Ti piace il presepe?

In tempi di presepi viventi o morenti (o già morti?), di presepi contestati o affermati, vietati o usati come un manganello per confermare un’identità culturale, ritorna la domanda decisiva, posta una volta per tutte dal grande Eduardo De Filippo più di ottanta anni fa: «Te piace ‘o presepio?».
Nella sua celeberrima commedia Natale in casa Cupiello il presepe diventava da una parte il simbolo di una tradizione solida, capace di dare un senso alle cose della vita, dall’altra il segno di una volontà di chiudere gli occhi di fronte alle contraddizioni e alle storture dell’umana esperienza, una specie di paradiso artificiale fatto di muschio, di pecorelle e di ipocrisia.


La parola latina praesaepe, da cui deriva l’italiano presepe o presepio, significa stalla. Perciò “fare il presepe” vuol dire costruire una scena in cui una stalla ha il ruolo principale. Come narrano i Vangeli, fu proprio in una stalla che nacque Gesù, circondato da un coro di angeli, dai pastori della zona, da alcuni sapienti orientali e soprattutto dall’affetto della sua mamma Maria e di Giuseppe, il padre che lo aveva adottato: infatti il vero padre di Gesù è Dio.
Naturalmente questa bellissima storia ha valore per i credenti cristiani, i quali sono tali proprio perché credono al racconto dei Vangeli. Tuttavia anche i non credenti o i credenti in religioni diverse dal cristianesimo possono trovare in questa narrazione (e nel presepe che ne deriva) dei grandi valori spirituali o culturali, anche se non condividono la stessa fede in quel bambino nato a Betlemme.
Con il passare degli anni, poi, i cristiani arricchirono la narrazione evangelica per mezzo di altre tradizioni più o meno leggendarie: sono i cosiddetti Vangeli apocrifi. Ebbene, soprattutto nella rappresentazione della nascita di Gesù, queste tradizioni hanno avuto molta importanza, con l’inserimento di particolari dalla forte carica simbolica.


Ti piace il presepe?


Tra i dettagli registrati solo negli apocrifi, incontriamo due animali, il bue e l’asino, che probabilmente sono le bestie più caratterizzate nella storia dell’arte. La loro presenza accanto al neonato Gesù di solito viene interpretata in funzione di riscaldamento: con il loro alito e la loro vicinanza fisica hanno evitato che il bambino patisse eccessivamente il freddo.
Ma, al di là di questo, il bue e l’asino hanno dei significati molto più profondi. Dobbiamo fare un passo indietro e risalire a settecento anni prima di Cristo. Racconta la Bibbia che il profeta Isaia, parlando in nome di Dio, aveva rimproverato il popolo di Israele, perché era stato ingrato e non aveva vissuto secondo gli insegnamenti divini, dicendo: «Il bue conosce il suo proprietario e l’asino la greppia del suo padrone, ma Israele non conosce, il mio popolo non comprende». I cristiani dei primi secoli, invece, interpretarono queste parole non come un biasimo e un ammonimento, ma come una profezia (del resto, era stato un profeta a pronunziarle!). È come se Isaia avesse detto: verrà un giorno in cui il bue e l’asino conosceranno il loro vero signore. Ed eccoli, allora! Il bue e l’asino nella stalla di Betlemme stanno a significare che la profezia si è compiuta e perfino gli animali sanno identificare in quel bambino la presenza di Dio.


Alcuni antichi scrittori, poi, fecero un passo avanti e paragonarono il bue al popolo degli Ebrei, perché posti sotto il giogo della legge, e l’asino ai popoli pagani, perché intestarditi nell’ignoranza di conoscere il vero Dio.
A questo punto il cerchio si chiude: questi due simpatici animali, che per secoli hanno costituito l’asse portante della civiltà contadina, sono il simbolo di tutta gli esseri umani invitati ad incontrarsi presso la culla di Gesù: sia di quelli che attendevano il messia (gli Ebrei) sia di quelli che non lo attendevano (i pagani).


Gli artisti, infine, aggiunsero il tocco magico della loro intelligenza e abilità e raffigurarono questi nostri “rappresentanti” sempre più partecipi del grande avvenimento della natività. Così, ad esempio, Giotto nella Cappella degli Scrovegni a Padova, mentre dipinge l’intenso dialogo di sguardi tra Maria e il figlioletto, presenta il bue che condivide la stessa esperienza visiva e fissa i suoi occhi (i «pazienti occhi», dirà il Carducci) inserendosi in quello straordinario colloquio d’amore. Piero della Francesca, a sua volta, coglie il momento in cui l’asino unisce la sua voce (immaginiamo il … mirabile concerto natalizio!) a quella degli angeli.
Cosa risponderemo all’immortale domanda di Eduardo?
Ci piace il presepe?

Buon compleanno, Jane Fonda

Spegne oggi 78 candeline Jane Fonda. Attrice di fama mondiale, icona di bellezza e guru dell’aerobica, una carriera sfolgorante che l’ha resa un vero e proprio mito: vincitrice di ben due Premi Oscar, 6 Golden Globe e innumerevoli altri riconoscimenti, protagonista di pellicole che sono entrate di diritto nella storia del cinema, Jane Fonda è stata attrice simbolo di almeno tre decenni, dagli anni Sessanta agli anni Ottanta. La bellezza e la maliziosa sensualità, il glamour e le atmosfere spaziali di Barbarella, l’indimenticabile film che le diede la fama a livello internazionale, e poi l’impegno politico e il femminismo, di cui la diva è stata pasionaria.

Jane Seymour Fonda è nata a New York il 21 dicembre 1937, da Henry Fonda e Frances Seymour Brokaw. Nelle sue vene scorre sangue inglese, scozzese, francese e italiana; i suoi antenati per linea paterna emigrarono nel Cinquecento da Genova nei Paesi Bassi, per poi trasferirsi nel Seicento nelle colonie britanniche del Nord America, in una cittadina attualmente chiamata Fonda, nell’attuale stato di New York. La bella Jane vanta origine italiana anche dal ramo materno, in quanto discendente dell’aristocratico vicentino Giovanni Gualdo. Il matrimonio infelice dei suoi porta la madre di Jane a compiere un gesto disperato, togliendosi la vita; il padre, tolti i panni di divo cinematografico, nella vita domestica è un uomo freddo e distaccato, che non fa che ripeterle che è grassa e che dovrebbe dimagrire. Come la stessa Jane Fonda dichiarerà più avanti nel corso delle sue interviste, il sentirsi disprezzata da parte del padre fu la molla che la gettò nel baratro dei disturbi alimentari.

La giovane Jane non sembra inizialmente interessata alla carriera cinematografica. Dopo il diploma, conseguito presso il Vassar College, e dopo un periodo trascorso in Europa, fa ritorno negli States con l’intenzione di lavorare come modella. Il volto dai lineamenti vagamente infantili, i capelli biondi e la grande fotogenia colpiscono fotografi del calibro di Horst P. Horst, che la immortala su Vogue nel corso degli anni Cinquanta. Ma è l’incontro con Lee Strasberg ad aprirle le porte del cinema, convincendola a frequentare le lezioni di recitazione presso il celebre Actor’s Studio. Il debutto cinematografico avviene nel 1960 con In punta di piedi, dove Jane Fonda recita accanto ad Anthony Perkins. Nel corso degli anni Sessanta l’attrice prende parte a numerosi film di successo, alternando con disinvoltura il genere drammatico alla commedia. Ha come partner lavorativi attori celebri, da Marlon Brando a Robert Redford, con cui recita nell’indimenticabile A piedi nudi nel parco.

Jane Fonda fotografata da Horst P. Horst, 1959
Jane Fonda fotografata da Horst P. Horst, 1959

Jane Fonda in "Barbarella", 1968
Jane Fonda in “Barbarella”, 1968


Sbarazzina e insieme sofisticata, nel 1964 Jane viene inserita dal regista Roger Vadim nel cast di Il piacere e l’amore. Tra i due nasce una relazione amorosa che sfocia in un matrimonio, celebrato l’anno successivo. Vadim intuisce fin da subito il potenziale erotico dell’attrice e la dirige in pellicole che la consacrano come sex symbol internazionale. La fama arriva con il celebre film Barbarella, del 1968, interamente incentrato sulla bellezza della protagonista, su uno sfondo fantascientifico. Ma a Jane Fonda l’etichetta sexy sta stretta: la diva è troppo intelligente per non capire quanto la sua strabordante sensualità possa essere un’arma a doppio taglio, che alla lunga rischia di comprometterne le capacità drammatiche. Icona femminista, la diva si ribella all’immagine di bella svampita che i media le attribuiscono e scende in politica, come attivista contro la guerra del Vietnam. La sua visita ad Hanoi assume portata quasi storica, come anche la sua propaganda filo-nord-vietnamita. L’opinione pubblica si schiera apertamente contro di lei e le affibbia il soprannome di “Hanoi Jane”. Solo molti anni più tardi l’attrice rivedrà le sue posizioni politiche, commentandole a posteriori con rinnovato senso critico.

Intanto indirizza la sua carriera verso ruoli di maggiore spessore drammatico: arriva così nel 1969 la prima delle sue sette candidature all’Oscar con il film Non si uccidono così anche i cavalli?, di Sydney Pollack; nel 1971 vince l’Oscar come miglior attrice protagonista con Una squillo per l’ispettore Klute, nel ruolo della prostituta Bree Daniel. La seconda statuetta arriva nel 1978 per Tornando a casa di Hal Ashby. Intanto il matrimonio con Vadim naufraga e Jane sposa in seconde nozze il politico Tom Hayden, che ha un passato da pacifista. Nei primi anni Ottanta prende parte al film Sul lago dorato, dove recita per la prima ed unica volta accanto al padre Henry. Successivamente accantona la carriera cinematografica per abbracciare la nuova passione per la fitness. I suoi video di esercizi di ginnastica aerobica divengono un vero e proprio fenomeno. L’attrice, dopo anni di lotta contro la bulimia, sdogana l’esercizio fisico come nuova moda, e neanche un infarto riesce a fermarla. Nei primi anni Novanta il terzo matrimonio con il magnate della comunicazione Ted Turner, che durerà un decennio.


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Icona femminista, Jane Fonda si è apertamente schierata contro l’emarginazione in cui vengono relegate le donne di una certa età ad Hollywood come anche nella vita comune. Celebre la sua presa di posizione al riguardo, per cui “se un uomo ha molte stagioni, una donna ha diritto solo alla primavera.” Attiva sul piano umanitario, la diva nel 2001 ha donato alla Scuola di Educazione dell’Università di Harvard la somma di 12.5 milioni di dollari, al fine di creare un “Centro per gli Studi educativi”: secondo l’attrice la cultura dominante darebbe messaggi sbagliati e diseducativi alle future generazioni che distorcerebbero i rapporti tra uomini e donne. Nel 2005 è stata pubblicata la sua autobiografia, intitolata La mia vita finora. Vulnerabile e insieme tagliente, la diva ha recentemente ammesso di essere ricorsa al bisturi, e che in virtù di tali interventi estetici avrebbe guadagnato un altro decennio di attività lavorativa, in un ambiente in cui invecchiare è considerato quasi uno scandalo. Il suo volto non ha perso fortunatamente la straordinaria espressività che ce l’ha fatta amare in film indimenticabili. Ancora splendida nonostante il passare del tempo, sagace ed ironica come di consueto, ha ammesso che il sesso costituisce oggi una parte fondamentale della sua vita. Attualmente residente ad Atlanta, in Georgia, la diva ha iniziato un percorso di rinascita per abbracciare la fede cristiana.


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La Francia dice no all’anoressia

La Francia dice no all’anoressia

È stato approvato in Francia il nuovo decreto legge che vieta l’eccessiva magrezza delle modelle. Il provvedimento è stato al centro di numerosi dibattiti a livello europeo ed internazionale: adesso l’approvazione da parte del Parlamento della Repubblica francese, con cui si intende creare delle regole che disciplinino il mondo della moda e le sue protagoniste.

La legge anti-anoressia prevede l’attestazione della buona salute delle modelle, attraverso un certificato medico che dia prova dell’assenza di disturbi alimentari di qualsiasi natura. Il provvedimento decreta dure sanzioni penali per tutti coloro che non rispetteranno le regole, media compresi, rei di aver promosso fino ad oggi modelli irraggiungibili ed errati comportamenti alimentari. Il certificato medico dovrà fornire tutte le informazioni relative allo stato di salute delle mannequin: in primis dovrà essere indicato l’indice di massa corporeo, e dovrà essere accertato che esso sia conforme alla norma, considerata la morfologia della persona, la percentuale di grasso corporeo, le abitudini alimentari e la regolarità del ciclo mestruale. Indizi, questi, che riveleranno senza alcun margine di dubbio il reale stato di salute della modella nonché la sussistenza di eventuali regimi dietetici estremi cui la stessa modella potrebbe sottoporsi per rientrare negli standard proposti dal fashion biz.

In caso di sgarro le sanzioni saranno durissime: si parla di multe fino ai 75mila euro, previste sia per la modella che per la sua agenzia, che potranno addirittura rischiare misure di custodia cautelare fino a sei mesi di reclusione. Inoltre sono previste sanzioni anche per tutti i media che pubblicheranno foto ritoccate nel tentativo di accentuare la magrezza delle modelle rappresentate, o anche nel caso inverso, ossia facendo sembrare più grasse modelle in realtà filiformi. L’uso di Photoshop, controverso mezzo per alterare la realtà rappresentata nelle immagini pubblicitarie, sarà ammesso solo se la foto recherà la dicitura di “foto ritoccata”. Qualora i media non dovessero attenersi a queste normative sono previste sanzioni fino a 37mila euro (nel caso il reato venga reiterato) o pari al 30% degli introiti pubblicitari.

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Isabelle Caro, modella francese morta di anoressia nel 2010

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La campagna scandalo firmata Oliviero Toscani


Una legge che si è imposta sempre più come un’esigenza, in un Paese in cui le percentuali di persone che soffrirebbero di disturbi del comportamento alimentare sono a dir poco allarmanti: si stima infatti che sarebbero affette da disturbi alimentari tra le 30.000 e le 40.000 persone, il 90% delle quali in età adolescenziale. Una vera e propria emergenza sociale, che getta pesanti responsabilità sul mondo della moda, reo di aver eretto ad ideali di perfezione fisica modelli irraggiungibili. Resta da capire quanta responsabilità possa realisticamente avere la moda, considerato che anoressia e bulimia sono anche manifestazioni di un disagio profondo, che trova radici nella storia personale e familiare dell’individuo, prima che in eventuali influenze esterne.

Viene alla mente la tragica storia di Isabelle Caro, attrice francese che scelse di diventare modella proprio per testimoniare la pericolosità di certi comportamenti: nel suo caso fu la presenza di una figura materna ingombrante e malata ad instaurare il meccanismo di annullamento di sé tipico dell’anoressia. La Caro, dopo anni di battaglie sociali e numerosi tentativi di salvarsi, non ce l’ha fatta, morendo ad appena 28 anni, lo scorso 2010. Restano le sue foto, che rivelano una ragazza distrutta interiormente prima che fisicamente, come la controversa campagna pubblicitaria in cui Oliviero Toscani la ritrasse nuda, vestita solo di una profonda disarmante sofferenza.


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RED BULL KRONPLAZ CROSS: ADRENALINA ALLE STELLE

Il 26 e il 27 febbraio 2016 la pista di Plan de Corones, Brunico, si trasformerà nella cornice perfetta per la gara di sci più adrenalinica in assoluto: Red Bull Kronplaz cross.
Caschetto, tuta, occhiali, sci ai piedi e via, giù per una pista ricca di ostacoli alla velocità della luce, tra acrobazie e tanto sano agonismo.
Saranno circa 70 i team (circa 210 atleti provenienti da ogni angolo del globo) che prenderanno parte a questa quinta edizione di una meravigliosa manifestazione sportiva, organizzata dalla Red Bull.
Veri e propri professionisti dello skicross, ma anche amatori, tutti pronti a dare spettacolo, sotto i riflettori puntati sulla pista (è una gara di due giorni che si svolgerà in notturna), per contendersi il titolo skicross 2016.

Una gara che assume le vesti di una staffetta ad eliminazione: quattro team alla volta, formati da 3 atleti, affronteranno le chiuse curve e i salti presenti nel tracciato, alla massima velocità possibile: solo i più veloci passeranno il turno.
Ogni atleta, arrivato al traguardo, azionerà uno specifico pulsante, il quale darà il via al suo compagno di squadra, pronto a partire a monte. Il terzo atleta, che per primo arriverà al traguardo, decreterà la vittoria della propria squadra.
Si tratta, quindi, di una gara molto veloce, pronta ad eliminare i concorrenti alla loro minima distrazione: un semplice errore potrebbe decretare l’eliminazione di una squadra.
Tanta grinta e concentrazione al massimo: sono questi i due elementi che mai devono mancare nella figura del perfetto atleta di skicross.

Momento della staffetta in cui viene azionato il pulsante che darà il via al proprio compagno pronto a partire.
Momento della staffetta in cui viene azionato il pulsante che darà il via al proprio compagno.

Un percorso breve, di poco più di un chilometro, ma molto difficile: zone di soffice neve si alternano a zone di ghiaccio con ostacoli davvero duri da superare, data anche la velocità alla quale si scende. Salti, woops, veri e propri tunnel e curve che sfidano le più solide teorie della fisica.
Ma, tutto ciò non spaventa gli atleti: è il loro pane quotidiano.
Una pista meravigliosa, studiata nel minimo dettaglio, che sicuramente metterà in difficoltà i numerosi atleti partecipanti, ma che comunque regalerà loro emozioni indescrivibili e quella grinta necessaria per affrontare nel migliore dei modi il percorso. Emozioni che arriveranno anche ai tutti i presenti (nelle passate edizioni i numeri degli spettatori è stato davvero alto, una grandissima partecipazione) che con gli occhi sgranati e il cuore in gola seguiranno ogni singolo metro percorso dagli atleti.

Uno degli incredibili tunnel presenti nel percorso
Uno degli incredibili tunnel presenti nel percorso

Red Bull Kronplaz cross 2016 è la manifestazione più adrenalinica nella categoria degli sport invernali: un evento sportivo da non perdere assolutamente.

Salti spettacolari di una gara mozzafiato
Salti spettacolari di una gara mozzafiato

EMERGENZA IMMIGRAZIONE: ANCORA TRAGEDIE IN MARE NEL SILENZIO EUROPEO

Un altro viaggio in mare, il quale doveva essere l’inizio di una nuova vita per le tante persone presenti sull’imbarcazione, si è trasformato in una vera e propria e tragedia: 18 vite umane sono state inghiottite dall’immensità del mare, proprio davanti le coste della Turchia. Tra i morti 10 bambini.
Notizie che fanno rabbrividire e che, allo stesso tempo, dovrebbero far riflettere: non si può morire così.
Fuggire da zone di guerra, in cui morte e devastazione regnano come sovrani indiscussi, con il dolore negli occhi, per sperare di cambiare la propria vita, o meglio, per sperare di continuare a vivere: è questa la triste realtà, la situazione delle tante persone che, strette nei pochi metri di una barca, troppo piccola e malandata, affrontano, con disperato coraggio, la traversata della salvezza.
Salvezza? Magari: altro naufragio, altre 18 vite spazzate via dalle onde di un mare che non perdona e che pian piano si sta trasformando in un vero e proprio cimitero.
Questa volta è toccato ad una piccola imbarcazione a bordo della quale vi erano profughi provenienti dalle zone più devastate, più pericolose: persone che fuggivano da Iraq, Siria e Pakistan.
Il naufragio è avvenuto a Bodrum Bay a meno di 4 chilometri dalle coste turche.
Sono stati dei pescatori del luogo ad avvertire i soccorsi, dopo aver udito in lontananza le disperate urla dei profughi.
Sono circa 600 le persone che solo quest’anno hanno perso la vita in quelle acque: la rotta del mediterraneo orientale, o forse, meglio ridefinirla come la rotta della morte.

CIFRE DA PAURA
Nel 2015 il numero dei migranti che hanno cercato di attraversare il mediterraneo, per giungere sulle coste europee, si è quadruplicato rispetto al 2014: sono più di un milione le persone che, scappate da zone di guerra, sono riuscite ad arrivare in Europa.
Un flusso di migranti che non accenna a diminuire e che sta creando non pochi problemi: l’Europa sembra non essere in grado di fronteggiare tale situazione.
L’Italia, così come la Grecia, che sono le destinazioni raggiungibili più facilmente, più volte ha chiesto un solido e valido aiuto alla Comunità Europea, dalla quale sono arrivate solo promesse, ma mai è stato attuato, tutt’ora, un concreto piano d’azione per fronteggiare tale situazione.
Secondo i dati resi noti dall’ Oim, il 2015 può essere tranquillamente definito come l’anno delle migrazioni: 1 persona su 120 è stata costretta da guerre, devastazioni, violenze e persecuzioni ad abbandonare la propria casa, a lasciare per sempre la propria terra, per dirigersi verso Paesi liberi. Un flusso migratorio di dimensioni impressionanti, che purtroppo conta un numero di vittime davvero alto: solo negli ultimi mesi, i morti in mare sono stati più di 400.

IL SILENZIO EUROPEO
Il mare aumenta sempre più di volume: troppe lacrime sono state versate dalle persone che affrontano questi viaggi della speranza, troppe lacrime di mamme che hanno visto annegare i loro piccoli.
E, mentre nei nostri mari continuano i naufragi e sempre più persone continuano a perdere la loro vita, cosa succede in Europa? Niente.
Proprio così, niente.
La notizia del naufragio dura al massimo due giorni, rimbalzando come una pallina da tennis impazzita, tra un notiziario all’altro, e riempendo quelle due righe dei maggiori quotidiani.
Poi, il silenzio.
La notizia, velocemente diffusa dai media, è pronta a scoppiare, come una bolla di sapone, poco dopo. Velocemente si diffonde, velocemente si dissolve.
Ma, la cosa inquietante, a parte vedere le immagini che testimoniano tali tragedie, è il fatto che la notizia è sola: mai è accompagnata da altra notizia che descriva un nuovo piano di aiuti, una linea d’azione concreta da adottare per fermare tali tragedie. No, niente.
L’Europa si arrabbia alla vista di quelle atroci immagini, ma basta girare le spalle e tutto torna alla normalità.
Non si parla di un’emergenza delle ultime ore, ma di una situazione di emergenza che va avanti ormai da mesi, da anni. È normale non riuscire a fronteggiare situazioni così complicate, data la grandezza del flusso migratorio, nei primi periodi, però, sulla distanza di un anno qualcosa in più poteva essere fatto. Sarebbe bastato un controllato corridoio umanitario.
Invece, siamo ancora incapaci a fronteggiare una situazione del genere.
Si parla sempre di cooperazione Europea ed Internazionale, ma forse ancora non si è compreso il vero significato del termine, il quale sembra essere un sinonimo di “egoismo”.

OLIMPIADI 2024: ROMA TRA LE CITTA’ CANDIDATE

Tante sono le prestigiose candidature presentate da diverse città: tra queste c’è anche Roma. Entusiasmo e ottimismo alle stelle per la candidatura della capitale italiana. Presentato anche il logo “Roma 2024”

La lista delle città, le quali si sono definite pronte, anzi prontissime, ad accogliere la prestigiosa manifestazione dei Giochi Olimpici del 2024, è stata già da tempo stilata e consegnata: tra le tante città c’è Roma.
La capitale italiana è pronta a trasformarsi, anche se per poco tempo, nella culla ideale dello sport?
Secondo i nostri rappresentanti, sia del mondo politico, che di quello sportivo, si.
Roma è pronta e vola sulle ali di un solido e forte ottimismo.
La bellezza incantata di una città meravigliosa, la “città eterna”, a far da cornice a quella che tranquillamente può essere definita come la “manifestazione delle manifestazioni” del magico e bellissimo mondo dello sport.
Roma-Olimpiadi: un binomio perfetto, non credete?
Un sogno che presto potrebbe trasformarsi in una splendida realtà: il sogno di ogni amante dello sport, quello vero, potrebbe essere esaudito. I presupposti ci sono tutti.

Questo il logo presentato dall'Italia per le Olimpiadi del 2024
Questo il logo presentato dall’Italia per le Olimpiadi del 2024


CHE ARIA TIRA TRA GLI ESPONENTI DEL GOVERNO?
Due parole: convinzione e ottimismo.
È lo stesso Matteo Renzi, presidente del Consiglio italiano, a definirsi come convinto, ai massimi livelli, che la candidatura dell’Italia, presentata sotto il pesante nome di Roma è stata una mossa giusta. La perfetta strategia per creare nuove e più solide basi per lo sport italiano, il quale, soprattutto negli ultimi tempi, a causa di scandali e illeciti, ha mostrato alla collettività diverse falle.
Problemi che devono essere assolutamente risolti al più presto. Portare le Olimpiadi in Italia è, secondo chi ci governa e chi nel mondo dello sport ci rappresenta, la mossa giusta. Bisogna solo posizionare sapientemente le pedine sulla grande scacchiera mondiale e, mossa dopo mossa, eliminare le pedine degli avversari, per gridare scacco matto alle diverse città concorrenti.
Boston, la città rivale che l’Italia temeva di più, si è già ritirata, designando Parigi come la diretta avversaria del Bel Paese.
Tutto questo ha ingigantito l’ottimismo italiano: ci si muove velocemente e a ritmi incessanti, che metterebbero a dura prova chiunque. Si scava, per ora, in un buio tunnel, perché l’Italia non ha ancora in mano niente, nessuna certezza, ma solo tanta voglia di vincere, di prevalere sulle dirette avversarie.
Una piccola luce, però, dalle profondità del tunnel, comincia a vedersi. Proprio quella luce che sta guidando l’Italia e le sta dando la forza e l’ottimismo necessario per puntare alla vittoria.
Immaginare Roma, come l’Olimpo dello sport, è lecito.

OLIMPIADI ROMANE: TRA SPORT E CULTURA
In una situazione così difficile da gestire, come quella che oggi l’Italia, così come ogni singola nazione del mondo si trova ad affrontare, a causa del clima di paura creato dal terrorismo, manifestatosi nei recenti attacchi e che continua ad incutere timore, attraverso continue minacce, lo sport potrebbe essere l’arma giusta da utilizzare.
Lo sport come arma offensiva che, supportata dalla cultura, della quale lo sport è espressione, lancia delle vere e proprie bombe di valori, quelli veri, puri.
Lo sport come arma difensiva, che come uno scudo protegge la collettività, l’intera società, creando in un clima di festa, un’unione solidissima tra i cittadini.
Una manifestazione sportiva per allontanare la paura.
Lo sport è socialità, è vita.
Lo sport è una tessera di fondamentale importanza, senza la quale è impossibile completare il puzzle della cultura. In ogni società, che fa della cultura il collante per unire i singoli consociati, è il rispetto ad emergere come fattore predominante della totalità delle relazioni sociali.
Lo sport insegna il rispetto, il rispetto è cultura.
Inoltre, attraverso lo sport si manifesta l’identità nazionale.
Portare le Olimpiadi in Italia è un segnale forte per i giovani: uno Stato che investe nello sport, è uno Stato che punta sui giovani.
Cultura e sport: sì, suona davvero bene!

INIZIANO I LAVORI
L’Italia può farcela, deve farcela.
Il governo ne è consapevole ed ha dato il suo consenso per ingenti investimenti, destinati a opere sportive e non solo, in vista di una possibile elezione di Roma come città ospitante delle Olimpiadi.
Tantissimi saranno gli impianti che dal nulla nasceranno e altrettanto numerose saranno le azioni di manutenzione e potenziamento di quelli già esistenti. Grandi somme, inoltre, sono destinate al rafforzamento e alla più alta valorizzazione delle periferie, al fine di creare un apparato unico, espressione di efficienza, funzionalità e perfezione. Investimenti per creare quel necessario equilibrio all’interno della società.
Il denaro da investire, la voglia di vincere e l’ottimismo ci sono: ora si lavora, senza mai abbassare la guardia, per sperare di portare a casa uno storico risultato.
L’Italia si sta dimostrando preparata e pronta più che mai ad accogliere i Giochi Olimpici del 2024: tanti Paesi e tanti atleti riuniti all’ombra del tricolore italiano, pronto a sventolare più forte sotto la spinta di un vento di passione.
La passione per lo sport, per la cultura, per la vita.

Gigi Hadid designer per Tommy Hilfiger

Dopo aver calcato le passerelle di Tommy Hilfiger, la top model Gigi Hadid si improvvisa designer per il brand americano. La bionda supermodella starebbe infatti lavorando fianco a fianco allo stilista per la creazione di un’esclusiva capsule collection: abiti, calzature, accessori (tra cui occhiali ed orologi) e un profumo che arriveranno nei negozi nell’autunno 2016.

Una scelta vincente che dimostra la grande padronanza delle strategie di marketing da parte del leggendario brand americano: lunghi capelli biondi e viso perfetto, la modella è seguitissima sui social network, a partire da Instagram, dove conta oltre 10 milioni di followers, incantati dai suoi selfie hot. Un progetto che si preannuncia già come un grande successo: le prime foto della campagna pubblicitaria della nuova collezione verranno scattate già nei primi giorni del 2016, a New York.

Una capsule collection che non deluderà certamente le aspettative, considerata l’avvenenza e l’estro della vulcanica Gigi. Per la prima volta la splendida supermodella si calerà nei panni di designer: la collezione di womenswear sarà accompagnata anche dalla creazione di una nuova fragranza in esclusiva. L’hashtag per seguire le news sull’evento è #TOMMYXGIGI. Ne sentiremo parlare.

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STORICO ACCORDO GLOBALE SUL CLIMA: SOLO PROMESSE?

Approvato un “accordo globale” sul clima del nostro Pianeta. Tanti i punti di fondamentale importanza: dalla riduzione della temperatura del Pianeta ai diritti umani.

Parigi, 12/12/2015: una data che resterà nella storia. Approvato il grande accordo mondiale sul clima, per la salvaguardia del nostro amato Pianeta (forse troppo amato non lo è) da parte dei 195 Paesi partecipanti.
Una grande trattativa, la quale ha messo l’una dinanzi all’altra le forze dei governi di tutto il mondo, per cercare dei punti di incontro, certi e vincolanti, al fine di limitare l’inquinamento, il quale ormai ha raggiunto livelli incredibilmente preoccupanti, e per dare nuove garanzie ai Paesi più poveri e in via di sviluppo, troppo spesso vittime dello “sciacallaggio” dei Potenti.
Viviamo nell’epoca del grande sfruttamento, che come un treno in corsa si sta dirigendo verso l’ultima destinazione: il capolinea, un punto di non ritorno.
Lo sfruttamento delle risorse, spregiudicato e basato solo sul presente, senza nemmeno un minimo di attenzione rivolta al futuro, alle nuove generazioni, in questa che è l’era dei combustibili fossili, ha generato livelli di inquinamento preoccupanti, catastrofici.
Il nostro Pianeta ha la febbre: il riscaldamento globale gli sta pian piano portando via tutte le sue forze, eliminando, giorno dopo giorno, qualsiasi risorsa che ci ha offerto fin’ora.
La situazione, definibile preoccupante e pericolosa, è giunta, finalmente, sul tavolo della grande trattativa internazionale.
Un accordo che potrebbe rappresentare la svolta e, si spera, un repentino miglioramento delle condizioni climatiche e ambientali del nostro Pianeta.
Un accordo che, però, ha fatto nascere diverse perplessità: si sperava in vincoli più rigidi e, soprattutto, si sperava in ambizioni maggiori.
Però, almeno il primo passo, lungo la strada della tutela del nostro mondo, è stata fatto. Ciò che realmente conta è non svoltare lungo il percorso, non fermarsi per delle pause e cercare di giungere a destinazione tutti insieme, uniti come non mai.

L’ACCORDO
L’accordo globale sul clima, nato dalla Conferenza di Parigi, è stato descritto come il “miglior equilibrio possibile” per il delicato momento che tutti i Paesi stanno attraversando e come “preciso strumento per bilanciare i tanti interessi”, economici e sociali, che differiscono, tanto, tra nazione e nazione.
Tante realtà, culture ed economie che cercano di unirsi all’ombra delle pagine dell’accordo.
Ma, vediamo nello specifico che cosa prevede questo accordo, basato sulla più alta forma di cooperazione fra i 195 Paesi che hanno preso parte alla Conferenza sul clima di Parigi:
Aumento della temperatura: i Paesi hanno scelto quella che dovrà essere la soglia massima, calcolata in gradi centigradi, che la temperatura globale potrà raggiungere. In altre parole, le emissioni dovranno iniziare a calare drasticamente dal 2020, per cercare di arrivare ad un aumento di temperatura del globo di al massimo 1,5°.
Consenso globale: la Conferenza sul clima di Parigi ha fatto da scatola contenitrice per le volontà, non di pochi Paesi, ma questa volta del mondo intero. Tutti impegnati a ridurre le loro emissioni.
Costanza dei controlli: le diverse misure previste per la riduzione dell’inquinamento globale e che ogni singolo Paese partecipante dovrà rispettare, saranno sottoposte a rigidi controlli da svolgersi ogni 5 anni. Si chiede, sopratutto agli “inquinatori” maggiori, di non abbassare mai la guardia e di seguire costantemente la specifica normativa prevista.
Investimenti per l’energia pulita: i Paesi più sviluppati e che godono di un efficiente e avanzato apparato economico, cioè quelli che hanno fatto dell’industrializzazione il loro mondo già diversi anni addietro, dovranno investire ingenti somme di denaro, da destinare alle nuove forme di energia pulita.
Supporto economico globale: è stata prevista una particolare forma di cooperazione e collaborazione economica, la quale prevede un preciso meccanismo di rimborsi che i singoli Paesi erogheranno in favore di quelli più esposti ai rischi, causati dai cambiamenti climatici, cioè in favore dei Paesi più poveri.

Punti che si diramano dal lungo preambolo dello stesso accordo, basato su fondamentali considerazioni di principio, le quali spaziano tra sicurezza alimentare e rispetto dei diritti umani, diritto alla salute, maggiori tutele per i popoli indigeni e le piccole comunità, in un lungo elenco dal quale si può tranquillamente estrapolare il principio principale: tutela dell’uomo e di ogni suo singolo diritto, relazionata ad una maggiore cura per l’ambiente abitato dallo stesso uomo.
L’Accordo, se ratificato e firmato (i 195 Paesi partecipanti alla recente Conferenza sul clima potranno farlo tra aprile 2016 e aprile 2017), andrà a sostituire il precedente Accordo di Kyoto, con efficacia immediata, a partire dal 2020.

TANTE PERPLESSITÀ
L’Accordo è stato raggiunto e, data l’odierna fame di ricchezza, che invade l’animo dei Potenti, la quale annebbia ogni condizione di razionale pensiero, è un risultato da incorniciare, un vero e proprio miracolo.
Ma, le perplessità sono tante.
Perché partire così tardi? Aspettare il 2020 per dare il via a questo piano di recupero del nostro Pianeta è una data troppo lontana: in 5 anni la situazione, dati i ritmi dettati da una spietata economia industrializzata, potrebbe peggiorare in maniera irreversibile, rendendo l’Accordo semplice carta straccia.
Poi, dall’Accordo non emerge nessuna data che preveda un totale azzeramento delle risorse fossili e la loro conseguente sostituzione con energie pulite: si parla solo di riduzione e non di sostituzione, la quale è, sicuramente, la migliore strada da percorrere per un mondo davvero pulito.
Ma, c’è un dato che preoccupa ancor di più, relativo ai controlli quinquennali che saranno effettuati in merito al rispetto delle quote di emissione: non si parlerà di controlli fatti da organismi internazionali uguali per tutti i Paesi del mondo, ma in sostanza sarà attuata una sorta di “autocertificazione”, alla quale vi provvederà ogni singolo Paese. In pratica, ognuno controlla a casa sua.
Tanti sono i dubbi che emergono da questo nuovo testo normativo internazionale, ma allo stesso tempo possono essere definiti come “dubbi accantonabili” (a parte la data prevista per l’entrata in vigore dell’Accordo), data la situazione in cui versa il nostro Pianeta.
L’importante era raggiungere un vero accordo che unisse il mondo intero. Risultato raggiunto, anche se non come si sperava, ma raggiunto. A piccoli passi, e magari apportando successivamente delle piccole modifiche, si potrebbe arrivare ad un risultato di portata maggiore.
Ciò che veramente conta è la volontà e la serietà dei governi mondiali nel rispettare alla lettera quanto stabilito e, allo stesso tempo, la volontà di ogni singolo cittadino del mondo di aiutare l’ambiente attraverso le sue piccole azioni quotidiane.
Cambiare il proprio modo di vivere è possibile: possiamo ancora salvare il nostro Pianeta.

Wings for Life World Run 2016: a Natale scegliete un regalo solidale

È iniziata la corsa ai regali di Natale: e perché quest’anno non fare un regalo utile e solidale? Stanchi delle abbuffate natalizie, quale migliore modo per rimettersi in forma se non partecipare alla Wings for Life World Run 2016? Regalare il voucher di partecipazione all’evento globale di corsa unico al mondo è il modo migliore per coniugare bellezza e solidarietà: l’intero ricavato della maratona sarà devoluto a supporto della ricerca sulle lesioni del midollo spinale. Un evento unico al mondo, una sfida per superare i propri limiti, nel segno della solidarietà.

Riscoprire il significato più autentico del Natale è ora possibile attraverso questo dono: regalare il voucher è facile, basta collegarsi al sito www.wingsforlifeworldrun.com, selezionare la location in cui correre e personalizzare il voucher con una dedica. Inoltre tutti coloro che si iscriveranno entro il 31 dicembre 2015 potranno usufruire di una quota di iscrizione ridotta.

La Wings for Life World Run è aperta a chiunque, a tutti i runner principianti, agli atleti professionisti e ai partecipanti sulla sedie a rotelle, attesi domenica 8 maggio 2016 sulla linea di partenza di una delle 35 location nei 33 Paesi che ospiteranno l’evento. In Italia la location scelta per il 2016 è Milano.

L’intero incasso della maratona sarà devoluto alla Fondazione no profit Wings For Life, impegnata in tutto il mondo a supportare progetti di ricerca sulle lesioni al midollo spinale. L’edizione 2015 ha visto la partecipazione globale di più di 100.000 runner che hanno corso con 12 fusi orari diversi, raccogliendo € 4.200.000 che la Fondazione Wings for Life ha interamente devoluto alla Christopher & Dana Reeve Foundation a sostegno dello studio clinico volto a testare la possibilità di utilizzo della stimolazione epidurale per far recuperare un livello significativo di controllo autonomo a coloro che hanno subito lesioni al midollo spinale.

Dopo le feste natalizie non perdete l’occasione di rimettervi in forma allenandovi per un appuntamento imperdibile. Iscrivetevi e regalate l’iscrizione per un Natale all’insegna della solidarietà.

HICE20 – il fashion movie in esclusiva per D-ART

 

HICE20 – FASHION MOVIE 

 

Ghiaccio bollente per fusioni creative. E’ il nuovo video prodotto dal video director Elia Acunto, già video contributor di note riviste del settore, con la supervisione della fashion editor Alessia Caliendo.
Un fashion movie in esclusiva editoriale per D-Art e in collaborazione con il nuovo image brand Wonderwall.

​Fashion editor Alessia Caliendo 
Video Director Elia Acunto 
Muah Sara Busan 

Fashion assistant Caterina Ceciliani
Video director assistant Matteo di Pippo

Models Annabelle & Giuseppe @Wonderwall
Amelie @Ice Models

Cronache Vintage – Quella incontenibile voglia di JEANS!

Ho acquistato il mio ventitreesimo paio di jeans. Non potevo non prenderlo. Direttamente dagli anni ’80, a vita alta, gamba a prosciutto, strettini sulla caviglia. E blu. Di un blu non troppo chiaro. Nemmeno tanto scuro. Sono completamente diversi dai penultimi jeans, quelli che ho comprato un mese fa, decade ’80, blu, di un blu non troppo chiaro ma nemmeno troppo scuro.


E va bene, d’accordo, lo ammetto: sono Chiara, ho 33 anni e ho una dipendenza da DENIM!


Ora, signori miei, è doveroso che io faccia una precisazione: con il termine “denim” si indica il tessuto (che non è necessariamente di colore blu); con la parola “jeans”, invece, si definisce il taglio (il cinque tasche, per intenderci), impiegato per il confezionamento di pantaloni dai tessuti più svariati e non necessariamente in tela. Il nostro amato denim non è altro che cotone, la cui trama è bianca o écru, tinta poi chimicamente (in passato veniva colorato con estratti di piante).


Per quanto concerne la sua origine, c’è ovviamente lo zampino di LEVI STRAUSS (americanizzazione del tedesco Löb Strauß), un giovanotto di belle speranze che nel 1853 decise di raggiungere la California per vendere i capi di abbigliamento dell’azienda di famiglia. Levi aveva con sé anche dei tendoni da carro, con cui pensò bene di realizzare un paio di pantaloni. Un gran colpo di genio|! Un minatore li indossò, li usò e si entusiasmò: il tessuto in questione era resistente e non esisteva miniera che lo avrebbe distrutto. Quel giorno nacquero i pantaloni Levi’s e in seguito, a San Francisco, venne da lui fondata la sede americana dell’azienda di famiglia, la Levi Strauss&Co. I pantaloni naturalmente vennero perfezionati, fu scelto un tessuto più confortevole, direttamente dalla città di Nimes, in Francia (da cui l’abbreviazione americana denim), dal caratteristico aspetto blu della tinta usata per la colorazione. Nel 1873, vennero aggiunti dei rivetti di rame per rinforzate le tasche (in modo che non cedessero con il peso degli attrezzi dei lavoratori) grazie ad un’idea di Jacob Davis, cliente di Strauss e proprietario di una sartoria a Reno, nel Nevada. E infine, nel 1886, arrivò il marchio di fabbrica, l’etichetta in pelle con i due cavalli che tirano un paio di pantaloni senza che riescano a romperli.


Levi's Vintage Clothing


Dunque, se oggi indossiamo giacche, pantaloni, camicie, scarpe in denim lo dobbiamo al signore crucco di cui vi ho parlato qui sopra. Ma concedetemi un momento di sano patriottismo: a Genova, qualche decennio prima che Strauss realizzasse i jeans, dei marinai crearono qualcosa di molto simile con un telo (in denim o forse di fustagno) usato per le vele delle navi. Da qui l’espressione “blues Jeans”, per il colore blu e per la derivazione genovese (jeans sta per Genes, ossia genovesi).


A questo punto, vi pongo una domanda: quanti jeans possedete voi? E in quale modello? Io non li porto sicuramente in stile fifties, con i grossi risvolti, come la giovane Liz qui sotto, dal momento che sembrerei con ogni probabilità una rosetta farcita!


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Elizabeth Taylor, anni ’50


Preferisco un modello dalla vita alta, dalla gamba regolare, magari indossato con una camicia bianca annodata in vita, come quella bellezza rara di Marilyn Monroe insegna.


Marilyn Monroe, anni ’60


Ma non disdegno neppure i 5 tasche anni ’70 (periodo molto gettonato per le sfilate di questa stagione), vita altissima, zampa, che nel mio caso associo a tacchi vertiginosi e non a gym-shoes, che invece Fara Fawcett prediligeva per ovvie ragioni di altezza e magrezza.


Farra Fawcett
Farra Fawcett


E li posseggo naturalmente anche in versione ’80, con due grossi buchi sulle ginocchia, chiarissimi, cattivissimi, che miss Ciccone avrebbe di certo apprezzato.


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Madonna, 1980


Momento iconico: Kate Moss nella campagna di Calvin Klein del 1990. Adoro quel decennio, le camicie erano larghe, i jeans stretti il giusto, la vita comoda. Il modello in questione è stato bistrattato per tanto tempo, prediligendo vite bassissime che non lasciavano nulla all’immaginazione (che volgarità!). Poi sono tornati, insieme al buongusto. Era ora.


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E degli stessi anni è anche il film Thelma&Louise, in cui le coraggiose Susan Sarandon e Geena Davis fuggono dalla routine familiare e da mariti non proprio esemplari con addosso canottiere gagliarde, sexy jeans e stivali da cowgirl (potete ammirarle in copertina).


Concludo dicendo che io li ho tutti, ma questa non è una ragione sufficiente per frenare la mia voglia di averne sempre di più. O no?