“Desideravo fermare tutte le cose belle che mi si presentavano davanti, e finalmente questo desiderio è stato soddisfatto” – citava Julia Margaret Cameron, nota fotografa inglese esponente del pittorialismo.
Pare che Giuseppe Di Piazza abbia la stessa attitudine al bello, con la sola differenza che anziché “fermare” le cose, le faccia “sparire”!
Nella sua personale fotografica “Dissoluzione Duomo“, esposta alla galleria Still(via Balilla, 36 Milano) conclusasi il 12 novembre, Di Piazza, come un moderno Houdini, fa letteralmente scomparire il simbolo di Milano: il Duomo.
Cosa ci sia dietro questo gesto, sta a chi l’arte la riceve scoprirlo, non è certo compito dell’autore, che invece lascia molte domande. Lo spettatore quindi, il lettore di queste immagini vede, attraverso una serie di scatti e di aperture progressive a mano libera, un’ondata di luce, un’apparizione che genera una sparizione. La storia di Milano che si sgretola per mano della natura, per opera della luce stessa.
Quanto in queste fotografie c’è di vero, quanto di morale e provocatorio?
Giuseppe Di Piazza racconta di aver avuto l’idea durante una soleggiata giornata meneghina, mentre era in motorino, un pomeriggio di primavera: “Straordinaria l’intensità e il colore di quella luce, voltandomi verso il Duomo, lo vidi inondato da un chiarore così bianco da farlo svanire“.
Dissoluzione Duomo – totale sequenza di scatti
“Il Duomo, simbolo per eccellenza di Milano, è la prima cosa che cerchi quando ti alzi al mattino e l’ultima su cui lo sguardo si posa la sera. Si dice che il Duomo di Milano venga solo dopo San Pietro in Vaticano. Non riesco a capire come possa essere secondo a qualsiasi altra opera eseguita dalla mano dell’uomo” – Mark Twain
Cos’è “Dissoluzione Duomo“? Il seme, il frutto, il fiore che rappresenta l’immensa storia del colosso milanese? Una Chiesa seconda solo a San Pietro in Vaticano, misteriosa quanto ambigua, di una magnificenza e bellezza che tutto il mondo invidia. O è forse l’amore che un siciliano trapiantato a Milano dimostra per la sua nuova casa? L’amore fotografico che imbandisce tutte le arti e porta a consacrare e sconsacrare, saccheggiare e donare, denunciare e conservare tutto quello che il nostro occhio vede?
Giuseppe Di Piazza, noto giornalista, scrittore e fotografo italiano, ci prende per il naso con questo giochetto irrisolto, forse una provocazione voluta – la dissoluzione del Duomo – blasfemia o premonizione?
A voi la risposta.
Oltre all’opera “Dissoluzione Duomo”, Giuseppe Di Piazza ha esposto 100 pezzi unici 20×30, istantanee ritoccate con pastelli ad olio, delle vedute meneghine da lui rivisitate.
Matteo Bertolio all’anagrafe, fotografo sulla carta d’identità, le cover di Elle, Marieclaire e i migliori magazines di moda sul curriculum, Milano, Formentera, Messico le sue dimore.
Avete presente D’Artagnan e i tre moschettieri? Il pizzo, il baffo all’insu’, quella capigliatura un po’ arruffata? Ecco Matteo Bertolio è uno di loro, potrebbe essere Porthos, il più farfallone, amante della bella vita, delle donne, del buon vino e della musica.
Ha gli occhi di un azzurro ghiaccio, trasparenti, uno spirito vivace, un’intelligenza nervosa e vulcanica, alimentata da una rara sensibilità al bello. Matteo Bertolio non si può definire un “fotografo”. Matteo Bertolio è un visionario!
Matteo Bertolio
Mi accoglie nella sua casa milanese, le pareti coperte dai suoi lavori, le credenze colme di cristalli, la cucina colorata di spezie, “oggetti di memoria senza limite, ogni tanto li guardo e mi ricordano che sono un essere migratorio, loro sono stanziali, io no. Forse un giorno li riporterò dove li ho ritrovati”.
Impossibile parlare di intervista con quest’uomo bizzarro, perché tira fuori una serie di aneddoti, uno più romanzesco dell’altro, fatti e misfatti della sua vita, del suo lavoro, personaggi incontrati per caso, viaggi vissuti e immaginari, Jodorowsky nelle sue frasi, la psicomagia, perché la fotografia è diventata quello che è diventata…
Discutiamo dei modelli dell’era digitale, di come le idee concettuali vadano sopendosi, di come la complessità, la natura e la verità della fotografia siano quasi dimenticate. In alcune “opere” di Matteo Bertolio, le chiamo così perché non cito solo le fotografie, ma anche i lavori in qualità di art director, possiamo leggere dei racconti. Sono delle storie che testimoniano il suo pensiero e il suo background artistico (Bertolio nasce e cresce in una famiglia dove respira arte – il padre è un artista), sono delle produzioni didattiche, a volte moraleggianti, altre di puro intrattenimento o di ricerca estetica, quale “Art Flower”, una donna nuda su un tappeto di fiori rossi che rappresenta il suo pistillo.
Art Flower
O il caso di una advertising in cui rappresenta “la madonna dell’economia”: “la celebrazione di una economia dedicata al petrolio, la metafora di un bambino che accetta un olio-latte nero materno, nutrendosi di esso. Lei è una donna araba tradizionale, il bambino è nudo come un angelo in un quadro sacrale, e dunque senza una sua materia difensiva.”
(La realizzazione dell’immagine è stata fatta in collaborazione con Enrico Chiadò Rana, storico direttore creativo della pubblicità italiana).
La madonna dell’economia
O la foto che realizzò nel 2004 per le olimpiadi, sognando la premiazione di una gara di nuoto 100m stile libero terminata con la vittoria di una nuotatrice iraniana, in costume, ed uno chador Nike ad accennare un altro sorriso.
Iran
Ho conosciuto diversi fotografi, e in tutti loro ho trovato l’ ossessione del lavoro, mangiati dall’idea di dover essere i migliori creando dei teatrini social: chi si veste da dittatore dietro un pc, chi s’inventa lavori che nessuno ha mai offerto loro, chi si loda in panegirici imbarazzanti. In Bertolio tutto questo non c’è, semplicemente perché non ne ha bisogno. Quasi estraneo al mondo social, un account con gli amici di sempre, lontano dalle urla e dal folklore 2.0
Un pomeriggio Bertolio gironzolando tra le camere con i mantelli messicani che vorrebbe importare in Italia, riflette a voce alta su come modernizzarli, se ci sarebbe mercato in questo paese, poi passa alla sua postazione studio – una skype call con l’agente di sempre – e, ancora scalzo, mi mostra il progetto che ha in mente, sfogliando tra i suoi archivi fotografici. Una continua folgorazione, zampilla di lampadine accese, la sua comunicazione è netta, chiara, ma come un fiume in piena – non riesco a trattenerlo. Bertolio è così, conserva l’entusiasmo dell’artista che “deve dire” e deve dirlo al mondo intero. Ora, adesso, subito. Ma poi un’altra idea lo sfiora e quindi come un’ape si posa su un altro fiore.
Safe Sex
Foglio alla mano discutiamo un progetto insieme – una mostra che tratta il tema della dipendenza digitale. E io prendo appunti perché non voglio perdere una parola, un titolo, una citazione, un nome. E ne parla come se volesse salvare il mondo. E’ questo che rende speciale il suo lavoro – il fatto che ogni singola immagine, ogni singola storia fotografica, sia per lui qualcosa di speciale. E in fondo è lo stesso sentimento del bambino che ama il suo primo pallone – eppure è solo un pallone!
Shapes
E come i fuochi d’artificio in cielo in piena festa di paese arrivano al silenzio, Bertolio lascia l’Italia e va a riposare in Messico, dove pure ha casa. Lo fa in continuazione, passando pure per Formentera. E’ un viaggiatore, uno scopritore, un navigatore, un curioso, Matteo Bertolio è quella voce della coscienza che ogni tanto torna e ti dice “Ehi, svegliati!”.
chi non sa che prima o poi tutto torna di moda?!
Questa stagione son tornati i miticianni ’70, in assoluto una delle mie decadi preferite in fatto di moda.
E pensare che quando ero una bambina spesso accusavo i miei genitori per come mi vestivano. E’ da adulta che ho iniziato ad amare tutto quello che girava intorno a quegli anni, comprese le mie scelte in merito alla moda (e compresi ovviamente gli anni ’80!)
I pantaloni a zampa li ho sempre portati, anche quando non erano in voga, perché credo siano perfetti per il mio fisico. Oggi posso indossarli senza che la gente guardi in modo strano 🙂
Perché amo così tanto gli anni ’80? Sarà lo sfarzo, il glamour, la disco, la musica, il design, le stampe, i tagli dei capelli, peace and love! Tutto ero figo!
Voglio dire, prendete per esempio The Bee Gees nel loro video Staying Alive: quanto erano giusti? Ancora oggi vengono imitati e sono passati quasi 40 anni!
Per questo motivo quando ho visto il look che qui indosso, in perfetto stile anni ’70 del duo di stilisti Marco Bologna (Nicolò Bologna e Marco Giuliano), ero felicissima. Fantastico come total look ma anche easy da portare separatamente.
La vestibilità, la stampa, i colori, io l’adoro e dovevo assolutamente condividerla con voi.
E allora spolveriamo i nostri dischi in vinile e boogie on down the road…
Peace and Love B
Hi Everyone,
We all know that sooner or later everything comes back in fashion.
Well this season the 70’s are back again, and they are absolutely one of my favorite decades when it comes to fashion.
When I was a kid I accused my parents many times of dressing me badly duringthose years…But as soon as i became an adult I started loving everything that had to do with the 70’s…They have influenced me a lot and many of my fashion choices today derive from the 70’s (but obviously also the 80’s)
I have always worn flare pants even when they were not in fashion because I just love them and think they are flattering to my body. ..But today you can wear them again without people raising their eyebrows…
Don’t know why I love the 70’s so much but I just do;)
The glitz, the glam, the disco, the music, the designs, the prints, the haircuts…peace and love….It was just cool…
I mean just look at the Bee Gees in their video Staying alive, now how awesome are they? Even almost 40 years after date…
So when I came across this look from the designing duo Marco Bologna (Nicolò Bologna and Marco Giuliano), i was totally happy to see this 70’s inspired outfit. Awesome as a total look but easy to wear as separates as well.
The fit, the print, the colors, I love all of it and had to share it with you.
So dust of your vinyl records and boogie on down the road…
Fino al 22 settembre alla libreria Hoepli di Milano (Via Ulrico Hoepli, 5), sarà esposta un selezione di immagini di Zambian Portraits, il nuovo libro fotografico di Paolo Solari Bozzi – edito da Skira – che segue la prima pubblicazione dell’autore (Namibia Sun Pictures, Tecklenborg 2013), e che è un’ulteriore testimonianza del suo amore per la poesia dell’Africa e dei suoi popoli.
Per quattro mesi, nel 2014, Paolo Solari Bozzi ha viaggiato a bordo del proprio fuoristrada in compagnia della moglie Antonella attraverso lo Zambia, in totale autonomia, coprendo oltre diecimila chilometri, per lo più su strade sterrate e spingendosi fino alle zone più remote e sconosciute di questo affascinante Paese, comprese le paludi del Bengweulu, dove gli abitanti non hanno quasi mai incontrato un viaggiatore europeo.
Utilizzando macchine fotografiche meccaniche di medio formato e grandangoli, Paolo ha immortalato in 122 immagini in bianco e nero – sviluppate e stampate personalmente nella sua camera oscura – le persone incontrate, nel loro naturale habitat, per lo più lavorativo. Nel tentativo di captarne lo stato d’animo, il fotografo si è concentrato sulle loro espressioni facciali, in particolare sui loro sguardi.
Dopo aver viaggiato a varie riprese nei Paesi desertici del Maghreb, Paolo Solari Bozzi si è invaghito dell’Africa Australe, a tal punto da acquistare due lodge (Sausage Tree Camp e Potato Bush Camp), situati in Zambia in un Parco Nazionale, lungo le sponde del fiume Zambesi. In Zambian Portraits, il fotografo ritrae alcuni aspetti “di un Paese meraviglioso e sconfinato, ricco di meraviglie umane e naturali, e di cultura” come ha spiegato lui stesso.
Durante i 70 giorni di viaggio trascorsi in Namibia nel 2010 e nel 2012 e i 4 mesi trascorsi nel 2014 in Zambia, Paolo Solari Bozzi ha affrontato ogni scatto “con quel rispetto dovuto a chi ti ospita e non, come spesso vedo fare oggi, stravolgendo la scena e “mettendola in ordine”, insomma piegando gli scenari ai dogmi imposti dalle riviste patinate”.
L’uso del bianco e nero, “s’inserisce nel lungo filone di quei grandi fotografi e registi (uno per tutti: Ingmar Bergman) che hanno scelto la profondità, il dettaglio e la magia viva della monocromia per i propri capolavori. Sono sempre stato convinto che il colore, per quanto stupendo, distragga e non possa restituire l’animo delle persone, le loro cicatrici e sofferenze, il loro amore”.
Siamo sull’ultima spiaggia, quella dei “nuovi fotografi”, quella dei “selfie tra le gambe fronte mare”, quella dei “workshop di nudo in una fabbrica abbandonata”.
L’era del digitale ha scaravoltato (alla Parodi) la fotografia e soverchiato il buon gusto, il rigore, a volte la decenza.
Eccezioni ne esistono ancora in questa valle di lacrime, un esempio è Pino Leone, che ancora sopravvive grazie alle sue idee e forse grazie alla collocazione geografica della sua dimora.
Chi è Pino Leone? Pino Leone è un ragazzino che alle scuole medie imparava “fotografia” – Chissà in quel periodo a quanti poteva interessare la materia. Vi rispondo subito: solo 8 suoi coetanei, mentre oggi probabilmente ci sarebbe la fila come alle ore 20.30 all’Esselunga di un sabato d’estate.
Pino scattava in pellicola, ebbene, quanti “nuovi fotografi” oggi scattano in pellicola? (conoscete la risposta) ed ebbe una gran botta di fortuna, diciamolo, incontrando il grande Oliviero Toscani, che subito gli propose di andare sul set a imparare il mestiere.
Con la sua prima Zenit, il povero ragazzino cadde in una trappola tesa dal fratello: un corso di fotografa nell’esercito, tra carri armati, motori, reportage di esercitazioni alla “Full metal jacket” di Kubrick. Un inganno per calmare lo spirito ribelle di chi, alla fine, a briglie sciolte, prenderà la sua strada, ma fregato dal suo stesso sangue si spara 9 anni e mezzo tra maschiacci e parolacce.
Pino Leone, in semi-isolamento, nella sua camera oscura di 300 mq, sviluppa ritratti e la voglia di continuare con la fotografia. Le agenzie notano il suo tratto pulito, il suo bianco e nero secco, deciso e finalmente stacca il cordone ombelicale da quello che finora era stato il suo “laboratorio-sperimentale”.
La fortuna bussa alla sua porta in veste di amico – un designer di abiti da sposa – lui fa “clic” e finisce sulle pagine di Vogue. E come tutte le fortune, arrivano insieme colorate di numeri: è il 1991 , 128 pagine di pubblicità, 3 sale posa per 1 studio a noleggio e ben 7 assistenti. La moda è la sua nuova compagna.
Gai Mattiolo Spose ADV
PIANURASTUDIO ADV Fall/Winter 2014-15 NYC
Antonella Salvucci fotografata da Pino Leone
Happy Easter
Roma, Parigi, Milano, tra cataloghi, sfilate, pubblicità, è tutto leggero eppure così solido da dover dire “No” ad alcune offerte.
Ora, Pino Leone, ha ottenuto quello che desiderava. Cosa? La Libertà! La libertà di scegliere COSA fotografare. Ed inizia il suo linguaggio espressivo: il nudo.
Tutto va a pari passo con l’ascesa della moda, apre un’agenzia a Roma dove lavora in simbiosi con la sua compagna Sara, una Roma lontana dalle competizioni meneghine, lontana dagli “sgambetti” e dai preventivi da “calende greche”.
Fashion Files Magazine
uno scatto di Pino Leone
uno scatto di Pino Leone
WOLF Magazine issue 2
Wolf Magazine
Kory
Roxana
Quando gli chiedo se apprezza qualche giovane fotografo mi risponde secco “Non ho tempo per sfogliare il lavoro degli altri, non sono in competizione con nessuno e con tutti i miei amici fotografi c’è un rapporto di stima reciproco”.
Non stento a credergli – Pino è il tipo di persona cui è facile volergli bene – la nostra intervista si è consumata al tavolo di un grazioso ristorante romano, sorseggiando del buon vino, mentre Sara (sua compagna e collaboratrice) racconta del loro orto con la sigaretta in mano e lui fantastica, con l’entusiasmo di un bambino, su una vita alle Seychelles tra rocce, spiagge bianche e fitte foreste. Il luogo delle sue fotografie.
Fotografi preferiti: Helmut Newton – Richard Avedon- Horst P. Horst
La macchina infernale delle settimane della moda donna, al via tra pochi giorni, è in fermento per la collaborazione che vedrà la “madre” dell’arte performativa mettersi al servizio del brandGivenchy , per la prima volta sulle passerelle della Grande Mela.
Storica amica del direttore creativo, Riccardo Tisci, a lei sarà affidata la direzione artistica del fashion show.
Indiscrezioni svelano che sarà un tributo alla famiglia e all’amore, nel segno della passionalità e del crudo realismo a cui l’artista ci ha abituati.
E per celebrare tale evento di attualità, D-Art dedica alla performer serba un editoriale fotografico, ripercorrendone i lavori da solista che hanno fatto la storia, dal 1973 al 1976 e dal 1989 a oggi. In ogni performance, dove il corpo diventa soggetto e medium, vengono esplorati i limiti fisici e mentali resistendo al dolore, all’esaurimento e alla pericolosità, unicamente per cercare una trasformazione emotiva e spirituale.
Così ritroviamo il gioco del coltello di Rythm10; l’offrirsi agli spettatori che, con strumenti di qualsiasi foggia, potevano abusare della sua presenza fisica in Rythm0; le bruciature della stella a cinque punte, elemento simbolo della performance Rhythm 5 e la gestualità di spazzolarsi infinitamente i capelli alla ricerca della perfezione, sino a rasentare la follia, di Art must be beautiful. Freeing the body, Freeing the memory e Freeing the voice ricordano, invece, le opere performative estreme che hanno fatto scivolare la Abramovic in uno stato di totale incoscienza. Nella prima muovendo senza sosta il proprio corpo, avvolgendo il capo in una sciarpa nera; nella seconda risucchiando parole dalla propria mente fino a dimenticarle e nella terza urlando fino a restare senza voce. Si arriva a Dragon Heads, dove la performer si è esibita con cinque pitoni sul suo corpo e all’interattiva The Artist is present, quando ha salutato e condiviso le emozioni con il pubblico per tutta la durata della sua personale al Moma di New York.
E’il desiderio di condivisione del Metodo Abramovic a far nascere ilMAI (Marina Abramovic Institute), un istituto statunitense unico al mondo, in grado di formare e supportare l’arte performativa. Un luogo dove vengono promosse collaborazioni nel segno dell’arte, della scienza e della cultura, all’ interno di un programma ricco di seminari e workshop. Il MAI è, inoltre, la sede dove vengono insegnati una serie di esercizi, studiati e messi a punto nel corso della carriera quarantennale della poliedrica artista.
Colei che viene riconosciuta democraticamente per le profonde analisi sociologiche e psichiche, senza disdegnare collaborazioni con il mondo della moda, una delle più intense e patinate delle arti.
Photographer Miriam De Nicolò
Fashion Editor Alessia Caliendo
Make Up Michael Mic
Hair Tavin Liu
Model Yifei Li, Women Model Management Milan
Graphic Designer Maria Lombardi
Fashion assistants Caterina Castello, Federica Masci
Tunica e pantaloni over Malloni Slip on Superstar Adidas
Giacca tuta training Adidas
Abito lungo Marta Martino
Camicione rigato Lucio Vanotti
Pantaloni in lana Lucio Vanotti
Abito in pelle Trussardi Stola copricapo Malloni
Tunica e gonna longuette Malloni Stivaletti sportivi Fratelli Rossetti
Felpa a costine La Roque Abito strutturato Marta Martino
Uno dei maestri della fotografia del Novecento, precursore dell’emancipazione della donna e autore di scatti passati alla storia: tutto questo è stato Henry Clarke, uno tra i fotografi più prolifici e longevi, le cui foto sono state testimoni di quattro decenni, dagli anni Cinquanta fino ai primi anni Ottanta.
Tanti i generi sperimentati dal genio di Clarke: miriadi di scatti di moda e ritratti di personaggi celebri, il fotografo americano è stato arbiter elegantiae della moda italiana, francese e americana.
Nato nel 1918 in California, a Los Angeles, da immigrati irlandesi, Clarke cresce in un periodo attraversato da numerose correnti culturali. L’esperienza della guerra fa da spartiacque tra il vecchio e il nuovo. Il giovane Henry si avvicina alla fotografia di moda nel 1948, dapprima a New York e poi trasferendosi a Parigi.
Marina Schiano, 1968
Ancora la Schiano, 1968
Editha Dussler in Paulina Trige, 1966
L’immaginario collettivo di quegli anni era dominato dai due fotografi di Vogue Cecil Beaton e Horst P. Horst, entrambi fautori di un’estetica quantomai radicata nella tradizione. Ma si avvertiva sempre più l’esigenza di un cambio di prospettiva, che auspicava un ritorno ad una fotografia più radicata nella realtà. Lo stesso Clarke studiò le foto di Beaton, Horst ed Irving Penn, ma familiarizzò con una macchina fotografica più piccola, la Rolleiflex, a suo avviso capace di portare l’auspicato cambiamento di prospettiva.
Lauren Hutton in un caftano dorato Thea Porter, Vogue UK, dicembre 1969
Simone d’Aillencourt, 1966
Wilhelmina Cooper davanti alla dea Maishasur Mardini in un abito Madame Grès, Jodhour, India, dicembre 1964
La modella Samantha Jones in un caftano dalle stampe optical Livio de Simone, India, giugno 1967
La modella Samantha Jones davanti al tempio dei guerrieri Chichén Itzá, Messico, 1968
Modelle davanti le rovine di Xochicalco, fuori da Guernavaca, in abiti che ricordano i pepli greci, 1968
Samantha Jones in Emilio Pucci, 1967
Clarke fu allievo del vero rivoluzionario della fotografia di quegli anni, Alexey Brodovitch, presso la New School for Social Research. Fu qui che Clarke imparò forse la lezione più importante: come unire la fantasia che serve alla moda con l’energia tipica del reportage. Nel Dopoguerra imperversava uno stile ancora classico e fortemente radicato nella tradizione. Erano gli anni del New Look di Christian Dior, ma si avvertiva sempre più l’esigenza di dare voce ad un nuovo tipo di donna. Life Magazine aveva tristemente testimoniato il conflitto belli o con drammatici reportage fotografici dalle zone di guerra, ma Vogue continuava a commissionare lavori brillanti a Cecil Beaton, relegando la moda in un mondo che appariva talvolta ovattato e lontano dalla realtà.
Fotografie come opere d’arte
Henry Clarke viaggiò in moltissime parti del mondo per il suo lavoro, come l’Iran
I bellissimi paesaggi dell’Iran ritratti da Henry Clarke in foto suggestive
Scatti unici a metà tra moda e reportage
Marisa Berenson spicca in una foto scattata in Iran
Editha Dussler ritratta come una dea tra le rovine romane di Palmira, Siria
Isfahan, Iran, Vogue dicembre 1969
Marisa Berenson in un caftano dorato Tina Leser, 1967
Ancora la Berenson in caftano Halston, 1969
Le meravigliose stampe Emilio Pucci, 1966
Editha Dussler, Vogue giugno 1966
Veruschka, Vogue 1 Dicembre 1966
Editha Dussler su una spiaggia deserta, Vogue 1 Dicembre 1966
Sempre la Dussler, Vogue 1 dicembre 1966
Veruschka in tunica Pauline Trigére, Marocco 1964
La suggestiva location di Petra, 1965
Isa Stoppi per Vogue UK 1966
Una prima rivoluzione iniziò con Irving Penn e Richard Avedon, che portarono il reportage all’interno della fotografia di moda. Clarke iniziò a scattare foto per stilisti celebri, tra cui Dior, Fath, Balenciaga e Chanel. Le sue foto degli anni Cinquanta sono state spesso paragonate al lavoro di Irving Penn per quanto concerne il concetto di eleganza femminile; ma in Clarke manca quel particolare rigore formale e tecnico, come sostenne Nancy Hall-Duncan. In quel periodo egli stesso si fece promotore del risveglio culturale e stilistico dell’America e dell’Europa, coi suoi celebri scatti per riviste del calibro di Femina, Harper’s Bazaar e Vogue, e coi suoi ritratti di personaggi celebri, come Anna Magnani, Coco Chanel, Truman Capote, Cary Grant, Monica Vitti e Sophia Loren.
Veruschka in Jean Louis, 1965
Veruschka posa per Vogue, 2 aprile 1972
Barbara Carrera, foto del 1971
Castello San Nicola L’Arena, vicino Palermo, Vogue 1 dicembre 1967
La modella Barbara Bach fotografata a Villa Trabia, Palermo, in un abito Leslie Fay, Vogue 1 dicembre 1967
Veruschka in Valentino, 1 novembre 1966
Dalla metà degli anni Cinquanta firmò per David Libermann un contratto di esclusiva per le edizioni francese, americana e britannica di Vogue e iniziò a fare numerosi viaggi che lo portarono in giro per il mondo: Messico, Brasile, Spagna, Portogallo, Turchia, India, Iran, Siria ed Italia.
Ma è il decennio successivo che lo consacra al mito: grazie a Diana Vreeland, editor di Vogue, in questi anni Clarke ha ritratto magistralmente la donna moderna. Questa è la parte forse più interessante e più sottovalutata del suo lavoro, ossia l’essere riuscito, per primo, a ritrarre e testimoniare la portata storica della rivoluzione dei costumi sessuali che stava per avere luogo in quegli stessi anni.
Veruschka in Emilio Pucci in un editoriale voluto da Diana Vreeland, ambientato sulle rive del Tanganica, Tanzania, Vogue 1 gennaio 1965
Veruschka in una villa a sud di Roma, con un caftano giallo e una pashmina Ken Scott, novembre 1965
Istanbul, Turchia, Vogue dicembre 1966
Cherry Nelms in top e gonna Brigance fotografata in Portogallo, Vogue giugno 1952
Ancora Sherry “Cherry” Nelms a Olhao, Portogallo, con un bikini Calypso, Vogue giugno 1952
Cherry Nelms a Palermo, gennaio 1955
Abito in seta Bonnie Cashin, 1952
Moyra Swan in total look Anne Klein e cappello Cerruti, Spagna, 1969
Abito gipsy di Donald Brooks, Spagna 1969
Editha Dussler a Göreme, Turchia, abito di Chester Weinberg, dicembre 1966
Viviane, 1974
Altro scatto ambientato in Cappadocia, Göreme, Vogue 1 dicembre 1966
Le foto di Clarke degli anni Sessanta hanno per protagonista una donna moderna, che viaggia in tutto il mondo, indipendente, autosufficiente, sicura di sé. Scatti a colori ricchi di suggestioni etniche, con location mozzafiato. La sua donna è una dea indiana vestita di sari e caftani preziosi, una sacerdotessa che danza per raccogliere il favore degli dei. Cosmopolitismo ante litteram nelle sue foto che ritraggono donne gipsy, vestite secondo i costumi e le tradizioni dei singoli Paesi. Styling elaborati per nuove dee del sole, o zingare extra lusso che girano il mondo cavalcando un mulo, o ancora donne dall’eleganza moderna e rivoluzionaria, ritratte in costumi da bagno Emilio Pucci. Amante del barocco siciliano, celebri sono i suoi scatti ambientati a Palermo, Monreale e Bagheria. Su consiglio della contessa Consuelo Crespi, editor di Vogue US, scattò spesso in antichi palazzi della Capitale, come in quello di Cy Twombly. Suggestive le sue foto all’Eur, ad Ostia, ma anche in Turchia, Iran, tra le rovine di Argira, in Messico tra i templi maya ed aztechi e in Portogallo. Foto come reportage etnografici, con una partecipazione talvolta attiva della popolazione locale, come nello scatto con Isa Stoppi tra gli indios. Capolavori di una modernità impensabile per l’epoca.
L’arte azteca e amerindia, suggestioni indios e rovine di templi induisti diventano protagoniste e si rivelano le location più idonee per dar vita ad insuperabili capolavori di stile. In questo periodo Clarke ritrae modelle del calibro di Veruschka, Marisa Berenson, Benedetta Barzini, Marina Schiano, Isa Stoppi, Simone d’Aillencourt. Un cambio generazionale notevole, per un fotografo che aveva iniziato invece negli anni Cinquanta, ritraendo una femminilità assolutamente diversa. Proporzioni, set, outfits e location: tutto è in mirabile equilibrio nei suoi scatti, vere e proprie opere d’arte.
La modella Isa Stoppi
Marisa Berenson in Sardegna indossa un costume Pucci, 1967
Un altro scatto con la Berenson nelle coste della Sardegna, 1967
Benedetta Barzini in Emilio Pucci, 1968
Veruschka in Givenchy, 1966
Marisa Berenson e Benedetta Barzini nella casa romana di Cy Twombly in abiti Valentino, 1968
Nonostante i numerosissimi viaggi, Clarke restò per tutta la vita residente a Parigi, e morì nel sud della Francia nel 1996. Una retrospettiva sul suo lavoro fu allestita al Musée Galliera di Parigi tra l’ottobre 2002 e il marzo del 2003.
Ci sono fotografie che travalicano gli stessi confini dell’industria del fashion per abbracciare invece un concetto molto più universale, quello dell’arte.
È sicuramente il caso delle foto di Louise Dahl-Wolfe, che tradiscono un’intrinseca perfezione che merita di essere conosciuta ed approfondita.
Louise Emma Augusta Dahl nasce il 19 novembre 1895 a San Francisco da genitori emigrati negli Stati Uniti della Norvegia. Nel 1914 iniziò i suoi studi presso la California School of Fine Arts (oggi San Francisco Institute of Art). Per i sei anni seguenti ampliò gli orizzonti dello studio della fotografia apprendendo nozioni di anatomia e pittura.
Natalie in cappotto Grès, Kairouan, Tunisia, 1950Tunisia, 1950
Deserto del Mojave, California, Harper’s Bazaar, maggio 1948
Successivamente studiò Design ed architettura presso la prestigiosa Columbia University. Nel 1928 convolò a nozze con lo scultore Meyer Wolfe, che allestì i set di molte delle sue foto più famose.
La sua arte fotografica, estremamente all’avanguardia per l’epoca, vedeva una predilezione per la luce naturale e le location esterne come pure per la ritrattistica. Furono ritratti da lei personaggi celebri, da Mae West al poeta W. H. Auden, da Cecil Beaton ad Orson Welles.
Jessica Taft, Trinidad, 1957Mary Sykes, Escambron Beach Club, Porto Rico, Harper’s Bazaar Dicembre 1938
Jean Patchett a Granada, Spagna, 1953
Braccio destro di Diana Vreeland nella redazione del celebre magazine Harper’s Bazaar, è sua la foto di copertina del numero di marzo 1943, che vede una ancora acerba Lauren Bacall, appena scoperta dal lungimirante occhio della Vreeland. Tra le sue modelle preferite Mary Jane Russell, che si stima compaia nel trenta per cento dell’intero patrimonio fotografico lasciatoci da Louise Dahl-Wolfe.
La fotografa influenzò le opere di Richard Avedon e Irving Penn. Uno dei suoi assistenti fu il celebre fotografo Milton H. Greene, famoso per avere immortalato Marilyn Monroe.
Evelyn Tripp a Gioia del Colle, Puglia. 19551956
Uno scatto per Harper’s Bazaar, 1947
La Dahl-Wolfe lavorò per Harper’s Bazaar dal 1936 al 1958, membro dello staff composto da Carmel Snow (editor), Alexey Brodovitch (Art director) e la già citata Diana Vreeland come fashion editor. Immenso è il patrimonio prodotto: 86 copertine, 600 foto a colori ed innumerevoli scatti in bianco e nero.
Tantissimi furono i viaggi di lavoro, che testimoniano ancora una volta l’importanza che la location -meglio se esotica- rivestiva secondo la Dahl-Wolfe. Molte sono le fotografie in cui protagonista è la carta geografica: una mappa, nascosta in un angolo del set o in mano alla modella, sia che indossasse sontuosi abiti da sera o semplici costumi da bagno. Quasi un talismano, o un monito a ricordare quanta eleganza ci sia nell’apprendere nuove culture e nel visitare nuovi angoli del pianeta.
Harper’s Bazaar, Agosto 1949Jean Patchett con mappa, Granada, Spagna, 1953Mary Jane Russell, una delle modelle più amate dalla fotografaAncora Mary Jane Russell
Ritorna la carta geografica, “firma” della Dahl-Wolfe
Dal 1958 fino al suo ritiro, due anni più tardi, lavorò per Vogue, Sports Illustrated e altri magazine. Morì di polmonite nel 1989. Dieci anni dopo, nel 1999, la sua opera fu raccolta in un documentario dal titolo “Louise Dahl-Wolfe: Painting with Light”. Ed è proprio così, i suoi scatti ricordano spesso dei ritratti, sapientemente creati grazie ad un uso magistrale della luce. Quel che più colpisce è la modernità di certi suoi scatti, semplici eppure di grande effetto.
Atmosfere esotiche in molti dei suoi scatti, come questo, del 1950Scatto per Harper’s BazaarAncora Harper’s BazaarScatto molto raro, per Harper’s Bazaar Maggio 1946Editoriale moda per Harper’s Bazaar con le carte da gioco, Agosto 1953Un’altra foto tratta dallo stesso editorialeUna delle tante cover per Harper’s BazaarL’incredibile modernità nell’uso della luceLady Margaret Strickland con turbante, 1938
Suzy Brewster, Miami, Florida, 1941
Una donna dalla personalità molto forte, che lasciò il suo posto nella redazione di Harper’s Bazaar quando alla Vreeland subentrò un nuovo fashion editor, che tentò -senza successo- di cambiare lo stile delle sue foto. I suoi scatti restano ancora oggi un insuperato capolavoro di stile. Per veri intenditori.
Talent scout di modelle del calibro di Iman, conoscitore ed amante dell’Africa, scrittore e saggista nonché artista visionario, Peter Beard è uno dei personaggi più affascinanti e carismatici della fotografia di moda.
Nato nel 1938 a New York, laureato presso l’università di Yale, i primi viaggi nel continente africano risalgono al 1955 e al 1960. Innamorato dell’Africa, coi suoi colori e le sue suggestioni, Beard diverrà uno degli artisti più capaci di esaltarne la bellezza. Trasferitosi in Kenya dopo la laurea, divenne amico diKaren Blixen. Grazie alla sua arte fotografica la moda ha iniziato ad esaltare le indescrivibili bellezze offerte dalle location del continente africano.
Firma del calendario Pirelli del 2009, un’edizione unica ambientata in Botswana, i suoi scatti sono un connubio di arte e natura. Immagini forti, che sembrano in movimento e donne ritratte nel loro lato più selvaggio, come feline pronte ad attaccare, indomite ribelli forti della propria sensualità.
Un occhio ed un gusto unico, capace di esaltare la ricercata eleganza e al contempo la naturale bellezza, celebri sono gli scatti con Veruschka e la stessa Iman. Altre collaborazioni celebri furono con Andy Wahrol, Truman Capote e Francis Bacon.
Personaggio chiave della fotografia, i suoi scatti ampliano la mera definizione di fotografia di moda per abbracciare invece un’arte a trecentosessanta gradi.
Immagini come patchwork al confine tra arte visiva e reportage, scorci da cartolina e un occhio che si riconosce anche quando travalica il continente africano. Una personalità capace di ammaliare. Come i suoi diari fotografici, vere perle da custodire gelosamente.
Vivian Maier era una bambinaia con l’ossessione della fotografia. Una bambinaia con una Rolleiflex al collo, che preferiva portare i bambini in periferia tra le prostitute anziché al parcogiochi.
Vivian Maier aveva deciso di fare la bambinaia, perché era l’unico mestiere in grado di lasciarle molto tempo a disposizione per fotografare “la strada”, chi l’ha conosciuta la descrive come una donna schiva, introversa, paranoica, collazionatrice compulsiva di notizie macabre, una donna che metteva in guardia le bambine dagli uomini, forse una bambina abusata, certo una donna morta in solitudine.
Le sue fotografie vengono scoperte molto tempo dopo la sua morte, abbandonate in scatole chiuse in un garage, rullini ancora da sviluppare – a centinaia. Ed esplode la scoperta Maier!
Un talento innato, tutta la fragilità dell’anima umano, una tenerezza con risvolti di generosità e dolcezza; un’osservatrice acuta la Maier, che ha fatto della fotografia la sua unica ragione di vita.
Quando un delinquente veniva arrestato, lei c’era, quando trovavano un cadavere, lei era lì sul luogo del delitto, onnipresente come un fantasma, non si perdeva un solo istante di quelle vite estranee, ogni minuto passato a frugare nella quotidianità altrui, piuttosto che parlare della propria. Di Vivien Maier non si sa nulla, rimangono solo i suoi autoritratti – a volte sono solo riflessi attraverso un vetro o figure sulfuree che appaiono sui vassoi d’argento di una vetrina.
Ombre, presenze, la sua figura slanciata e imponente, tra la folla che si rimpicciolisce in lontananza, una presenza scomoda, destinata al successo solo dopo la morte.
Undated, New York, NYUndated, Milwaukee, WisconsinUndated, New York, NYUndated, Chicago, ILUndated, Chicago, ILUndated1959, Grenoble, FranceUndated, New York, NYUndated, New York, NYUndated, New York, NY1950s, Canada1953, New York, NYNovember 1953, New York, NYFall 1953, New York, NYChristmas Eve 1953, East 78th Street & 3rd Avenue, New York, NY1954, New York, NYMarch 18, 1955, New York, NYSeptember 24, 1959, New York, NY1961December 21, 1961. Chicago, IL
Eugenio Recuenco è un fotografo e regista spagnolo di fama internazionale il cui genere si differenzia dagli altri in quanto “pittorico” e cinematografico. Non a caso Recuenco studiò pittura all’Università ed egli stesso afferma: “L’uso dei colori e delle luci sulle mie foto, sono le stesse che utilizzerei per i miei quadri”.
La sua teatralità, ironia e cupidigia nei lavori lo rende unico nel suo genere e riconoscibile: luci rembrantiane, mostri, personaggi da circo sono le figure che predilige.
Numerose le serie che ripercorrono le favole, reinterpretandole o film a cui il fotografo si ispira liberamente. Il suo background culturale è senza dubbio la sua forza, oltre alla sofisticata ricerca di costumi di scena e location suggestive.