Penelope Tree: icona della Swinging London

Un viso dai lineamenti particolarissimi, una bellezza che ridisegnò i canoni allora vigenti: Penelope Tree è stata una modella unica nel suo genere.

It girl della Swinging London e musa di fotografi del calibro di Diane Arbus e David Bailey (che fu anche suo compagno di vita per 6 anni), Penelope Tree ha un volto che non si dimentica facilmente.

Due occhi enormi dallo sguardo curioso e vivace, tratti fanciulleschi che la rendono simile ad un folletto ed una personalità sfolgorante ne hanno fatta un’indimenticabile icona.

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Viso dai lineamenti particolari ed occhi enormi, Penelope Tree ridisegnò i canoni di bellezza


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Icona della Swinging London e musa di David Bailey


Innumerevoli gli scatti pubblicati su Vogue, fotografie piene di pathos e poesia, interpretate da una icona geniale della moda mondiale.

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Penelope Tree nacque il 2 dicembre 1949


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La sua carriera nella moda venne inizialmente ostacolata dai genitori


Classe 1949, Penelope è nata a New York in una ricca famiglia di origine inglese dell’Upper East Side. Il padre Ronald è un politico e giornalista e la madre un’attivista e una socialite. Il conservatorismo della famiglia ostacola la carriera di Penelope nella moda, tanto che il padre, quando la vede ritratta per la prima volta in uno scatto di Diane Arbus, minaccia di portarla in tribunale.

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Look gipsy per Penelope Tree
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La modella fu fotografata da Diane Arbus, Cecil Beaton e David Bailey, di cui fu compagna nella vita

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Foto di Patrick Liechfield, 1969


Il debutto in società di Penelope avvenne durante il Ballo Bianco e Nero di Truman Capote: all’evento erano presenti oltre cinquecento persone, tutto il jet set newyorkese, personalità come Marella e Gianni Agnelli, Mia Farrow e Frank Sinatra e la madre di Penelope, la socialite Marietta Peabody Tree. Il dress code della serata imponeva outfit optical rigorosamente in bianco e nero, in linea con le tendenze dei Sixties. Protagonista indiscussa della serata fu la allora diciassettenne Penelope, la cui eterea bellezza incantò gli ospiti.

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Il compagno David Bailey definì Penelope Tree “un grillo parlante”
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Penelope Tree in Yves Saint Laurent

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La bellezza fuori dagli schemi di Penelope Tree


Poco dopo la ragazza, lottando contro il volere dei genitori, decise di trasferirsi a Londra, dove iniziò a lavorare come modella. Posò, tra gli altri, per Cecil Beaton, Richard Avedon e David Bailey. Dopo aver iniziato una relazione sentimentale con quest’ultimo, nel 1967 si trasferì nel suo appartamento a Primrose Hill. La genialità di David Bailey, che la definì “un grillo parlante”, contribuì a trasformare la sua bizzarra bellezza in un mito.

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Foto di David Bailey, 1968


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Scatto di David Bailey


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La comparsa di un’acne tardiva pose fine alla carriera di Penelope Tree nei primissimi anni Settanta


Il suo clamore negli anni Sessanta fu tale che venne spesso paragonata ai Beatles. Celebri, a questo proposito, le tre semplici parole con cui John Lennon la descriveva: “Hot hot hot, Smart Smart Smart”. Intelligente e sexy, Penelope lo era davvero, come testimonia la sua carriera nella moda, breve ma sfolgorante.

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Penelope Tree in uno scatto di John Cowan per Vogue, novembre 1969


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Look boho-chic tipico degli anni Sessanta


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La Tree era figlia di un giornalista ex deputato e di una socialite di origine inglese


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Ancora uno scatto di David Bailey


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Penelope Tree fotografata da David Bailey per Vogue 1969


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Foto di David Bailey, Vogue 1 agosto 1968


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Penelope Tree in India, foto di David Bailey, Vogue UK, gennaio 1968


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Vogue UK ottobre 1968, foto di David Bailey


Negli anni Settanta dovette abbandonare la sua attività a causa di un’acne tardiva. Fu il crollo di un mito. Passata in breve dagli albori delle cronache al dimenticatoio, nel 1972 fu arrestata per possesso di cocaina e due anni più tardi, nel 1974, si trasferì a Sydney dopo la fine della sua storia con Bailey.

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Uno scatto per Vogue, 1969


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Foto di David Bailey per Vogue, 1 gennaio 1969


Pochi anni dopo convolò a nozze con il musicista sudafricano Ricky Fataar, già membro di gruppi storici degli anni Settanta/Ottanta, come The Flames e i Beach Boys, da cui ebbe una figlia di nome Paloma. Dalla relazione con uno psichiatra australiano, Stuart MacFerlane, ebbe invece un figlio di nome Micheal.

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Ancora uno shoot ambientato in India, foto di David Bailey


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Mood bohémien


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Foto di David Bailey


Impegnata nel sociale e sul fronte umanitario, oggi l’ex modella è presidentessa di Lotus Outreach, un’organizzazione che si batte per il diritto allo studio delle ragazze della Cambogia. Il mito Penelope Tree è tornato a posare nel 2012 per il genio di Tim Walker, che ne ha colto l’essenza più intima. Inoltre ha preso parte ad un video di Mario Testino ed è stata testimonial per Barneys New York.

Cara Delevingne: moda, addio

La notizia è di quelle clamorose ed è destinata a suscitare uno stuolo di polemiche. Cara Delevingne, una delle modelle più famose al mondo, ha dichiarato di voler ritirarsi dalle passerelle ad appena 23 anni.

Volto storico di maison come Yves Saint Laurent e Burberry, la top model inglese, classe 1992, si è detta vittima di un forte stress causato dalla vita frenetica a cui sono sottoposte le modelle. La grave forma di stress le avrebbe addirittura causato una forma di psoriasi.

Sguardo felino ed inconfondibile, folte sopracciglia che hanno fatto tendenza, la modella britannica è uno dei volti chiave del fashion biz. Una carriera iniziata nel 2009, a soli 17 anni, la Delevingne ha calcato le passerelle di Chanel, Fendi, Versace, Burberry, Victoria’s Secret ed è da molti ritenuta l’erede legittima di Kate Moss. Apparsa sulle copertine delle riviste più prestigiose, ritratta dai fotografi più famosi al mondo, Cara Delevingne è la modella che guadagna di più in assoluto.

Blasonata quanto basta, discendente dei baroni Faudel-Phillips, la top model non teme di apparire politically uncorrect con le sue dichiarazioni rilasciate in un’intervista al Times, secondo cui le pressioni imposte dal lavoro di modella l’avrebbero portata ad odiare il proprio corpo.

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Cara Delevingne su Vogue, luglio 2015

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Vogue UK, gennaio 2014


Niente peli sulla lingua per Cara, che si è sentita a suo dire a lungo sfruttata: femminista convinta, la top model britannica ha definito disgustoso il modo in cui ragazzine giovanissime siano costrette a posare in modo ammiccante, in un mondo fatto di enormi pressioni, competizione e sacrifici. Una vera e propria stigmatizzazione del fashion biz, mondo che l’avrebbe costretta a crescere troppo in fretta.

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Vogue Australia, ottobre 2013

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Foto di Peter Lindbergh, Vogue, maggio 2013


Espressività unica, bellezza anticonvenzionale ed un carattere ribelle, la Delevingne ha dichiarato la sua intenzione di volersi dedicare unicamente al lavoro di attrice. Già diversi film all’attivo, il suo è sicuramente un volto che buca lo schermo.

Talitha Getty, icona boho-chic

Una donna di rara bellezza, icona hippie chic ed incarnazione dello spirito bohémien degli anni Sessanta. Talitha Getty è stata protagonista di quegli anni. Le foto che la ritraggono insieme al marito Paul, vestiti con caftani damascati sul tetto di un elegante palazzo di Marrakech, sono diventate simbolo di un’epoca. Una rivoluzione all’insegna del mood gipsy.

Il flower power ha trovato una splendida rappresentante in Talitha Dina Pol. Nata nel 1940 a Giava, all’epoca facente parte delle Indie Orientali Olandesi, Talitha trascorre i suoi primi cinque anni di vita in un campo di prigionia giapponese insieme alla madre, per poi trasferirsi con lei a Londra nel 1945.

Talitha Dina Pol nacque a Giava nel 1940
Talitha Dina Pol nacque a Giava nel 1940

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Uno scatto di Elisabetta Catalano


La giovane ha il dono della bellezza e sogna di diventare un’attrice. Per questo si iscrive alla Royal Academy of Dramatical Art. Sangue misto nelle vene, un viso da copertina ed una bellezza selvaggia, Talitha incanta icone del calibro di Diana Vreeland, Rudolf Nureyev e Yves Saint Laurent, che ne fa la sua musa. Nureyev, dichiaratamente omosessuale, prova per lei una fortissima attrazione erotica, al punto che dichiara di aver pensato di sposarla. Il giornalista Jonathan Meades la definisce “la donna più bella che abbia mai visto”.

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La bellezza di Talitha Getty incantò Diana Vreeland , Rudolf Nureyev e Yves Saint Laurent

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Foto di Elisabetta Catalano, 1968


Nel 1965 avviene l’incontro che segna la vita della bellissima Talitha: ad un party organizzato da Claus von Bülow la ragazza conosce John Paul Getty Jr., magnate americano che sposerà l’anno seguente in Campidoglio, a Roma, indossando una minigonna in velluto bianco bordata di visone. La sua carriera di attrice è decollata qualche anno prima, e la giovane prende parte a sette film. Ma è il suo stile unico a destare l’attenzione dei media.

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Talitha visse a Roma dal suo matrimonio fino alla morte, avvenuta nel 1971
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Il caftano è il simbolo del suo look boho-chic
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Suggestioni folk in questo outfit
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Talitha Getty in uno scatto a Marrakech, Vogue gennaio 1970

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Kimono floreale per Talitha e camicia en pendant per il marito Paul Getty


Emblema dello stile wild degli anni Sessanta, Talitha mixa perfettamente il mood boho-chic con le suggestioni della Swinging London. Un look che privilegia caftani coloratissimi e preziosi e fiori tra i capelli e contaminazioni stilistiche. Frequenti sono i viaggi dei coniugi Getty a Marrakech: proprio questa diviene la location per il celebre servizio fotografico realizzato nel 1969 da Patrick Liechfield, che li immortala sul tetto del Pleasure Palace in caftani e gioielli etnici. Una coppia perfettamente assortita anche nel look.

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Sul tetto del Pleasure Palace, 1969
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Talitha e Paul Getty fotografati da Patrick Lichfield per Vogue, 15 gennaio 1970
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Talitha Getty a Roma

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Talitha in posa per Elisabetta Catalano


Nel 1968 Talitha ha una figlia da Getty e poco dopo decide di ritirarsi dal cinema. Una vita fatta di eccessi e finita tragicamente. Nel 1971 Talitha Getty muore nel suo appartamento a piazza d’Aracoeli a Roma, a soli trent’anni, per un’overdose di eroina e barbiturici. Ma il suo charme non smette di affascinare.

De Magistris sindaco di Facebook

Dopo essere stato sindaco rivoluzionario, sospeso, di strada, reintegrato, oggi De Magistris lancia definitivamente la sua campagna elettorale con un lungo post su Facebook. Che fosse social lo sapevamo, ma stavolta il suo post è con un vero e proprio manifesto politico delle cose fatte e di attacco al pd renziano. Tra le molte accuse “a firma” del sindaco di Napoli ce ne solo alcune difficilmente attribuibili a Matteo Renzi come “Mafia Capitale, inchieste Expo, Venezia Mose”: tutte vicende semmai esplose sotto la sua segreteria e cui lui è chiamato a mettere una pezza.
 L’atto che da oltre un anno fa infuriare De Magistris è la sua estromissione dalla gestione dell’affaire Bagnoli. “Renzi, dopo anni ed anni di omissioni, sprechi, affari e crimini, invece di dare alla Città le risorse per la bonifica ha deciso di commissariare. Vuole mettere le mani sulla città con le stesse logiche di potere che hanno distrutto parte del nostro Paese.”
Su Bagnoli lo scontro è ampio e forte, e ne sentiamo parlare da tempo.


Come i nomi ballerini dei presunti super commissari con poteri da superuomo, così come le cifre da capogiro che potrebbero abbattersi (letteralmente) sulla città, e su cui i soliti presuntamente grandi imprenditori e finanzieri anche loro si vogliono letteralmente abbattere per pasteggiare alacremente. 
Quello che manca sulla questione Bagnoli è una risposta chiara ad una domanda che dovrebbe essere il presupposto di qualsiasi cifra e nome commissariale: qual è il progetto per Bagnoli? Soldi e nomi per fare che? Realizzare cosa? Quando fai questa semplice domanda si solleva la nebbia, come se Bagnoli fosse in val padana. 
Nel lungo articolo il sindaco di Napoli fa un elenco di cose fatte, che sono cose vere, almeno parzialmente.


Molti sono progetti ereditati dal passato (come le stazioni della metropolitana da lui inaugurate a ripetizione), così come è innegabile l’aver ereditato un bilancio a dir poco disastroso e del quale nessuno degli assessori degli ultimi vent’anni è stato chiamato a rispondere. 
Spiccano però due elementi. Il primo è che un sindaco che il PD considera decotto e condannato alla sconfitta abbia ricevuto in meno di sei ore oltre 2.000 condivisioni e 3.500 “like”, cui si sommano oltre 1.500 tra commenti e repliche. Indice di una città viva e di un sostegno al sindaco che molti sembrano ostinarsi a non vedere. Dall’altro il vuoto delle repliche del partito democratico, che vanno dalla ilarità all’attacco diretto, senza alcuna proposta nel merito.


L’alzata di scudi “a difesa del segretario” a livello nazionale ci sta, ma a livello locale appare decisamente poco credibile, laddove ad un anno dal voto il PD non solo non ha nomi alternativi da proporre, ma non ha un progetto politico, non ha un programma, e nemmeno un’idea di percorso per arrivare ad averne. 
Il post del sindaco fa discutere e fa schierare. Apre il dibattito sulla città e sull’amministrazione. Tutto questo è comunque politica. Al momento degli altri partiti non si può dire nemmeno questo: nemmeno uno status programmatico o analitico che faccia discutere.

Baciami signora Luisa

Sarà Luisa Ranieri a portare sul piccolo schermo la vita della creativa che può essere definita uno dei pilastri dell’imprenditoria nel nostro Paese. A febbraio 2016, infatti, in occasione di San Valentino, andrà in onda la mini serie Rai dedicata a Luisa Spagnoli.


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Amore e genialità i capisaldi della sua vita. Prima moglie di Annibale Spagnoli, sposato in giovane età, poi amante di Giovanni Buitoni, suo partner nella vita professionale, divenuto in seguito amante.
A lei l’Italia deve due grandi esempi di imprenditorialità: la Perugina, fondata insieme al marito e a Buitoni, e la griffe di moda omonima. Fu appunto l’excursus della Perugina a fornire le basi, anche finanziarie, per la nascita della Luisa Spagnoli.
Concreta e testarda, nella drogheria aperta nel centro di Perugia, all’inizio della sua carriera, venne prodotto il primo “cazzotto”, cioccolatino meglio noto a tutti come il Bacio. Non contenta dei traguardi raggiunti, a seguito di un folgorante viaggio parigino, ebbe l’idea di impiantare nella sua terra la produzione della lana d’Angora, ricavata pettinando soffici conigli.
Intorno a tale piglio creativo si sviluppava, inoltre, un nuovo modello industriale. Con la Perugina e la Spagnoli, infatti, il centro produttivo diventava una vera e propria comunità autosufficiente dotata di asili nido, doposcuola, chiesa, strutture sportive e ricreative, a vantaggio delle madri lavoratrici. Tanto che il gruppo industriale divenne ben presto “benefattore” della cittadina umbra.


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Sophia Loren, Tza Tza Gabor, Dalida, Elsa Martinelli e Veruska, le dive che, negli anni 60, non potevano fare a meno dei golfini Luisa Spagnoli. Come documentato nel museo allestito in un’ala dell’azienda, dove tuttora il 90 per cento dei 600 lavoratori sono donne, vero esempio industriale “in rosa”. Attraverso le quattro sale dello stesso è possibile rivivere lo sviluppo della realtà, dagli albori fino ai giorni nostri, grazie a una raccolta di documenti cartacei, oggetti, capi e macchinari atti a evocare la rivoluzione operata dal marchio, che dal 1986 è portato avanti da Nicoletta Spagnoli in veste di amministratore delegato e presidente dell’azienda.


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La visita alla struttura (su appuntamento) è consigliata per documentarsi nell’attesa della fiction che appassionerà le nuove generazioni e arricchirà il patrimonio culturale di quelle che riconoscono la stessa come esempio di passione e imprenditorialità tipiche degli italiani.

Buon compleanno, Mademoiselle Coco!

Ci sono donne che con la propria forza sono riuscite a vincere anche contro le peggiori avversità che la vita può riservarti. Questa è la parabola della vita di Gabrielle Coco Chanel.

Un’infanzia difficile trascorsa a Courpière, la madre, cagionevole di salute, muore quando Gabrielle è solo una bambina, il padre assente, tra infedeltà coniugali e sperpero di denaro.

Gabrielle Bonheur Chanel nasce a Saumur il 19 agosto 1883. La piccola cresce in fretta perché la vita le impone di fare così e quel che resta della sua infanzia lo trascorre presso l’orfanotrofio di Aubazine tra le umiliazioni che le suore riservano agli orfani meno abbienti.

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Maglia nera e immancabile filo di perle: la classe di Gabrielle Coco Chanel in un ritratto di Boris Lipnitzki, 1936


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Ribelle nello scatto di Man Ray, 1935


“Se sei nato senza ali, non fare nulla per impedire loro di crescere”: un simile monito non può che venire da chi le difficoltà le ha vissute sulla propria pelle. Fino a quel primo impiego presso la sartoria di Madame Desboutins, a Moulins. Un impiego modesto, in un atelier del quale la giovane Gabrielle non condivide minimamente lo stile, da lei giudicato pacchiano e volgare; ma lì, dove quella ragazza bruna e dal gusto minimal viene additata come la peggiore delle provinciali, avviene la prima rivoluzione firmata Coco Chanel.

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Una giovanissima Gabrielle, foto di Alex Stewart Sasha 1929


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La stilista fotografata nel suo appartamento da Cecil Beaton, 1965


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Foto di Douglas Kirkland, 1962


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Ancora uno scatto di Douglas Kirkland: la sequenza si intitola “Three Weeks/1962”


Prima l’incontro con Étienne Balsan, ricco giocatore di polo dell’alta borghesia francese, poi l’addio a Madame Desboutins, la burbera titolare. Non un gesto di ubris ma una dichiarazione di stile e di assoluta coerenza con se stessa, per la giovane Gabrielle, che diviene in quel momento Coco. L’amore che Étienne prova per lei le porterà un solido aiuto materiale, ponendosi come deus ex machina per una donna geniale, che meritava per diritto divino di avere un posto nella storia.

Battagliera come nessuna, granitica, leonessa astrologicamente e non solo, Chanel è stata forse la sola designer ad avere attraversato due crisi fortissime ma ad essere riuscita a rialzarsi ambedue le volte.

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La classe di Chanel


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Parigi sullo sfondo


Il secondo amore è forse quello della vita e viene dalla grigia Inghilterra: scandaloso e proibito, perché spesso è così che iniziano le storie migliori. Anche Boy Capel aiuterà Coco, divenuta ormai forse troppo sicura di sé e troppo poco gestibile dal più insicuro Balsan, migliore amico di Capel. Quest’ultimo la aiuterà ad aprire il suo primo atelier a Parigi, al fatidico numero 31 di rue Cambon. Da lì è storia. Ma Coco restituirà all’amante l’intera somma ricevuta in prestito e offrirà per tutta la vita aiuto alla sorella Adrienne.

Durante l’occupazione tedesca Chanel fu la sola ad esser tollerata all’Hôtel Ritz, che restò la sua residenza anche in quegli anni. Generosa anche col nipote e con i suoi numerosi amanti più giovani, durante la vecchiaia, la sua vita ci insegna a non smettere mai di lottare e ad indossare sempre un girocollo di perle, of course.

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Coco Chanel nel suo atelier al 31 rue Cambon, Parigi 1937, foto di Boris Lipnitzki


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Storico ritratto della designer

Gli anni Sessanta secondo Henry Clarke

Uno dei maestri della fotografia del Novecento, precursore dell’emancipazione della donna e autore di scatti passati alla storia: tutto questo è stato Henry Clarke, uno tra i fotografi più prolifici e longevi, le cui foto sono state testimoni di quattro decenni, dagli anni Cinquanta fino ai primi anni Ottanta.

Tanti i generi sperimentati dal genio di Clarke: miriadi di scatti di moda e ritratti di personaggi celebri, il fotografo americano è stato arbiter elegantiae della moda italiana, francese e americana.

Nato nel 1918 in California, a Los Angeles, da immigrati irlandesi, Clarke cresce in un periodo attraversato da numerose correnti culturali. L’esperienza della guerra fa da spartiacque tra il vecchio e il nuovo. Il giovane Henry si avvicina alla fotografia di moda nel 1948, dapprima a New York e poi trasferendosi a Parigi.

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Marina Schiano, 1968


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Ancora la Schiano, 1968


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Editha Dussler in Paulina Trige, 1966


L’immaginario collettivo di quegli anni era dominato dai due fotografi di Vogue Cecil Beaton e Horst P. Horst, entrambi fautori di un’estetica quantomai radicata nella tradizione. Ma si avvertiva sempre più l’esigenza di un cambio di prospettiva, che auspicava un ritorno ad una fotografia più radicata nella realtà. Lo stesso Clarke studiò le foto di Beaton, Horst ed Irving Penn, ma familiarizzò con una macchina fotografica più piccola, la Rolleiflex, a suo avviso capace di portare l’auspicato cambiamento di prospettiva.

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Lauren Hutton in un caftano dorato Thea Porter, Vogue UK, dicembre 1969


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Simone d’Aillencourt, 1966


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Wilhelmina Cooper davanti alla dea Maishasur Mardini in un abito Madame Grès, Jodhour, India, dicembre 1964


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La modella Samantha Jones in un caftano dalle stampe optical Livio de Simone, India, giugno 1967


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La modella Samantha Jones davanti al tempio dei guerrieri Chichén Itzá, Messico, 1968


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Modelle davanti le rovine di Xochicalco, fuori da Guernavaca, in abiti che ricordano i pepli greci, 1968


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Samantha Jones in Emilio Pucci, 1967


Clarke fu allievo del vero rivoluzionario della fotografia di quegli anni, Alexey Brodovitch, presso la New School for Social Research. Fu qui che Clarke imparò forse la lezione più importante: come unire la fantasia che serve alla moda con l’energia tipica del reportage. Nel Dopoguerra imperversava uno stile ancora classico e fortemente radicato nella tradizione. Erano gli anni del New Look di Christian Dior, ma si avvertiva sempre più l’esigenza di dare voce ad un nuovo tipo di donna. Life Magazine aveva tristemente testimoniato il conflitto belli o con drammatici reportage fotografici dalle zone di guerra, ma Vogue continuava a commissionare lavori brillanti a Cecil Beaton, relegando la moda in un mondo che appariva talvolta ovattato e lontano dalla realtà.

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Fotografie come opere d’arte


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Henry Clarke viaggiò in moltissime parti del mondo per il suo lavoro, come l’Iran


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I bellissimi paesaggi dell’Iran ritratti da Henry Clarke in foto suggestive


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Scatti unici a metà tra moda e reportage


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Marisa Berenson spicca in una foto scattata in Iran


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Editha Dussler ritratta come una dea tra le rovine romane di Palmira, Siria


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Isfahan, Iran, Vogue dicembre 1969


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Marisa Berenson in un caftano dorato Tina Leser, 1967


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Ancora la Berenson in caftano Halston, 1969


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Le meravigliose stampe Emilio Pucci, 1966


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Editha Dussler, Vogue giugno 1966


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Veruschka, Vogue 1 Dicembre 1966


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Editha Dussler su una spiaggia deserta, Vogue 1 Dicembre 1966


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Sempre la Dussler, Vogue 1 dicembre 1966


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Veruschka in tunica Pauline Trigére, Marocco 1964


La suggestiva location di Petra, 1965
La suggestiva location di Petra, 1965


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Isa Stoppi per Vogue UK 1966


Una prima rivoluzione iniziò con Irving Penn e  Richard Avedon, che portarono il reportage all’interno della fotografia di moda. Clarke iniziò a scattare foto per stilisti celebri, tra cui Dior, Fath, Balenciaga e Chanel. Le sue foto degli anni Cinquanta sono state spesso paragonate al lavoro di Irving Penn per quanto concerne il concetto di eleganza femminile; ma in Clarke manca quel particolare rigore formale e tecnico, come sostenne Nancy Hall-Duncan. In quel periodo egli stesso si fece promotore del risveglio culturale e stilistico dell’America e dell’Europa, coi suoi celebri scatti per riviste del calibro di Femina, Harper’s Bazaar e Vogue, e coi suoi ritratti di personaggi celebri, come Anna Magnani, Coco Chanel, Truman Capote, Cary Grant, Monica Vitti e Sophia Loren.

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Veruschka in Jean Louis, 1965


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Veruschka posa per Vogue, 2 aprile 1972


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Barbara Carrera, foto del 1971


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Castello San Nicola L’Arena, vicino Palermo, Vogue 1 dicembre 1967


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La modella Barbara Bach fotografata a Villa Trabia, Palermo, in un abito Leslie Fay, Vogue 1 dicembre 1967


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Veruschka in Valentino, 1 novembre 1966


Dalla metà degli anni Cinquanta firmò per David Libermann un contratto di esclusiva per le edizioni francese, americana e britannica di Vogue e iniziò a fare numerosi viaggi che lo portarono in giro per il mondo: Messico, Brasile, Spagna, Portogallo, Turchia, India, Iran, Siria ed Italia.
Ma è il decennio successivo che lo consacra al mito: grazie a Diana Vreeland, editor di Vogue, in questi anni Clarke ha ritratto magistralmente la donna moderna. Questa è la parte forse più interessante e più sottovalutata del suo lavoro, ossia l’essere riuscito, per primo, a ritrarre e testimoniare la portata storica della rivoluzione dei costumi sessuali che stava per avere luogo in quegli stessi anni.

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Veruschka in Emilio Pucci in un editoriale voluto da Diana Vreeland, ambientato sulle rive del Tanganica, Tanzania, Vogue 1 gennaio 1965


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Veruschka in una villa a sud di Roma, con un caftano giallo e una pashmina Ken Scott, novembre 1965


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Istanbul, Turchia, Vogue dicembre 1966


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Cherry Nelms in top e gonna Brigance fotografata in Portogallo, Vogue giugno 1952


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Ancora Sherry “Cherry” Nelms a Olhao, Portogallo, con un bikini Calypso, Vogue giugno 1952


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Cherry Nelms a Palermo, gennaio 1955


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Abito in seta Bonnie Cashin, 1952


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Moyra Swan in total look Anne Klein e cappello Cerruti, Spagna, 1969


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Abito gipsy di Donald Brooks, Spagna 1969


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Editha Dussler a Göreme, Turchia, abito di Chester Weinberg, dicembre 1966


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Viviane, 1974


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Altro scatto ambientato in Cappadocia, Göreme, Vogue 1 dicembre 1966


Le foto di Clarke degli anni Sessanta hanno per protagonista una donna moderna, che viaggia in tutto il mondo, indipendente, autosufficiente, sicura di sé. Scatti a colori ricchi di suggestioni etniche, con location mozzafiato. La sua donna è una dea indiana vestita di sari e caftani preziosi, una sacerdotessa che danza per raccogliere il favore degli dei. Cosmopolitismo ante litteram nelle sue foto che ritraggono donne gipsy, vestite secondo i costumi e le tradizioni dei singoli Paesi. Styling elaborati per nuove dee del sole, o zingare extra lusso che girano il mondo cavalcando un mulo, o ancora donne dall’eleganza moderna e rivoluzionaria, ritratte in costumi da bagno Emilio Pucci. Amante del barocco siciliano, celebri sono i suoi scatti ambientati a Palermo, Monreale e Bagheria. Su consiglio della contessa Consuelo Crespi, editor di Vogue US, scattò spesso in antichi palazzi della Capitale, come in quello di Cy Twombly. Suggestive le sue foto all’Eur, ad Ostia, ma anche in Turchia, Iran, tra le rovine di Argira, in Messico tra i templi maya ed aztechi e in Portogallo. Foto come reportage etnografici, con una partecipazione talvolta attiva della popolazione locale, come nello scatto con Isa Stoppi tra gli indios. Capolavori di una modernità impensabile per l’epoca.

L’arte azteca e amerindia, suggestioni indios e rovine di templi induisti diventano protagoniste e si rivelano le location più idonee per dar vita ad insuperabili capolavori di stile. In questo periodo Clarke ritrae modelle del calibro di Veruschka, Marisa Berenson, Benedetta Barzini, Marina Schiano, Isa Stoppi, Simone d’Aillencourt. Un cambio generazionale notevole, per un fotografo che aveva iniziato invece negli anni Cinquanta, ritraendo una femminilità assolutamente diversa. Proporzioni, set, outfits e location: tutto è in mirabile equilibrio nei suoi scatti, vere e proprie opere d’arte.

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La modella Isa Stoppi


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Marisa Berenson in Sardegna indossa un costume Pucci, 1967


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Un altro scatto con la Berenson nelle coste della Sardegna, 1967


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Benedetta Barzini in Emilio Pucci, 1968


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Veruschka in Givenchy, 1966


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Marisa Berenson e Benedetta Barzini nella casa romana di Cy Twombly in abiti Valentino, 1968


Nonostante i numerosissimi viaggi, Clarke restò per tutta la vita residente a Parigi, e morì nel sud della Francia nel 1996. Una retrospettiva sul suo lavoro fu allestita al Musée Galliera di Parigi tra l’ottobre 2002 e il marzo del 2003.

Consuelo Crespi, il glamour italiano nel mondo

La contessa Consuelo Crespi è stata una delle personalità che più hanno influenzato la moda italiana ed internazionale negli anni Cinquanta e Sessanta.

Viso dolce incorniciato da riccioli neri, uno stile bon ton e raffinato, Consuelo Pauline O’Brien O’Connor Crespi nacque a New York il 31 maggio 1928. Cresciuta in Nova Scotia, nel 1945 la graziosa Consuelo posa come modella per Look Magazine.

Due anni più tardi segue il suo debutto in società e nello stesso anno, avviene l’incontro con il conte Rodolfo Crespi detto Rudi. Il matrimonio tra i due fu celebrato l’anno seguente, nel 1948, e dall’unione nacquero due figli, Brando e Pilar Crespi.

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La contessa Consuelo Crespi fu fashion editor di Vogue US e Vogue Italia
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Consuelo Crespi a Manhattan, 1961

 

Consuelo fu fashion editor di Vogue US e braccio destro della mitica Diana Vreeland. Il suo contributo alla diffusione della moda italiana nel mondo fu enorme.

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Rudi e Consuelo Crespi

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Consuelo Crespi in Valentino, 1960


Protagonista del jet set internazionale, mirabile trendsetter e influencer ante litteram, secondo Roberto Capucci Consuelo Crespi fu l’ambasciatrice della moda italiana nel mondo per tutti gli anni Sessanta e Settanta. Dopo aver scoperto Valentino Garavani, i cui abiti indossati dalla sorella gemella di Consuelo affascinarono Jackie Kennedy, notò per le vie della Capitale la bellezza di Benedetta Barzini, mentre a Venezia scoprì Veruschka.

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La Crespi fu modella e braccio destro di Diana Vreeland a Vogue

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La contessa in Valentino per Vogue Italia 1963, foto di Leombruno-Bodi


Spinse Irene Galitzine a debuttare alle sfilate di Palazzo Pitti, nel 1959, e sdoganò negli States il marchio Fabiani, indossando una sua gonna nella Grande Mela di ritorno da uno dei suoi viaggi a Roma.

Un riuscito mix di bellezza e glamour, Consuelo Crespi ottenne la cover di Sports Illustrated nel 1956 be fu redattrice di Vogue Italia dal 1964, scelta personalmente da Diana Vreeland, con cui aveva già collaborato a Vogue US.

Presente al leggendario Black and White Ball organizzato da Truman Capote nel 1966, la Crespi si classificò al terzo posto tra le meglio vestite secondo il New York Dress Institute, dopo la duchessa di Windsor e davanti alla Regina Elisabetta II e ad Audrey Hepburn. Ricordata per la sua dolcezza e per le sue incantevoli mise bon ton, fu inclusa nella prestigiosa International Best Dressed List, lodata per il suo stile dall’eleganza naturale priva di ostentazione o stravaganza. PR ante litteram per diversi designer, la contessa Crespi coinvolse anche il marito nei suoi lavori per Vogue Messico e Vogue Brasile.

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In copertina su Sports Illustrated 26 agosto 1957
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Consuelo Crespi fu influencer e trendsetter ante litteram

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Un ritratto della contessa. I coniugi Crespi lasciarono definitivamente Roma nel 1975


Ma gli anni Settanta videro un declino inesorabile di quell’eleganza e di quel bel mondo che aveva invece caratterizzato i decenni precedenti e un’icona come lei, sensibile alla bellezza, soffrì molto per il cambiamento di vita. “In Italia vogliono essere ricchi ma sembrare poveri”, si lamentava Consuelo, fino alla decisione, nel 1975, di lasciare definitamente Roma per trasferirsi col marito a New York, dove ricevettero i Reagan a casa ai tempi della Casa Bianca, evento pressoché unico nella storia della Presidenza americana.

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La fashion editor fu scopritrice di talenti come Valentino Garavani, Fabiani, Galitzine

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La contessa con la figlia Pilar Crespi, Costa Smeralda 1968


Amatissima per la sua eleganza e stimata sul lavoro, Consuelo è la regina del jet set internazionale. Nominata Cavaliere del Lavoro negli anni Settanta, per il suo prezioso contributo nell’affermazione della moda italiana nel mondo, la contessa si spense nel 2010 nella sua Manhattan, all’età di 82 anni. Il suo amore per il bello è stato ereditato dalla figlia Pilar, che ha lavorato a lungo come editor di Vogue, mentre la nipote Chloé è fotografa di moda. Buon sangue non mente, ça va sans dire.

Madonna, auguri alla Regina del Pop

È la pop star che ha maggiormente influenzato la cultura visiva e musicale nonché la moda degli ultimi trent’anni. Simbolo di trasgressione ma anche raro esempio di come si possa gestire con intelligenza un successo senza precedenti, quando si ha faticosamente lavorato per raggiungerlo.

Madonna Louise Veronica Ciccone compie 57 anni il 16 agosto, ma non è invecchiata affatto dai suoi esordi. La stessa sfrontata esuberanza di Holiday, il suo primo grande successo del 1983 e la stessa sensualità di Like a Virgin, canzone che l’ha resa un mito.

Madonna ha creato un nuovo modo di concepire la bellezza: non particolarmente alta, l’origine italiana appariva chiara nei suoi lineamenti marcati e nelle curve, ha costruito un’immagine di sé sofisticata e glamour, mirabile manager di se stessa ed esempio vivente di come una grande self-confidence possa tradursi in reale bellezza fisica.

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È il carisma a fare la differenza e lei ne ha sempre avuto da vendere. Icona del post femminismo e della fratellanza universale, dell’amore gay e promoter dichiarata di valori come il rispetto e l’amore per il prossimo, Madonna è un’artista da record, entrata anche nel Guinness dei Primati come la donna ad aver venduto di più nella storia della musica.

Arrivata a New York nel 1977, appena diciannovenne, compare in Born to be alive di Patrick Hernandez. Sensualità prorompente, ironia e autoironia, nel 1985 recita da protagonista in Cercasi Susan disperatamente. Nello stesso anno, ancora acerba ma perfettamente consapevole, posa nuda per Playboy e Penthouse e cita la Marilyn de “Gli uomini preferiscono le bionde” nel video di Material Girl. Indimenticabili le sue performance, come il tour scandalo in cui si fa crocifiggere. Capace di trasformare in arte la più sfrontata ma mai sterile provocazione: in Like a Prayer fa scandalo con un video giudicato sacrilego dal Vaticano, in cui simula amplessi con una statua sacra e riceve le stigmate. Tra le suggestioni mediterranee e blasfeme del videoclip, censurato in Italia, la diva anticipa anche lo stile tipico di Dolce & Gabbana, di cui sarà per molti anni musa iconica e testimonial.

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Ape regina per vocazione ed indole, influencer e trendsetter, Madonna ha rivendicato sempre valori quali l’autonomia e la fratellanza. Splendida musa di Jean Paul Gaultier, lo stilista creò per lei il corpetto a cono nel 1990, protagonista indiscusso del tour Blonde Ambition Tour.

Nel 1995 arriva la memorabile interpretazione di Evita Perón per la regia di Alan Parker, che si rivela un inaspettato successo di pubblico e critica. Nello stesso anno posa per le celebri foto di Mario Testino e poi di Steven Meisel, che la immortala come una biondissima dea in abiti peplo firmati Gianni Versace, per la campagna pubblicitaria di quest’ultimo. Una diva patinata dalle forme esplosive e dalla vita costantemente sotto i riflettori: un’immagine non molto diversa dalla realtà.

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Il 1996 è l’anno della maternità: nasce la prima figlia, Lourdes Maria, avuta dal personal trainer Carlos Leon. Nel 1998 arriva l’amore per il regista inglese Guy Ritchie, presentatole da Sting. Ritchie nell’agosto del 2000 la renderà nuovamente madre, con la nascita del secondo figlio, Rocco.

Arriva il Duemila e se tante sono le meteore che si succeguono nel mondo della musica senza lasciare traccia di sé, Madonna è ancora lì, granitica e più che mai in auge, capace come nessuna di reinventarsi, in una perenne trasformazione. Confessions on a Dance Floor, album del 2005, ce la ripropone tonica come non mai, strizzata in body rosa shocking dalle suggestioni glam anni settanta. In bilico tra un viscerale bisogno di trasgredire e un desiderio di meditazione spirituale, dopo il divorzio da Ritchie ha sdoganato i toy boy. Oggi è musa di Givenchy di Riccardo Tisci e di Fausto Puglisi.

Bellissima anche nella maturità, continua a regalarci emozioni con il suo ultimo album dal titolo evocativo, Rebel Heart. Profetica iniziatrice di un nuovo mondo, negli scenari post atomici proposti nel video di Ghosttown, e giocosa nel duetto con Nicki Minaj, Madonna continua ad essere la Regina indiscussa del pop.

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Quella SVIMEZ che sta stretta al PD

In questi giorni di sud si è parlato molto. Soprattutto perchè i dati macroeconomici pubblicati sono decisamente negativi. E invece di essere leti economicamente, sono stati “tirati per la giacchetta” da questa o quella parte politica – come se nessuna fosse responsabile di alcunché. In pochi tuttavia hanno rilevato che questa è la prima volta che lo stesso partito, con il suo segretario, è alla guida del governo e contemporaneamente amministra tutte le regioni del meridione. E a grandi poteri corrispondono anche grandi responsabilità. Questo significa che davanti noi ci sono almeno cinque anni, e l’intera nuova programmazione europea, per gestire risorse, avviare strategie almeno di medio periodo, e dare risposte concrete che generino risultati. Senza alcun alibi. E questo significa anche i prossimi dati saranno inequivocabilemnte la sentenza di quanto fatto o meno da questo governo e da queste amministrazioni, senza più poter “giocare” a scaricare responsabilità politiche. 

Ma andiamo con ordine. Dalla pubblicazione delle “anticipazioni” del rapporto SVIMEZ sul mezzogiorno d’Italia… è stato un ricorrersi di commenti, più o meno tutti “sui titoli” dei titoli delle anticipazioni stampa, ovvero la sintesi della sintesi della sintesi del rapporto.
Le linee seguite dalla narrativa sono state le solite: attacchi contro un sud sprecone e incapace, attacchi contro il governo, attacchi contro la svimez (rea di dire cose spiacevoli) e repliche politiche (finanche di improponibili neoeconomisti – perchè ormai di economia parla e scrive chiunque “dati alla mano”) per ogni sorta di distinguo. Ed infine la solita narrazione meridionalista dell’invito a maggiore spesa pubblica e rinnovare una vetero questione meridionale, per la verità una delle tante questioni mai discusse sul serio, mai affrontate storicamente e rimaste senza responsabilità (siano esse stroriche o politiche).



La storia parte da lontano, e vede un Piemonte neo-industriale indebitato sino all’osso e sull’orlo del fallimento che si fa pilota del processo di unificazione. Un sud dalle casse ricche da annettere e arretratissimo, ma con molte braccia disponibili e vasti latifondi. Perchè parliamo di oltre un secolo e mezzo fa oggi? Per avanzar crediti? No. Perchè sostanzialmente in questo secolo e mezzo non è cambiato molto. 
Si è fatta l’Italia ma mai gli italiani. Il sud è rimasto prevalentemente agricolo o legato al terziario. Il nord prima del fascismo, durante, dopo, e durante il boom economico è cresciuto grazie a tanti immigrati spesso a basso costo che lasciavanno paesi e campagne per lavorare in fabbrica.
 Una emigraziazione che ha generato economia. Case, arredamenti, bisogni di ogni giorno. Città e distretti del nord che decuplicavano. 
Ma nemmeno questo è stato “il problema del sud”.
 Invenzioni come la Cassa per il Mezzogiorno, molte iniziative dell’IRI, le “mega opere”, l’industrializzazione industriale, sono stati tutti contenitori che davano denari per creare aziende che diventavano clienti di aziende del nord, per poi essere acquisite, spesso chiuse, smembrate, quando i fondi pubblici finivano.


Quello che i rapporti non dicono è che ogni azienda del nord che ha “investito” al sud ha ricevuto una media di sovvenzione pubblica di “fondi per il sud” pari a 1,4 volte l’investimento. E nell’80% dei casi l’investimento non ha superato i cinque anni.
Quando invece le cose andavano bene e le aziende del sud “funzionavano”, arrivavano altri imprenditori che accedevano al credito a tassi molto inferiori, acquisivano, e spesso chiudevano. 
Praticamente tutti gli appalti per le grandi opere (dalla Salerno-Reggio, all’alta velocità, alla costruzione di aeroporti, strade etc) sono tutti affidati ad aziende settentrionali, che puntualente frammentavano l’appalto e lo dividevano tra piccole imprese locali, che non avevano alcuna chance di crescere. Il che in sé non è un crimine se non fosse che questo non fa si che ci sia sviluppo, e se non fosse grandi aziende (Impregilo, Caltagirone, Ansaldo, Italcementi etc etc etc) pagavano le “imposte regionali” altrove. Anche questo è denaro sotratto al sud. 
Il non detto però della politica – sia quella che si affanna a dichiararsi meridionalista, sia quella che “è contro un sud sprecone e mal governato”, sia quella del “si però noi abbiamo fatto…” – è che dall’unità d’Italia in poi il sud non ha mai avuto autonomia nella selezione della sua classe dirigente.


Dalle leggi della destra e sinistra storica – in cui votava il 4% della popolazione, ma che per reddito e istruzione al sud toccava l’1%. Una piccola pattuglia di meridionali spesso “corrotta” dal potere del governo, che faceva da stampella ai giolittismi. Nulla che non si è ripetuto con la DC post-fascista o col pentapartito, in cui una pioggia di denaro finanziava un certo potere, una certa politica ed una certa classe dirigente che – eletta al sud – guardava agli appalti come occasione di vantaggio economico e di potere e non come occasione di uno sviluppo che – se reale – non conveniva a nessuno.
Perchè è questa la chiave: un sud autonomo, che cresceva, che si dotava di infrastrutture, che arricchiva con quei soldi le proprie aziende, che potevano crescere e competere, che avrebbero riempito le casse dei propri enti locali… era qualcosa che non conveniva alla politica del voto facile e clientelate ed alle imprese dell’appalto pubblico vinto grazie alla corruttela (di cui tangentopoli è stata solo l’iceberg). 
Perchè le elezioni (grazie alla sua percentuale di popolazione) si vincono al sud, e quindi “serve” tenere il sud alle dipendenze della politica. Da sempre.
 Le cose non cambiano con la seconda repubblica, e vanno peggio con leggi elettorali che consegnano liste chiuse di eletti e collegi sicuri nelle mani di politici settentrionali che – novelli meridionalisti che non verrebbero eletti in casa propria – vengono a prendersi scanni parlamentari nel mezzogiorno. Modestamente è prassi bipartisan. Basta consultare le liste e gli eletti.



Quello che radiografa lo Svimez non è “uno stato di cose statico”, ma il risultato aritmetico delle conseguenze di quelle scelte politiche ed economiche.
 Scelte che sul medio e lungo periodo non hanno fatto bene nemmeno al Nord, perchè se “impoverisci” una così ampia fetta di popolazione, il risultato che ottineni è il crollo del mercato interno nazionale. E questo è un fatto. 
Se aumenti a dismisura la spesa publica senza ottenere risultati strategici, e se le imprese del sud non finanziano le proprie regioni, ottieni solo un impoverimento e indebitamento generale, non certo benessere locale nè localizzato. 
Ma le strategie di lungo periodo non hanno mai interessato politici miopi interessati solo alla propria personale elezione alla legislatura successiva. E questo rapporto, come infiniti altri, non fanno che dire numericamente quella politica cosa ha prodotto. Ma anche tendenzialmente cosa sta producendo e dove sta andando.



E allora di cosa ha bisogno il sud per crescere e uscire da questo quadro economico?
 Di poco, pochissimo. Ma che è al contempo un’impresa titanica. 
Al sud devono candidarsi politici del sud. Devono avere una fedina penale immacolata e nemmeno l’ombra di una collusione o di un conflitto di interessi. E questo è lo sforzo titanico che deve riguardare i partiti politici, ma soprattutto i cittadini.
 Solo dopo aver fatto questo, al sud occorre che i soldi destinati al sud siano spesi con imprese appaltanti e imprenditori del sud. E se non ci sono imprese abbastanza grandi, si creino i consorzi obbligatori. 
Infine occorre una revisione dei criteri di ssegnazione dei fondi di sviluppo: non in base a quanto presuntamente investi o al numero di occupati “a tempo”, ma in base a quanto produci ed in proporzione al fatturato ed alla produttività.
Infine, che i fondi europei per lo sviluppo regionale siano destinati solo ed esclusivamente ad opere di lungo periodo, a infrastrutture strategiche, ad una programmazione di sviluppo pluri regionale. Perchè solo così questi denari non verranno usati per logiche dettate dai tempi elettorali e tendenzialmente usati per una strategia di crescita di lungo periodo.
 Fare queste cose non costa un solo euro in più a nessuno. Ma rischia di toglierne molti dale tasche sbagliate per metterli nelle tasche giuste. E questo – se tutti serenamente ma mai arrendevolmente ci riflettiamo – è banalmente quello che la nostrav classe dirigente – nazionale – non può permettersi.
Ed è questa in definitiva la vera povertà del sud , e in definitiva di tutta l’Italia.



Dal 2000 al 2013 il Sud è cresciuto del 13% la metà della Grecia che ha segnato +24%: oltre 40 punti percentuali in meno della media delle regioni Convergenza dell’Europa a 28 (+53,6%)”. Lo Svimez sottolinea anche che, nel periodo, l’Italia nel suo complesso è stato il Paese con meno crescita dell’area euro a 18 con il +20,6% a fronte di una media del 37,3%.
Dal 2008 al 2014 il settore manifatturiero al Sud ha infatti perso il 34,8% del proprio prodotto , contro un calo nazionale del 16,7% e ha più che dimezzato gli investimenti (-59,3%), tanto che nel 2014 la quota del valore aggiunto manifatturiero sul Pil è stata pari al Sud solo all’8%, ben lontano dal 17,9% del Centro-Nord. Dato che fa il paio con la caduta delle esportazioni che in nel Centro-Nord salgono del 3% e al Sud crollano del 4,8%. Il Sud sconta inoltre un forte calo sia dei consumi interni che degli investimenti industriali. I consumi delle famiglie meridionali sono infatti ancora in discesa, arrivando a ridursi nel 2014 dello 0,4%, a fronte di un aumento del +0,6% nelle regioni del Centro-Nord. Se si guarda dall’inizio della crisi al Sud i consumi sono scesi del 13,2%, oltre il doppio che nel resto del paese. Anche peggiore la situazione degli investimenti che nel 2014 scendono di un ulteriore 4%, portando il dato dal 2008 a un calo del 38%, con picchi del 59% per l’industria, del 47% per le costruzioni e del 38% nell’agricoltura. Non è immune dal crollo nemmeno la spesa pubblica.


A livello nazionale dal 2001 al 2013 la spesa pubblica in conto capitale è infatti diminuita di oltre 17,3 miliardi di euro da 63,7 miliardi a 46,3 ma al Sud il calo è stato di 9,9 da 25,7 a 15,8. Scendono soprattutto al Sud i trasferimenti in conto capitale a favore delle imprese pubbliche e private: tra il 2001 e il 2013 si è registrato un calo del 52%, pari a oltre 6,2 miliardi di euro.
”Un Paese diviso e diseguale, dove il Sud è la deriva e scivola sempre più nell’arretramento: nel 2014 per il settimo anno consecutivo il Pil del Mezzogiorno è ancora negativo (-1,3%) e il Pil pro capite tra Centro-Nord e Sud nel 2014 ha toccato il punto più basso degli ultimi 15 anni, con il 53,7%”.
In termini di Pil pro capite, il Mezzogiorno nel 2014 è sceso al 53,7% del valore nazionale, un risultato mai registrato dal 2000 in poi. Lo scorso anno infatti quasi il 62% dei meridionali ha guadagnato meno di 12 mila euro annui, contro il 28,5% del Centro-Nord. Nel dettaglio a livello nazionale, il Pil è stato di 26.585 euro, risultante dalla media tra i 31.586 euro del Centro-Nord e i 16.976 del Mezzogiorno.


A livello di regioni il divario tra la più ricca, Trentino Alto-Adige con oltre 37 mila euro, e la più povera, la Calabria con poco meno di 16 mila euro, è stato di quasi 22 mila euro, in crescita di 4 mila euro in un solo anno. Tutto questo si riflette nel rischio povertà che coinvolge una persona su tre al Sud e solo una su dieci al Nord. La regione italiana con il più alto rischio di povertà è la Sicilia (41,8%), seguita dalla Campania (37,7%) ma in generale al Sud è aumentata rispetto al 2011 del 2,2% contro il +1,1% del Centro-Nord.
”Nel 2014 al Sud si sono registrate solo 174 mila nascite, livello al minimo storico registrato oltre 150 anni fa, durante l’Unità d’Italia: il Sud sarà interessato nei prossimi anni da un stravolgimento demografico, uno tsunami dalle conseguenze imprevedibili”. Sono le previsioni contenute nel Rapporto Svimez sull’economia del Mezzogiorno 2015.
”Il numero degli occupati nel Mezzogiorno, ancora in calo nel 2014, arriva a 5,8 milioni, il livello più basso almeno dal 1977, anno di inizio delle serie storiche Istat”. Lo Svimez sottolinea che il prezzo più alto è pagato da donne e giovani. 
Infine dal rapporto Svimez emerge il rischio povertà coinvolge una persona su tre al Sud e solo una su dieci al Nord. La regione italiana con il più alto rischio di povertà è la Sicilia (41,8%), seguita dalla Campania (37,7%) ma in generale al Sud è aumentata rispetto al 2011 del 2,2% contro il +1,1% del Centro-Nord.

Patricia Field e lo stile: da Sex & the City in poi

Il suo nome è associato a serie TV di enorme successo, in primis Sex & the City. Alzi la mano chi non ha invidiato il guardaroba di Carrie Bradshaw. L’artefice di tutto ciò è Patricia Field.

Folti capelli rosso fuoco e un sorriso di una simpatia travolgente, è in buona parte grazie al suo contributo come stylist che Sex & the City è diventato un cult. Le avventure delle quattro protagoniste in outfit semplicemente favolosi hanno fatto sognare il pubblico femminile di tutto il mondo.

Audace nel mixare capi classici ad elementi forti, la Field ha dichiarato più volte la sua predilezione per outfit altamente scenografici. In nomination per gli Academy Award e vincitrice del prestigioso Emmy Award per i costumi della celebre serie dell’HBO, la sua boutique a New York è stata per oltre 50 anni meta del turismo per veri gourmet della moda.

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Capelli rosso fuoco e stile da vendere
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Patricia Field è diventata un’icona della moda mondiale grazie a “Sex & the City”
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Proporzioni oversize tipiche degni anni Novanta, quando è stata lanciata la celebre serie

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Carrie in Oscar de la Renta


Nata a New York nel 1941 da genitori di origine greca e armena, Patricia Field ha vissuto a lungo nel Queens. Nel 1966 ha inaugurato il suo store al Greenwich Village, Manhattan. Nel 1970 la designer ha rivendicato l’invenzione dei leggings, capo evergreen della moda fino ai nostri giorni. Nel 1995 il primo incontro con Sarah Jessica Parker, sul set di Miami Rhapsody, fino al successivo Sex & the City, con cui la Field ottiene la consacrazione a guru della moda mondiale.

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Il tutù con una maglia sporty: il gusto nel mixare è tipico della Field
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Patricia Field ha curato i costumi di “Sex & the City”, “Ugly Betty” e “Il Diavolo veste Prada”
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Un celebre look di Sarah Jessica Parker nei panni di Carrie Bradshaw
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Origini greche e armene per Patricia Field

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Turbanti glitterati e un pieno di colore per le protagoniste del celebre telefilm della HBO


Celebri i tutù in tulle e le adorate Manolo Blahnik con cui Carrie saltella agilmente per le vie di New York. Altrettanto famosa l’ossessione per Oscar de la Renta e i suoi abiti da principessa. Dolce & Gabbana, Fendi e la sua celebre baguette, Chanel, Gucci e Ralph Lauren sono solo alcuni dei brand che figurano nella mitica serie tv. “All’inizio, quando chiedevamo di avere in prestito i capi, gli uffici stampa ci chiudevano il telefono in faccia”, ha dichiarato recentemente in un’intervista la Field. Incredibile ma vero, il successo arriva sempre così, in modo inaspettato.

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Patricia Field ha recentemente dichiarato che inizialmente i brand non erano disposti a prestare i loro capi per la serie
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Un fotogramma del film di Sex & the City
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La boutique di Patricia Field a Manhattan è da 50 anni meta privilegiata del turismo dei fashion addicted

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Un look bon ton di Charlotte York


Probabilmente nel nostro inconscio resteranno impresse per sempre le giacche di Miranda, i tailleur super sexy di Samantha, lo stile bon ton prediletto da Charlotte, e la scena in cui Carrie attraversa una New York notturna, immersa da una fitta coltre di neve, indossando una pelliccia sopra il pigiama e dei sandali gioiello sopra i calzettoni di lana: i look creati da Patricia Field sono dei capolavori di avanguardia stilistica.

La sua boutique nell’East Village è un crogiolo di capi colorati, vintage e stravaganti. Ciò che rende i suoi styling unici è il suo talento nel mixare artigianato e capi da passerella, accessori acquistati a poco prezzo ai mercatini e outfit haute couture. Non solo Sex & the City ma anche anche Ugly Betty e Il Diavolo veste Prada figurano nel curriculum di Patricia Field. Una guru della moda che ha regalato sogni a tante donne nel mondo.