti della MGM. Alla giovane viene chiesto di fare pochi piccoli gesti, ma non deve aprire bocca, in quanto il suo accento del Sud risulta quasi incomprensibile. Il provino viene tuttavia superato brillantemente ma la prima cosa che le viene ordinato è un corso accelerato di dizione.
La carriera cinematografica di Ava Gardner inizia con pellicole di poco conto ma nel 1946 arriva la svolta: è semplicemente impossibile non notare quella giovane bruna dallo sguardo altero, fasciata in un abito nero. Siamo sul set de I gangsters, in cui l’attrice recita accanto a Burt Lancaster. L’anno seguente lavora con Clark Gable nel film I trafficanti. Intanto ha già mandato a monte il primo matrimonio con l’attore Mickey Rooney, che aveva sposato il 10 gennaio 1942, quando lei aveva solo 19 anni. Il secondo matrimonio, col musicista jazz Artie Shaw -ex di Lana Turner– dura meno di un anno.
Nel 1948 Ava Gardner viene scelta come protagonista de Il bacio di Venere: e chi altro avrebbe mai potuto interpretare la dea della bellezza? Il film omaggia la sua fisicità, proponendoci l’attrice drappeggiata in un peplo greco, quasi come una novella Venere di Milo. Contemporaneamente la diva si fidanza con Frank Sinatra, soprannominato “The Voice” per le ineguagliabili doti canore. Per la diva Sinatra lascia la sua prima moglie Nancy e i due convolano a nozze nel 1951. Tuttavia la coppia sembra male assortita: lei appare forse troppo prorompente per il mingherlino Frank, ma i due vanno avanti nonostante il rapporto sia burrascoso, fino al divorzio, nel 1957.
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Nel 1949 recita accanto a Gregory Peck nel film Il grande peccatore mentre nel 1951 inizia ad incarnare anche sullo schermo la più autentica femme fatale: accade con Voglio essere tua, di Robert Mitchum. Nel 1953 prende parte a Mogambo, pellicola ad alto tasso di sensualità che vede un inedito triangolo amoroso, costituto da Ava Gardner, Grace Kelly e Clark Gable, ambientato nelle atmosfere tropicali di un paesaggio esotico. Per questa pellicola la Gardner ottiene una nomination agli Oscar. L’anno successivo è la consacrazione artistica, con La contessa scalza: bella come nessuna, Ava mixa sapientemente la sua bellezza sofisticata ad una sensualità felina. Nel film la diva danza come una principessa ribelle suscitando primordiali istinti. L’attrice, passionale come poche, non sa stare da sola. Il suo nuovo amore parla italiano: è l’attore comico Walter Chiari a farla capitolare, dopo il loro primo incontro sul set del film La capannina. Intanto l’attrice è preda dell’alcolismo, che ne offusca l’incredibile bellezza.
Inserita dall’American Film Institute al venticinquesimo posto tra le più grandi star della storia del cinema, nel 1964 la sua interpretazione nel film La notte dell’iguana le vale una nomination ai Golden Globes, mentre nel 1976 recita -già matura ma sempre splendida- nel film Cassandra Crossing, accanto a Sophia Loren. Fumatrice di lungo corso e alcolista, Ava Gardner sfiorisce presto: non ancora sessantenne, la diva soffre di enfisema polmonare e di una malattia autoimmune non meglio identificata. Due colpi apoplettici la lasciano parzialmente paralizzata e costretta a letto. La diva muore di polmonite all’età di 67 anni, nel suo appartamento londinese, il 25 gennaio 1990.
Negli ultimi anni della sua vita, Ava Gardner chiede al giornalista Peter Evans, ex corrispondente del Daily Express, di farle da ghost writer nella stesura della sua autobiografia, basata sulle loro conversazioni notturne. Il volume viene pubblicato poco dopo la morte di Evans, avvenuta nel 2012: esce così negli USA nel luglio 2013 Ava Gardner: The Secret Conversations, edito da Simon & Schuster, un libro destinato a fare scalpore. Qui la diva ci rivela succulenti aneddoti sulla sua burrascosa vita amorosa.
Tantissimi sono gli uomini che le cadono ai piedi, dal torero Luis Miguel Dominguín allo scrittore Ernest Hemingway, da Howard Hughes a Clark Gable; forte e ribelle, indipendente e moderna, indomabile e femmina come poche, riuscire a tenere testa ad Ava Gardner è roba per pochi. La diva non cede alle avances di Aristotele Onassis, che descrive -testuali parole- come “un piccolo stronzo allupato”; etichetta Humphrey Bogart come un bastardo, e descrive persino le perverse abitudini sessuali del primo marito, l’attore Mickey Rooney. Inoltre non mancano giudizi al vetriolo anche su alcune colleghe, come Liz Taylor, di cui la Gardner scriverà «Non è bella, è carina. Io ero bella». Di Grace Kelly la diva racconta quanto adorasse scommettere, ricordando la volta in cui, vinta una scommessa, ricevette dalla principessa Grace 20 dollari, un Magnum di Dom Pérignon ed un pacchetto di aspirine che le sarebbero servite post sbornia. Graffiante ed autoironica -perché il sex appeal passa inevitabilmente da qui- la diva rivive con tutta la sua straripante personalità nei suoi scritti. La vita di una dea molto più alla mano di quanto si potesse mai pensare.
Spegne oggi 78 candeline Jane Fonda. Attrice di fama mondiale, icona di bellezza e guru dell’aerobica, una carriera sfolgorante che l’ha resa un vero e proprio mito: vincitrice di ben due Premi Oscar, 6 Golden Globe e innumerevoli altri riconoscimenti, protagonista di pellicole che sono entrate di diritto nella storia del cinema, Jane Fonda è stata attrice simbolo di almeno tre decenni, dagli anni Sessanta agli anni Ottanta. La bellezza e la maliziosa sensualità, il glamour e le atmosfere spaziali di Barbarella, l’indimenticabile film che le diede la fama a livello internazionale, e poi l’impegno politico e il femminismo, di cui la diva è stata pasionaria.
Jane Seymour Fonda è nata a New York il 21 dicembre 1937, da Henry Fonda e Frances Seymour Brokaw. Nelle sue vene scorre sangue inglese, scozzese, francese e italiana; i suoi antenati per linea paterna emigrarono nel Cinquecento da Genova nei Paesi Bassi, per poi trasferirsi nel Seicento nelle colonie britanniche del Nord America, in una cittadina attualmente chiamata Fonda, nell’attuale stato di New York. La bella Jane vanta origine italiana anche dal ramo materno, in quanto discendente dell’aristocratico vicentino Giovanni Gualdo. Il matrimonio infelice dei suoi porta la madre di Jane a compiere un gesto disperato, togliendosi la vita; il padre, tolti i panni di divo cinematografico, nella vita domestica è un uomo freddo e distaccato, che non fa che ripeterle che è grassa e che dovrebbe dimagrire. Come la stessa Jane Fonda dichiarerà più avanti nel corso delle sue interviste, il sentirsi disprezzata da parte del padre fu la molla che la gettò nel baratro dei disturbi alimentari.
La giovane Jane non sembra inizialmente interessata alla carriera cinematografica. Dopo il diploma, conseguito presso il Vassar College, e dopo un periodo trascorso in Europa, fa ritorno negli States con l’intenzione di lavorare come modella. Il volto dai lineamenti vagamente infantili, i capelli biondi e la grande fotogenia colpiscono fotografi del calibro di Horst P. Horst, che la immortala su Vogue nel corso degli anni Cinquanta. Ma è l’incontro con Lee Strasberg ad aprirle le porte del cinema, convincendola a frequentare le lezioni di recitazione presso il celebre Actor’s Studio. Il debutto cinematografico avviene nel 1960 con In punta di piedi, dove Jane Fonda recita accanto ad Anthony Perkins. Nel corso degli anni Sessanta l’attrice prende parte a numerosi film di successo, alternando con disinvoltura il genere drammatico alla commedia. Ha come partner lavorativi attori celebri, da Marlon Brando a Robert Redford, con cui recita nell’indimenticabile A piedi nudi nel parco.
Sbarazzina e insieme sofisticata, nel 1964 Jane viene inserita dal regista Roger Vadim nel cast di Il piacere e l’amore. Tra i due nasce una relazione amorosa che sfocia in un matrimonio, celebrato l’anno successivo. Vadim intuisce fin da subito il potenziale erotico dell’attrice e la dirige in pellicole che la consacrano come sex symbol internazionale. La fama arriva con il celebre film Barbarella, del 1968, interamente incentrato sulla bellezza della protagonista, su uno sfondo fantascientifico. Ma a Jane Fonda l’etichetta sexy sta stretta: la diva è troppo intelligente per non capire quanto la sua strabordante sensualità possa essere un’arma a doppio taglio, che alla lunga rischia di comprometterne le capacità drammatiche. Icona femminista, la diva si ribella all’immagine di bella svampita che i media le attribuiscono e scende in politica, come attivista contro la guerra del Vietnam. La sua visita ad Hanoi assume portata quasi storica, come anche la sua propaganda filo-nord-vietnamita. L’opinione pubblica si schiera apertamente contro di lei e le affibbia il soprannome di “Hanoi Jane”. Solo molti anni più tardi l’attrice rivedrà le sue posizioni politiche, commentandole a posteriori con rinnovato senso critico.
Intanto indirizza la sua carriera verso ruoli di maggiore spessore drammatico: arriva così nel 1969 la prima delle sue sette candidature all’Oscar con il film Non si uccidono così anche i cavalli?, di Sydney Pollack; nel 1971 vince l’Oscar come miglior attrice protagonista con Una squillo per l’ispettore Klute, nel ruolo della prostituta Bree Daniel. La seconda statuetta arriva nel 1978 per Tornando a casa di Hal Ashby. Intanto il matrimonio con Vadim naufraga e Jane sposa in seconde nozze il politico Tom Hayden, che ha un passato da pacifista. Nei primi anni Ottanta prende parte al film Sul lago dorato, dove recita per la prima ed unica volta accanto al padre Henry. Successivamente accantona la carriera cinematografica per abbracciare la nuova passione per la fitness. I suoi video di esercizi di ginnastica aerobica divengono un vero e proprio fenomeno. L’attrice, dopo anni di lotta contro la bulimia, sdogana l’esercizio fisico come nuova moda, e neanche un infarto riesce a fermarla. Nei primi anni Novanta il terzo matrimonio con il magnate della comunicazione Ted Turner, che durerà un decennio.
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La bellezza di Jane Fonda
La diva è nata a New York il 21 dicembre 1937
Jane Fonda nel 1962
Jane Fonda in uno scatto del 1964 realizzato da Virgil Apger
Jane Fonda ritratta da Mark Shaw
La diva è sex symbol di fama mondiale
Jane Fonda su Vogue, settembre 1959, foto di Karen Radkai
Bellezza spontanea per Jane Fonda
Uno scatto di Allan Grant per LIFE
Jane Fonda ritratta da Allan Grant
La diva si è ribellata all’immagine sexy affibbiatale dai media
L’incontro con Lee Strasberg le aprì le porte del cinema
Bomba sexy negli anni Sessanta
Jane Fonda in Chanel, foto di Willy Rizzo, 1964
Uno scatto degli anni Sessanta
Jane Fonda in “Barbarella”
L’attrice ha dichiarato di aver sofferto per anni di bulimia
Una giovanissima Jane Fonda
Jane Fonda a Venice Beach, Beverly Hills, foto di Willy Rizzo, 1962
Jane Fonda sul set di “Barbarella”
Uno scatto del 1962
Jane Fonda sul set in Costa Azzurra (Foto di Francois Pages/Paris Match via Getty Images)
Jane Fonda sul set di “Il piacere e l’amore” di Vadim
Jane Fonda sul set di “Barbarella”, foto di David Hurn, Roma, 1967
Ancora dal film “Barbarella.” Foto di Carlo Bavagnoli 1967
Bellissima nelle atmosfere fantascientifiche di “Barbarella”
L’attrice è attivista politica e femminista convinta
Negli anni Ottanta Jane Fonda divenne guru dell’aerobica
Jane Fonda su W Magazine, 2015
L’attrice è ancora bellissima anche con il passare degli anni
Icona femminista, Jane Fonda si è apertamente schierata contro l’emarginazione in cui vengono relegate le donne di una certa età ad Hollywood come anche nella vita comune. Celebre la sua presa di posizione al riguardo, per cui “se un uomo ha molte stagioni, una donna ha diritto solo alla primavera.” Attiva sul piano umanitario, la diva nel 2001 ha donato alla Scuola di Educazione dell’Università di Harvard la somma di 12.5 milioni di dollari, al fine di creare un “Centro per gli Studi educativi”: secondo l’attrice la cultura dominante darebbe messaggi sbagliati e diseducativi alle future generazioni che distorcerebbero i rapporti tra uomini e donne. Nel 2005 è stata pubblicata la sua autobiografia, intitolata La mia vita finora. Vulnerabile e insieme tagliente, la diva ha recentemente ammesso di essere ricorsa al bisturi, e che in virtù di tali interventi estetici avrebbe guadagnato un altro decennio di attività lavorativa, in un ambiente in cui invecchiare è considerato quasi uno scandalo. Il suo volto non ha perso fortunatamente la straordinaria espressività che ce l’ha fatta amare in film indimenticabili. Ancora splendida nonostante il passare del tempo, sagace ed ironica come di consueto, ha ammesso che il sesso costituisce oggi una parte fondamentale della sua vita. Attualmente residente ad Atlanta, in Georgia, la diva ha iniziato un percorso di rinascita per abbracciare la fede cristiana.
Spegne oggi 69 candeline Jane Birkin. Bellezza iconica degli anni Sessanta e Settanta, spregiudicata, maliziosa come nessuna, l’attrice e cantante britannica non ha perso assolutamente il suo celebre fascino.
La caratteristica frangetta, il sedere rotondo immortalato in foto scandalose al fianco di Serge Gainsbourg: non c’è dettaglio della vita di Jane Birkin che non sia divenuto iconico, dai suoi amori ai suoi film. Incarnazione dello stile fresco eppure sofisticato tipicamente anni Sessanta, l’attrice è uno dei volti più noti e più chiacchierati degli ultimi cinquant’anni.
Nata a Londra il 14 dicembre 1946, Jane Mallory Birkin discende da una famiglia che ha fatto fortuna con l’industria del merletto nel Nottinghamshire. Il fascino doveva essere nel DNA, dal momento che una sua prozia, Winifred (Freda) May Birkin, poi sposata con William Dudley Ward, fu amante del Principe di Galles (il futuro Edoardo VIII del Regno Unito, nonché Duca di Windsor). Il padre della bella Jane, il maggiore David Birkin, era stato comandante della Royal Navy ed eroe della seconda guerra mondiale e fu coinvolto anche in vicende di spionaggio; la madre era l’attrice e cantante Judy Campbell (pseudonimo di Judy Gamble), famosa per le sue interpretazioni nei musical di Noël Coward.
Occhi da cerbiatto e fascino torbido che fa capolino dietro l’aria innocente, Jane comincia la carriera di attrice teatrale all’età di 17 anni: siamo nella Swinging London e il suo stile ammalia un nome storico della moda made in UK del calibro di Ossie Clark. Successivamente Jane fa il suo esordio come cantante in un musical: è in questo contesto che conosce il compositore inglese John Barry (autore anche di alcune musiche per i film di James Bond): tra i due nasce una relazione che sfocia in un matrimonio celebrato quando Jane ha appena 19 anni. Dalle nozze nasce la prima figlia della futura icona di stile, Kate Barry, nata nel 1967 (scomparsa prematuramente a Parigi, probabilmente suicida, l’11 dicembre 2013, dopo essere precipitata dal quarto piano del suo appartamento nel XVI Arrondissement).
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L’esordio cinematografico di Jane Birkin avviene con il film “Non tutti ce l’hanno” (The Knack …and How to Get It) di Richard Lester, ma è con la pellicola successiva, l’indimenticabile Blow-up di Michelangelo Antonioni, che l’attrice ottiene la fama. Una scena la immortala in topless: la bellezza acqua e sapone la rende immediatamente un’icona della scena londinese. Nel 1968 l’attrice si trasferisce in Francia: qui avviene l’incontro della vita, con il cantante e musicista Serge Gainsbourg, con cui intraprende una relazione che durerà fino al 1980. Una coppia inimitabile, il fascino di lui capace di sposarsi così bene con la bellezza di lei, musa quasi forgiata dalle mani esperte e dalla fantasia del grande cantautore francese. Nel 1969 arriva la canzone scandalo, con tanto di gemiti e sospiri, Je t’aime…moi non plus, originariamente incisa da Gainsbourg insieme a Brigitte Bardot e poi cantata invece con la Birkin. Due anni più tardi, nel 1971, nasce Charlotte Gainsbourg, che diventerà anche lei attrice e cantante.
Al termine della relazione con Gainsbourg, Jane Birkin ha continuato con grande successo la carriera di attrice. Inoltre la diva ha trovato un nuovo amore nel regista francese Jacques Doillon, da cui ha avuto la figlia Lou, nata nel 1982 e divenuta famosa come modella. Una carriera sfolgorante nel cinema e nel teatro, un’immagine che le ha permesso di divenire una vera e propria icona, un’esperienza anche come fashion designer al fianco della figlia Lou (le due hanno firmato insieme una collezione per il brand La Redoute), Jane Birkin ha anche una borsa a suo nome, la mitica Birkin firmata Hermès, che la diva ha recentemente rinnegato per motivi ambientalisti. Vero e proprio oggetto di culto, It Bag tra le più costose al mondo (il prezzo varia dai 6.000 ai 120.000 euro), la celebre borsa porta il nome dell’attrice, che però lo scorso luglio ne ha disconosciuto la paternità.
Oggi la diva compie 69 anni: bellezza naturale, fieramente contraria alla chirurgia estetica, gli anni non ne hanno minimamente scalfito la classe e il grande fascino.
I riflessi che i raggi del sole disegnano su una piscina, capelli biondi mossi dal vento e dalla brezza del mare, poco distante, sorrisi bianchi illuminano labbra di un rosa appena accennato. È questo lo sfondo su cui si stagliava la vita di C. Z. Guest, socialite ed indimenticabile icona di stile. Emblema dell’American style, presenza fissa dell’International Best Dressed List, C. Z. Guest incarnò la quintessenza dello chic, col suo stile acqua e sapone, tra polo e bermuda. La bionda icona fu anche attrice, giornalista, autrice, guru del giardinaggio, provetta cavallerizza e fashion designer.
All’anagrafe Lucy Douglas Cochrane, la futura icona di eleganza nacque a Boston, in Massachusetts, il 19 febbraio del 1920, in una famiglia dell’alta borghesia. Il padre, Alexander Lynde Cochrane, è un banchiere. Il nome di C. Z. deriva dal soprannome Sissy: era questo il suono che il fratello emetteva quando la chiamava “sister”. C. Z. cresce come una splendida ragazza: impressionante è la somiglianza giovanile con Grace Kelly. Durante una fase d ribellione giovanile, durante i suoi vent’anni, la bionda C. Z. si trasferisce ad Hollywood, dove inizia una carriera come attrice. Successivamente si sposta in Messico, dove posa in déshabillé per Diego Rivera: il dipinto che la ritrae nuda venne poi appeso al bar dell’Hotel Reforma. Quando il futuro marito di C. Z., il giocatore di polo Winston Frederick Churchill Guest, venne a conoscenza del ritratto, esclamò: “Oh no, sei stata una cattiva ragazza, tesoro”.
Il matrimonio tra i due venne celebrato l’8 marzo 1947. Winston Frederick Churchill Guest era figlio di Frederick Guest, a sua volta figlio di Ivor Bertie Guest, primo Barone Wimborne, e di Lady Cornelia Henrietta Maria Spencer-Churchill (figlia di John Spencer-Churchill, settimo duca di Marlborough), e per discendenza materna era cugino primo di Sir Winston Churchill. Le nozze ebbero luogo nella casa del celebre scrittore Ernest Hemingway, all’Avana, Cuba. La coppia ebbe due figli, Alexander e Cornelia Guest.
La classe innata di C. Z Guest ottenne numerosi riconoscimenti: giovanissima aveva già posato per Harper’s Bazaar per l’obiettivo di Louise Dahl-Wolfe; successivamente posò per Irving Penn e Cecil Beaton, prima di ottenere la copertina di Town & Country, nel novembre 1957. Ritratta anche da Salvador Dalí, Kenneth Paul Block e Andy Warhol, la sua vita lussuosa, tra party a bordo piscina e residenze principesche, la rese musa indiscussa del fotografo Slim Aarons. Inoltre nel luglio del 1962 ottenne la cover di TIME magazine e fu protagonista di un articolo che ritraeva l’alta società americana. Nel 1959 fu inserita nella Hall of Fame dell’International Best Dressed List creata da Eleanor Lambert nel 1940.
La socialite amava vestire in modo essenziale e semplice: antesignana dello stile preppy, che incarnò brillantemente, tra polo, bermuda, tutine e prendisole, C. Z. Guest fu l’emblema di quell’eleganza tipicamente americana a cui oggi guardano designer come Ralph Lauren e Tommy Hilfiger. Adorata per i suoi look iconici, promosse strenuamente i designer americani, come il couturierMainbocher, ma anche Oscar de la Renta, che fu suo intimo amico e che dichiarò più volte di essere stato ispirato da lei.
Una bellezza classica e naturale ed una predilezione per outfit sporty-chic, C. Z. Guest boicottava il make up, puntando ad un’eleganza casual. Potremmo definirlo effortlessy chic: poche ma preziose regole erano i pilastri su cui si basava la sua eleganza, come indossare una semplice t-shirt di colore bianco, illuminata da labbra colorate di rosa e da un filo di abbronzatura, o legare i biondissimi capelli con un fiocco di seta, o, ancora, indossare l’immancabile filo di perle bon ton, unico vezzo che si concedeva, nella sua proverbiale avversione per i gioielli. Il suo stile oh so preppy le aprì con facilità le porte dei più esclusivi circoli fashion, e il suo matrimonio la rese protagonista indiscussa del jet set internazionale. C. Z. Guest teneva molto al suo ruolo di socialite e si divertiva a posare per le cover e a rilasciare interviste. Lo stile per lei era qualcosa di innato, parte integrante della sua stessa essenza. D’altronde nella sua sfera di amicizie figuravano icone del calibro di Babe Paley, la duchessa di Windsor, Diana Vreeland, Barbara Hutton, Gloria Guinness, Joan Rivers e Diane von Fürstenberg. Inoltre fu uno dei cigni della corte di Truman Capote. Sopravvissuta al cancro, definì lo stile “questione di sopravvivenza, l’avere affrontato tante avversità senza darlo a vedere”.
In un libro a lei dedicato, dal titolo “C.Z. Guest, American Style Icon”, edito da Rizzoli, Susanna Salk traccia un ritratto intimo della trendsetter americana. C.Z. Guest amava stare all’aria aperta e il suo look acqua e sapone testimonia in primis le sue passioni, come andare a cavallo, giocare a tennis e occuparsi dei suoi amati giardini. La socialite divenne grande esperta di giardinaggio, scrisse rubriche su numerose riviste e fu autrice di ben tre testi sull’argomento, creando anche dei guanti che andarono a ruba, rendendola anche genio ante litteram delle strategie di marketing. Nonostante la vita lussuosa non era una snob, ma riteneva le buone maniere e la gentilezza vincenti in ogni campo. Come scrive William Norwich nell’introduzione al volume di Susanna Salk, C. Z. Guest fu “campionessa di meritocrazia”. Una vera e propria avversione nei confronti dei privilegi, la socialite riteneva doveroso cercare di elevarsi e primeggiare in qualcosa, fosse lo sport o altro, indipendentemente dall’appartenenza all’élite. A differenza della maggior parte delle donne del suo rango, C. Z. Guest non temeva di avventurarsi fuori dai ristretti confini tracciati dalla scala sociale: ce la descrivono sempre pronta ad abbracciare il nuovo, l’ignoto, il suo indomito spirito ribelle le faceva amare l’avventura e l’esotico, facendole preferire gli stivali da cavallerizza al filo di perle. La sua ricchezza non pesava su chi le stava accanto: il suo sorriso faceva sentire chiunque a proprio agio. Perché, si sa, la vera eleganza non ha bisogno di ostentare alcunché.
La sua grande passione per il giardinaggio iniziò un po’ per caso: dopo una rovinosa caduta da cavallo, nel 1976, le venne chiesto dal New York Post di scrivere una rubrica sul tema. Nacque così il materiale che raccolse nel suo primo libro, First Garden, che fu illustrato dal suo amico Cecil Beaton.
D’inverno C. Z. Guest viveva nella sua residenza a Palm Beach, la celebre Villa Artemis, mentre nei mesi caldi si divideva tra il suo appartamento di Manhattan e Templeton, la sua proprietà nel Connecticut. Come ella stessa dichiarò nel corso di un’intervista rilasciata a Vogue, fu proprio a Templeton che la socialite trovò la propria dimensione più autentica, dedicandosi alla caccia e prendendosi cura dei suoi giardini e dei suoi cani. Tantissimi -si stima 10 o 15- i suoi fidati amici a quattro zampe furono immortalati anche nei quadri delle sue residenze e talvolta comparivano nelle foto in braccio alla bionda padrona. L’interior design di Templeton venne curato da Stephane Boudin e Maisin Janson con mobilio e arredi di grande valore artistico -come il celebre ritratto realizzato da Salvador Dalí– che la resero più simile ad un museo. Villa Artemis, la residenza di Long Island, comprendeva invece 28 camere: la piscina in marmo bianco, set iconico delle indimenticabili foto di Slim Aarons, e l’architettura che ricalcava fedelmente i templi greci resero la villa con vista sull’oceano emblema della bella vita.
C. Z. Guest fu anche fashion designer: la sua prima linea comprendeva prevalentemente maglioni di cashmere dalle linee essenziali. La collezione fu presentata nel 1985, durante una sfilata del celebre Adolfo Domínguez. L’anno seguente, nel 1986, la socialite mise a punto una collezione di sportswear in limited edition. Nel 1990 brevettò un repellente contro gli insetti e altro materiale per il giardinaggio, ottenendo anche lì grande successo.
L’icona di stile morì l’8 novembre del 2003 a New York, all’età di 83 anni, a causa di difficoltà respiratorie. Truman Capote, l’amico di una vita, tracciò un ritratto di C. Z. Guest che ce la restituisce nella sua struggente spontaneità: “I suoi capelli, divisi al centro e più chiari del Dom Pérignon, erano più scuri di una gradazione rispetto all’abito che indossava, un Mainbocher bianco in crêpe de Chine. Nessun gioiello, pochissimo trucco; solo la perfezione del bianco su bianco… Chi l’avrebbe mai detto che dentro questa signora che sapeva di fresca vaniglia si celava un autentico maschiaccio?”
Diane von Fürstenberg ne ricordò la semplicità, la gentilezza e la generosità. “Nulla in lei appariva falso o costruito”– disse la stilista. “Era una donna autentica, di una naturale bellezza e dalla classe innata”. La classe di una vera bellezza americana.
Anne Hathaway sarà presto mamma. L’attrice premio Oscar aspetta il primo figlio dal marito Adam Shulman. Le prime foto appena diffuse rivelano una gravidanza felice e immortalano la futura mamma in una mise sportiva, molto diversa dai look sofisticati che siamo abituati a vederle sfoggiare sui red carpet. Una gravidanza tenuta nascosta fino ad oggi, sebbene l’attrice avesse già manifestato chiaramente la sua intenzione di diventare presto mamma.
La diva, diventata famosa grazie al film cult “Il Diavolo veste Prada”, è sempre impeccabile, sia che venga paparazzata a spasso per New York sia che si tratti di gala ufficiali. Classe 1982, Anne Hathaway incarna da sempre una bellezza discreta e raffinata. Immortalata come una novella Audrey Hepburn su diverse copertine di magazine patinati, sorriso rassicurante e occhi da cerbiatta, Anne Hathaway è considerata un’icona di bellezza.
Ma la diva è recentemente balzata agli onori delle cronache per un primato assai poco carino che si contenderebbe con un’altra star del calibro di Gwyneth Paltrow, ovvero quello della donna più antipatica di Hollywood. Considerata troppo perfettina e fredda, l’attrice starebbe infatti antipatica a numerosi fan, che in rete si scatenano a criticarla in tutto, a partire dai look sfoggiati, anche i più eleganti. Dal canto suo Anne Hathaway posta sui social network foto che la immortalano in pose buffe, sperando forse di fornire un’immagine di sé meno rigida.
Impossibile dimenticare Andy Sachs, la timida assistente di Meryl Streep alias Miranda Priestley ne “Il Diavolo veste Prada”: una pellicola che ci ha fatto sognare, mostrando le peripezie della tipica ragazza della porta accanto piombata all’improvviso negli ambienti fashion. Di quel film, che ad Anne Hathaway ha dato la fama internazionale, ricorderemo per sempre la magistrale interpretazione di Meryl Streep come anche le mise create per l’occasione da un genio della moda del calibro di Patricia Field.
Vincitrice del Premio Oscar come migliore attrice non protagonista per la sua interpretazione di Fantine ne Les misérables di di Tom Hooper, basato sul celebre romanzo di Victor Hugo, l’attrice è convolata a nozze nel 2012 con l’attore Adam Shulman, da cui ora attende il primo figlio. Anne Hathaway è cresciuta in una famiglia cattolica e durante l’adolescenza ha anche accarezzato l’idea di prendere i voti. Dopo una relazione con l’imprenditore italiano Raffaello Follieri, conclusasi a causa del coinvolgimento di lui in vicende giudiziarie, la bella Anne ha trovato l’amore nel collega Shulman.
Bellezza algida e labbra carnose, Anne Hathaway appare sempre perfetta sul red carpet: il suo stile predilige abiti da gran soirée dal grande impatto scenografico. Brand prediletti Valentino e Giorgio Armani. Non vediamo l’ora di vedere i look prémamam dell’attrice.