Omicidio stradale: è legge (finalmente!)

L’Italia la chiedeva a gran voce da anni e da ieri sera è diventata realtà: la legge sull’omicidio stradale è stata pubblicata ieri sera sulla Gazzetta Ufficiale ed entra in vigore da oggi. Nonostante alcuni punti critici, la legge n.41 del 23 marzo 2016 (data di firma del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella) colma un vuoto legislativo che per troppo tempo ha permesso a crimini gravi di rimanere impuniti. Da oggi chi uccide una persona guidando in stato di ebbrezza grave o sotto l’effetto di stupefacenti rischia da 8 a 12 anni di carcere, ed è solo uno dei tanti casi presi in considerazione dalla nuova legge. La pena infatti è più breve per lesioni (suddivise in lievi, gravi e gravissime) e aumenta se c’è più di una vittima o se il conducente fugge dopo aver provocato l’incidente. Prevista anche la revoca immediata della patente, che nei casi più gravi può essere restituita anche dopo 30 anni.


La principale critica mossa alla nuova legge sull’omicidio stradale è quella di equiparare, in qualche modo, chi si mette alla guida dopo aver assunto alcool o droghe e chi, da sobrio, effettua manovre pericolose come guida contromano, sorpassi e inversioni a rischio. In Senato, dove la legge è stata approvata lo scorso 2 marzo, Carlo Giovanardi ha parlato di norme “folli che favoriscono drogati, ubriachi, pirati della strada“, mentre i grillini si sono astenuti dal voto denunciando forti criticità. Si è detto soddisfatto invece il premier Matteo Renzi, che poco dopo il voto ha twittato “Per Lorenzo, per Gabriele, per le vittime della strada. Per le loro famiglie. L’omicidio stradale e’ legge #finalmente“. Proprio per quelle vittime e per le loro famiglie, il cui dolore è rimasto troppo a lungo inascoltato, il presidente dell’Associazione Amici della Polizia Stradale Giordano Berni, dopo aver pubblicato la notizia ieri sera su facebook, ha risposto a dubbi e interrogativi e ha invitato alla prudenza. “Tra le difficoltà – spiega Biserni – c’è l’applicazione delle nuove norme mentre si è in attesa della circolare esplicativa del Ministero dell’Interno, proprio in corrispondenza dell’esodo per il week end di Pasqua“. 9,7 milioni di italiani trascorreranno infatti la Pasqua 2016 lontani da casa, diretti al mare, in campagna, in montagna o nelle città d’arte. Massima cautela e controlli più rigidi quindi per gli spostamenti in auto di questo week end, ora che l’omicidio stradale è legge.

Erika Albonetti fotografata da David Glauso

C’è, nell’assenza di colore, la più grande espressione di un’immagine, che permette di concentrarsi sui particolari, sui dettagli, sui contrasti di luci ed ombre.

E’ così che un fascio di luce mette in risalto gli occhi, i movimenti delle mani o che un vetro appannato diventi la finestra aperta all’osservatore – nelle foto di David Glauso.

Model: Erika Albonetti

Photographer: David Glauso


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Warloom: l’esaltazione del lusso Made in Italy

Cura nei dettagli e scelta di pellami di assoluto pregio. L’esplorazione magica di un mondo effimero e prodigioso come il circo, è il progetto creativo del marchio milanese Warloom che presenta una collezione di borse e cinture lavorate interamente a mano in Italia e confezionate con pitone e coccodrillo indonesiani.

 

Beaskope Bag nata dalla collaborazione con la boutique "La Tenda"
Modello Diana nata dalla collaborazione con la boutique “La Tenda”

 

 

Bauletto Diana
Bauletto Diana

 

 

Modello Margot della linea Circus
Modello Margot della linea Circus

 

 

La passione per gli accessori si desume dalla raffinatezza dei foulard, dalla scelta di coniugare un’immagine forte e di mixare scrupolosamente funzionalità e volumi comodi.

Accessori  luxury che esaltano la femminilità della donna: tracolle, secchielli e maxi shopper si prestano per essere indossati durante tutto il giorno donando quel quid in più anche agli outfits più usuali.

Di recente, il brand ha stretto una solida collaborazione con la boutique “La Tenda”, creando per l’ occasione, una BeSpoke “Warloom per La Tenda” presentata durante un evento tenutosi il 24 febbraio scorso nello storico negozio milanese nato nel 1965.

 

Secchiello modello Clown della linea Circus
Secchiello modello Clown della linea Circus

 

 

Tracolla Moira collezione Circus
Tracolla Moira collezione Circus

 

 

 

Per conoscere il marchio Warloom vista il sito www.warloom.com

 

 

Photo courtesy Press Office

Cosa c’è da sapere sulla comunicazione online?

Che metodo deve perseguire il professionista per sviluppare un contenuto di valore che arrivi al destinatario del messaggio e che da lì riparta per prendere nuova vita?


Ascolto e studio. Analisi dei competitor, della storia del brand. Immaginare il messaggio che si vuole trasmettere. Comprendere il target, il suo linguaggio e le sue sintassi. Le proposte poi vengono da una sintesi di tutto questo.
Spesso l’errore è “inseguire i trend”. E questo non è un bene per il brand e non crea valore.
Faccio un esempio abbastanza attuale.
È stato in trending, durante l’iter di approvazione della legge sulle unioni civili, il tema complessivo dei diritti civili lgbt.
Abbiamo assistito a una serie di campagne, anche di marchi storici, tradizionali (dal settore trasporti, all’alimentare alla pasticceria) affannarsi a inseguire quel trend. Il risultato è stato sostanzialmente duplice nel complesso. Da un lato un danno per il marchio, una sorta di boomerang mediatico, e dall’altro campagne di bassa e piatta qualità. Alla fine non c’era alcun nesso tra il brand, il prodotto, il messaggio e la campagna proposta. Ecco queste sono “campagne che non creano valore”, destinate al dimenticatoio, che on resteranno nel tempo, non creano linguaggi e slogan. Anzi al massimo diventano case-history nella categoria da evitare del “fail”.
Un brand – oggi forse più di ieri, perché i media a disposizione sono molti e virali, e non unidirezionali e statici – merita di più, più attenzione, molta cura, e spesso anche che l’agenzia sappia dire no ad una facile campagna per creare un valore in più durevole nel tempo.
Ma sono in pochi a considerare purtroppo valore e investimento lo studio e la programmazione del linguaggio. Questo è un grande limite perché penalizza la qualità della comunicazione e fa perdere di competitività nel quadro internazionale, dove le aziende davvero grandi sono poco interessate a campagne scialbe.


Incontrare figure come head of content e content strategist è sempre più frequente all’interno di agenzie e aziende. Ma oggi in quale misura siamo disposti a seguire il content marketing di marca? I social favorendo la condivisione sono il canale ideale per ingaggiare l’utente?


Il web è il solo luogo dove puoi fare engagement. Giornali, radio, tv, restano canali importanti ma unidirezionali, da cui avare un feedback, un contatto, è sempre molto complicato e costoso.
E tuttavia il messaggio che nel tempo è passato è molto approssimativo, una sorta di “ho la mia pagina Facebook da cinque anni, vuoi che non sappia gestire la tua?” e ci si improvvisa. Senza avere una cognizione chiara e professionale del mezzo, delle potenzialità, senza uno studio professionale degli analitycs e dei metadati. Immaginando spesso come secondo noi è e deve funzionare e non invece ponendoci il problema di come in realtà sia (ci piaccia o no) e di come funzioni (anche se non lo comprendiamo).
Incontriamo queste figure, è vero, che spesso sono deleghe funzionali – e l’inglese ha sempre il suo fascino – ma non necessariamente dietro queste deleghe corrispondono altrettanto anglosassoni competenze. E dico purtroppo, perché invece un content competente sarebbe davvero in grado di dire prima se e come può funzionare una campagna.
Un content manager dovrebbe passare almeno tre ore della sua giornata a navigare, leggere, studiare, comparare, misurare ciò che avviene in rete altrove rispetto ai siti e le pagine che gestiste. Un content strategist almeno il doppio del tempo.


Quali sono gli errori da non commettere in comunicazione? Siete in grado di stilarne un decalogo? A vostro parere quali sono stati i casi eclatanti e quelli borderline nel nostro paese?


Gli errori più comuni sono di tre tipi: pensare di poter fare qualcosa per cui non si è preparati professionalmente ma solo intuitivamente, pensare a come secondo noi funziona uno strumento, senza sapere invece come funziona in realtà, pensare che le azioni di comunicazione siano sempre positive, comunque ed a prescindere, basta che se ne parli, senza preoccuparsi delle conseguenze di un errore grammaticale, di una foto sbagliata o di cui non si hanno i diritti, di una colonna sonora senza essere autorizzati ad usarla etc.
Questi tre errori sono comunissimi nell’impostazione complessiva di molte agenzie anche importanti. E gli errori che ho descritto – che possono sembrare banali – sono casi reali.
Pensare che “comunque vada basta che se ne parli è vincente” è l’errore di cui parlavo all’inizio compiuto da Barilla, Megatti e tanti altri. Usare foto senza diritti è costato molto a Fratelli d’Italia, per ben due volte. E Grillo e Casaleggio sono stati diffidati tre volte per video virali con colonne sonore non autorizzate.
Perché “il fai da te” o “pensare di saper fare” confondendo il personale e amatoriale (anche se ben fatto) e il professionale-competente porta a non considerare questi aspetti, che un’agenzia invece – professionalmente – deve tenere presenti, a garanzia e tutela del cliente, prima di tutto.
Uno studio di qualità in questo senso ad esempio è quello della comunicazione di Ceres, che nel complesso “gioca” sempre sull’essere borderline senza mai eccedere e cadere nell’errore mediatico. Può piacere o meno, ma è sempre efficace, fa parlare di sé ma senza mail cadere nel fail.
E per seguire sistematicamente i trend, in questo modo, lo studio (che non si vede, ma che un professionista ha il dovere di vedere e comprendere) è davvero enorme.

Giù di morale o stressate? Ecco la stanza ideata per piangere a dirotto

Se vi sentite tristi per la rottura di una relazione che ritenevate importante o se la vita quotidiana vi asfissia tanto da sentire un nodo alla gola, ecco che in Giappone, qualcuno ha pensato bene di alleviare le vostre sofferenze aiutandovi a liberare tutte le frustrazioni che non vi lasciano scampo.

L’Hotel Mitsui Garden Yotsuya a Tokyo, promette alle sue clienti un soggiorno all’insegna del libero sfogo, mettendo a disposizione quelle che sono state definite “camere del pianto” ad un prezzo di 10.000 yen, l’equivalente di circa 70 euro.

La cura pensata dal noto hotel del Sol Levante, prevede una full immersion tra le migliori pellicole strappalacrime che il mondo del cinema internazionale abbia mai prodotto; con un click sul telecomando, infatti, potrete rivedere tra le svariate proposte: “Forrest Gump”,” Insonnia d’amore” e “Gli intoccabili”.

Soffici fazzoletti di tessuto, maschere lenitive per il viso e latte detergente per la beauty routine, renderanno più confortevole il soggiorno.

La crying room è un potente antidoto contro lo stress ed è apprezzatissima dalle donne che ne hanno ricavato reali benefici  sia fisici che psichici.

Se state pianificando un viaggio a Tokyo, non dimenticate di annotare sulla vostra Moleskine il nome di Mitsui Garden Yotsuya Hotel, che farà da cornice perfetta alle mirabili attrazioni che la città offre ai suoi viandanti.

 

 

 

Fonte Cover dailymail.co.uk

Addio, Paolo Poli

Istrionico. Artista complesso e versatile. L’Italia s’inchina dinanzi a Paolo Poli, l’attore fiorentino che avrebbe compiuto 87 anni il prossimo 23 maggio, spirato a Roma dopo una malattia che non gli ha permesso di vivere ancora.

Ha riempito le platee, entusiasmando con la sua comicità disarmante. Era omosessuale e non ebbe remore  ad annunciare la sua inclinazione sessuale. Si diceva favorevole al matrimonio tra gay ma contrario al proprio contratto matrimoniale.

Acuto e diretto nell’esprimere la sua opinione, perfino quando toccava tematiche come la cristianità: “Se Gesù anziché finire in croce veniva impalato, adesso ai santi dove comparivano le stigmate?

Figlio di un carabiniere e di una maestra, dopo la laurea in Letteratura francese con una tesi su Henry Beque, esordisce in un teatro di Genova con <<La borsa di Arlecchino>>.

 

L'attore Paolo Poli in un suo travestimento in "I Sillabari"
L’attore Paolo Poli in un suo travestimento in “I Sillabari”

 

 

Un inizio che prelude il futuro artistico di Paolo Poli che negli anni sessanta lavora in RAI leggendo favole per bambini estrapolate da Esopo.

Diventa sceneggiatore per la RAI lavorando allo sceneggiato “I tre moschettieri “ assieme alla sorella Lucia Poli, Milena Vukotic e Marco Messeri.

Rifiuta una parte in di Federico Fellini e intraprende una carriera trasversale come cantante, pubblicando anche diversi album.

Superbo appare il suo approccio artistico e le sue interpretazioni sempre convincenti, hanno fatto vivere mondi paralleli ai suoi spettatori. Non possiamo esimerci dal ricordare le sue performances “Il mondo d’acqua” di Aldo Nicolaj e “I Sillabari” tratto dall’opera di Goffredo Parise, per il teatro.

Per il cinema, interpretò svariate pellicole come” La piazza vuota” di Beppe Recchia e “Le due orfanelle” di Giacomo Gentilomo.

 

«In fondo dobbiamo alla Chiesa anche Dante, che pure era antipapista. Se la Chiesa non avesse inventato il Purgatorio giusto qualche anno prima, non avremmo avuto la cantica più bella. Non amo l’Inferno: una scopiazzatura di Guinizzelli. Preferisco il Paradiso: la poesia d’amore applicata al tomismo; e la donna amata personifica la religione.>> Paolo Poli.

 

 

Fonte Cover giacomobaldoni.altervista.com

 

 

I migliori backstage di Milano Moda Donna: San Andres

Il viaggio nel Centro America, attraverso il quale ci guida da anni, è di nuovo il fulcro per le novità San Andres Milano


Una comunità di indigene, intente a trasmettere i propri credo attraverso variopinte cromie e trame iconografiche, le Muzahua, è il leitmotiv che aleggia nella collezione Autunno/Inverno di San Andres Milano.



Intente a danzare al suono della fisarmonica e della chitarra fanno vibrare gli abiti realizzati in cady e georgette e ricamati con cristalli swarovski, gli stessi che ritroviamo nei capispalla dalla duplice anima in lana e mohair. A completare questi ultimi opulenti colli di volpe che svelano sofisticati dettagli, come le calze in pizzo indossate con sensuali Mary Jane.
La “Mujer Muzahua” rivendica, così, anche sulle passerelle milanesi il suo profondo legame con l’estetica.


Fashion editor: Alessia Caliendo
Video: Christian Michele Michelsanti
Photo: Matteo Di Pippo

V°73: Elisabetta Armellin alla conquista del mondo

Elisabetta Armellin ha il dono di trasmettere felicità. Sarà questo il segreto del successo di V°73?

Il suo marchio è apprezzatissimo in tutto il mondo, con ben 450 stores disseminati per il globo (New York e Parigi, le città che hanno adottato le sue creazioni con fervore).

Ironia, savoir-farir, eclettismo: V°73 è un ciclone  di creatività ed estetismo, con un occhio che strizza alla cura dei dettagli e materie prime di assoluto pregio.

Il 18 marzo scorso, la designer ha inaugurato il suo monomarca nella sua città, Treviso.

 

Elisabetta Armellin
Elisabetta Armellin designer del marchio V°73

 

 

Chi è Elisabetta Armellin?

Sono nata nell’entroterra veneziano, dove la bellezza della natura emerge in tutte le sue sfumature. Ho studiato subito arte perché è sempre stata la mia grande passione, una volta laureata all’Accademia di Belle Arti di Venezia ho fatto parecchi anni di “gavetta” in aziende del settore moda, quando mi sono sentita professionalmente pronta ho aperto uno studio di Design che tutt’ora fa consulenze per grossi fashion brand e poi l’idea improvvisa/fulminea di fondare un marchio, nasce così V73.

 

Quando ebbe inizio la tua avventura nel fashion system?

A 20 anni quando mi “buttarono” dentro un azienda di moda per uno stage, fu amore a prima vista!

 

Modello Venezia Bamboo Butter collezione SS16
Modello Venezia Bamboo Butter collezione SS16

 

Modello Stella in cuoio e dettagli sparkling collezione SS16
Modello Stella in cuoio e dettagli sparkling collezione SS16

 

 

 

Cosa rappresenta, per te, V°73?

La mia vita, il riassunto di un grande lavoro, fatto di passione e sacrifici.

 

 

La tua fonte d’ispirazione.

Venezia, la mia terra, quello che mi circonda tutti i giorni. La natura stessa.  Amo la vita e sono una “sana curiosa”.

 

 

Un viaggio che ti ha cambiato la vita.

il volo Venezia -Parigi di 4 anni fa. Fu in quel momento che tirai fuori il mio piccolo Book e schizzai la prima V73, fu l’inizio di una nuova avventura.

 

Modello Frida in suede collezione SS 16
Modello Frida in suede collezione SS 16

 

 

 

Un oggetto che costudisci gelosamente.

La mia scatola dei colori, ogni volta che la apro mi batte forte il cuore.

 

 

Un ricordo che non vorresti mai dimenticare.

Il primo articolo uscito su Vanity Fair che parlava di me:  non ne sapevo niente, mi ha chiamò un’ amica per dirmelo. Quanta emozione!

 

Modello Aurora Owl in ecopelle ricamata
Modello Aurora Cat in ecopelle ricamata collezione SS16

 

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Un libro che più ti rappresenta.

È un vecchio libro non conosciuto ” Il sillabario” di Goffredo Parise: piccoli racconti di vita quotidiana molto romantici e profondi.

 

 

Il tuo presente.

Molto impegnativo ma pieno di soddisfazioni.

 

 

Il tuo futuro.

Vedere mio figlio diventare uomo.

 

 

Photo courtesy Press Office

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Massimiliano Giornetti lascia la direzione creativa di Salvatore Ferragamo

Notizie di questo genere sono oramai all’ordine del giorno.

Nel mondo della moda, infatti, pare che la parola d’ordine sia “fuga”.

Solo di recente, vi abbiamo informato dell’addio di Ennio e Carlo Capasa al marchio Costume National ma, durante gli scorsi mesi, abbiamo assistito all’addio di Alber Elbaz da Lanvin, di Raf Simons da Dior, di Stefano Pilati da Zegna e di Frida Giannini da Gucci.

Questa volta la clamorosa dipartita lavorativa tocca la maison Salvatore Ferragamo che, attraverso un comunicato stampa, annuncia l’abbandono della direzione creativa di Massimiliano Giornetti: “Cogliamo questa opportunità per rivisitare il nostro approccio alla creatività. Negli anni l’azienda ha scoperto e sostenuto tanti giovani talenti ed oggi può contare su un eccellente team creativo interno”, ha dichiarato Michele Norsa, CEO del Gruppo.

 

Backstage collezione A/I 16-17 Salvatore Ferragamo
Backstage collezione A/I 16-17 Salvatore Ferragamo disegnata da Massimiliano Giornetti

 

 

Giornetti, era entrato nel gruppo Ferragamo nel 2000, curando nel 2004 il progetto creativo della linea uomo e solo nel 2010 ricoprendo il ruolo di creative director per tutte le collezioni della maison fiorentina.

Certi che, l’abbandono degli stilisti non sia legato a questioni economiche, occorre dunque indagare sul motivo per cui sempre più creativi decidono di abbandonare troni “luccicanti”. Non può che attanagliarci il dubbio della fuga di creatività che sta colpendo il fashion system. Voglia di cambiamenti? Ricerca di una propria identità? Pausa di riflessione?

Sarà difficile ricevere risposta immediata a queste domande e forse saremo ancora qui, a scrivere di un nuovo abbandono, a breve.

Massimiliano Giornetti  lascia Ferragamo dopo il grande successo della collezione autunno/inverno 16-17 presentata a Milano lo scorso 28 febbraio. Si attende, dunque, di conoscere il nome del nuovo direttore creativo di Salvatore Ferragamo.

 

 

 

Fonte Cover Elle.de

I migliori backstage di Milano Moda Donna: Au Jour le Jour

I giochi enigmistici scendono in passerella per la nuova collezione Autunno Inverno Au Jour le Jour


I 5 sensi sono operativi per soddisfare la curiosità dell’animo umano, che vive di giochi cifrati e simbologie note.
Questo è il concept su cui si basa la prossima stagione autunno/inverno di Au Jour le Jour.

I macro ricami tornano alla ribalta mentre il panno di lana e il Principe di Galles si alternano alla leggerezza del tulle e dell’organza. Per caratterizzare le pellicce, inoltre, vengono utilizzate giocose paillettes in plexiglass.
La stagione fredda sceglie cromie neutrali e stimolanti accessori per far rivivere il lato ludico di ogni donna.


Fashion editor: Alessia Caliendo
Video: Christian Michele Michelsanti
Photo: Matteo Di Pippo

Marisa Berenson: icona di stile e bellezza

Due occhi da cerbiatto verde smeraldo, la pelle ambrata, l’ovale perfetto; una bellezza naturale, ritratta acqua e sapone su spiagge assolate o nel sole di location esotiche, capace di trasformarsi un attimo dopo in una diva dall’allure sofisticata, tra abiti haute couture e party esclusivi: Marisa Berenson è stata una delle modelle più pagate al mondo e ha alle spalle una lunga e prolifica carriera cinematografica, in cui spiccano i film di Visconti e Kubrick.

Definita da Yves Saint Laurent “the girl of the Seventies”, Marisa Berenson ha incarnato la quintessenza del glamour a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta. Presenza fissa dell’International Best Dressed List, impossibile dimenticare le foto di Slim Aarons che la immortalano a Capri in turbante anni Venti, bella e carismatica, o con i suoi celebri look boho-chic, ritratta dall’amico di una vita, Andy Warhol. Non solo attrice e modella, ma anche icona di stile e protagonista assoluta del jet set internazionale e delle riviste patinate, testimone di una New York fatta di glamour ed eccessi.

Nata a New York il 15 febbraio 1947, Marisa Berenson discende da una famiglia blasonata: il padre è Robert Lawrence Berenson, diplomatico americano di origini ebraiche e lituane, che si era distinto per aver diretto i cantieri navali di Onassis, e che sotto la presidenza Kennedy divenne ministro per i paesi in via di sviluppo. Berenson era nipote del grande esperto d’arte Bernard Berenson, bisnonno di Marisa. Il cognome originario della famiglia era Valvrojenski. La madre di Marisa è la contessa Maria Luisa Yvonne Radha de Wendt de Kerlor, meglio conosciuta come Gogo Schiaparelli, socialite di origini italiane, svizzere, francesi, polacche ed egiziane, figlia della celebre stilista Elsa Schiaparelli, storica rivale di Chanel.

Marisa Berenson in uno scatto di Irving Penn
Marisa Berenson in uno scatto di Irving Penn
Marisa Berenson in una foto di Irving Penn, Vogue, 1965
Marisa Berenson in una foto di Irving Penn, Vogue, 1965
Marisa Berenson in Mila Schön, foto Henry Clarke, 1968
Marisa Berenson in Mila Schön, foto Henry Clarke, 1968
Marisa Berenson con gioielli Bulgari, foto di Gian Paolo Barbieri, 1969
Marisa Berenson con gioielli Bulgari, foto di Gian Paolo Barbieri, 1969
Marisa Berenson ritratta da Bert Stern per Vogue, 1966
Marisa Berenson ritratta da Bert Stern per Vogue, 1966

Marisa Berenson in uno scatto di Irving Penn, Vogue 1970
Marisa Berenson in uno scatto di Irving Penn, Vogue 1970


Se tua nonna si chiamava Elsa Schiaparelli lo stile non può che far parte del tuo DNA. È così che la piccola Marisa finisce sulla cover di Vogue America che è ancora in fasce, mentre ad appena cinque anni viene immortalata sulla cover di Elle, insieme alla sorella Berry. Tanti sono gli aneddoti raccontati dall’icona di stile in cui viene fuori un ritratto di Elsa Schiaparelli, da lei affettuosamente chiamata “nonna Schiap”: dai viaggi insieme a Venezia alle amicizie negli ambienti della Parigi intellettuale, dove la piccola Marisa conobbe Salvador Dalí e Alberto Giacometti.

Ma non finisce qui: il nonno di Marisa è il conte Wilhelm de Wendt de Kerlor, teosofo e medium, mentre il bisnonno era Giovanni Schiaparelli, astronomo scopritore dei canali di Marte. La sorella minore di Marisa, Berinthia Berenson, detta Berry, diventerà anche lei modella, attrice e fotografa, e morirà nei tragici attentati dell’11 settembre 2001 al World Trade Center.

Nonostante le prime cover risalgano alla sua infanzia, la lunga e prolifica carriera di modella di Marisa Berenson inizia ufficialmente nei primi anni Sessanta. È Diana Vreeland, celebre fashion editor di Harper’s Bazaar e direttrice di Vogue America, ad intuire per prima l’impressionante fotogenia di quel volto. Venerata da fotografi e stilisti, Marisa Berenson posa per i più grandi, da Richard Avedon a Patrick Lichfield, da Irving Penn a Bert Stern fino a Robert Mapplethorpe e Henry Clarke, che la immortala in foto dal fascino esotico, esaltandone lo spirito gipsy e il carisma. In pochissimo tempo Marisa Berenson ottiene fama internazionale e diviene la modella più pagata al mondo, come lei stessa dichiara in un’intervista al New York Times. Il suo fisico incarna perfettamente gli anni Sessanta: è un’epoca ricca di ribellione. “Noi modelle ci truccavamo da sole. Giravo con un borsone enorme pieno di toupet e cianfrusaglie”, ricorderà più avanti la modella. La consacrazione avviene nel luglio del 1970, quando ottiene la cover di Vogue, e nel dicembre 1975, quando è sulla copertina del Time.


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In seguito la modella si avvicina alla recitazione. A lanciarla nel cinema non è uno qualsiasi ma Luchino Visconti, che la vuole nel suo Morte a Venezia, nel 1971, dove Marisa interpreta il ruolo della moglie di Gustav von Aschenbach. L’anno successivo recita in Cabaret, nel ruolo di Natalia Landauer, interpretazione che le vale una nomination ai BAFTA e due nomination ai Golden Globe. Impossibile dimenticare la sua interpretazione di Lady Lyndon nel celebre film Barry Lyndon, del 1975. Tra crinoline settecentesche ed estenuanti ore di trucco, è la consacrazione come attrice. Per incoraggiarla, il regista della pellicola, Stanley Kubrick, le dice: “Nessuno, in tutta la tua vita, ti raffigurerà così bella”.

Negli anni Settanta la Berenson diviene famosa grazie ad un nuovo soprannome: “The Queen of the Scene”. Un po’ come il prezzemolo, la Berenson è ovunque, sempre nel posto giusto e al momento giusto, regina della vita notturna e dei nightclub, onnipresente in ogni occasione mondana, seguita da uno stuolo di corteggiatori. Ma non ci sono solo lustrini e paillettes nella sua vita: dietro agli abiti da sera e alle ciglia finte c’è una profonda introspezione. La meditazione cambia la sua vita, come lei stessa dichiara. Si avvicina alla spiritualità nel 1968, quando i viaggi in India divennero l’ultimo fashion trend per celebrities annoiate: dai Beatles a Mia Farrow fino ai Beach Boys, il viaggio in India era l’ultima moda dei protagonisti del jet set. E Marisa Berenson non poteva certo mancare. Di quel viaggio alle pendici dell’Himalaya la diva ricorderà la sua amicizia con George Harrison e Ringo Starr, con i quali trascorreva le giornate in meditazione e le notti seduti per terra a suonare la chitarra.

La modella indossa collier Bulgari in una foto di Gianni Turillazzi, circa September 1970 –  Condé Nast Archive/Corbis
La modella indossa collier Bulgari in una foto di Gianni Turillazzi, settembre 1970 –Condé Nast Archive/Corbis
Marisa Berenson a Capri, in una celebre foto di Slim Aarons, settembre 1968
Marisa Berenson a Capri, in una celebre foto di Slim Aarons, settembre 1968
Marisa Berenson immortalata da Arnaud de Rosnay per Lui Magazine, gennaio 1971
Marisa Berenson immortalata da Arnaud de Rosnay per Lui Magazine, gennaio 1971
Marisa Berenson in una foto di Andy Warhol, anni Settanta
Marisa Berenson in una foto di Andy Warhol, anni Settanta
Foto Getty Images
Marisa Berenson è una delle più grandi icone di stile viventi (Foto Getty Images)

Marisa Berenson in Ungaro Couture, foto di Jean-Marie Périer, 1995
Marisa Berenson in Ungaro Couture, foto di Jean-Marie Périer, 1995


La vita privata di Marisa Berenson è ricca di liaison e corteggiamenti da film: nei primi anni Settanta fu la compagna del barone David René de Rothschild. Celebre la sua relazione con il collega, il bellissimo ed efebico attore Helmut Berger. Lei ed Helmut sono la coppia ideale: bellissimi e fotogenici. Luchino Visconti li incitava a sposarsi, come lei stessa racconta nell’autobiografia Momenti intimi, pubblicata nel 2010 da Barbès editore.

Il suo primo marito fu James Randall, detto Jim, sposato a Beverly Hills nel 1976, da cui divorziò due anni più tardi. Il matrimonio fu regale, l’abito era firmato Valentino e lo stesso stilista si aggirava per casa per dare gli ultimi colpi di ferro da stiro al vestito mentre l’altro inseparabile amico Andy Warhol era intento a fotografare i preparativi delle nozze. Dal matrimonio nel 1977 nacque una figlia, Starlite Melody Randall. Il secondo matrimonio nasconde retroscena dal sapore cinematografico: se in genere le donne ricevono rose rosse, Marisa Berenson ricevette dall’avvocato Aaron Richard Golub due immensi camion per traslocare da Los Angeles a New York, dove lui abitava. Il matrimonio tra i due venne celebrato nel 1982, mentre nel 1987 i due divorziarono.

Marisa Berenson è nata a New York il 15 febbraio 1947
Marisa Berenson è nata a New York il 15 febbraio 1947
marisa berns
Quando Marisa Berenson era ancora in fasce ottenne la prima cover per Vogue America
(Foto Vogue)
La classe di Marisa Berenson (Foto Vogue)

Marisa Berenson nel 1973  (Foto di Tony Kent per Vogue Paris)
Marisa Berenson nel 1973 (Foto di Tony Kent per Vogue Paris)


A New York Marisa Berenson diviene musa ed intima amica di Andy Warhol e Truman Capote, collega di Liza Minelli, con la quale recita in Cabaret, cognata di Anthony Perkins, che sposa sua sorella Berry. Dopo un breve periodo lontano dai riflettori, riprende a recitare: la ritroviamo nell’indimenticabile spaccato di vita mondana Via Montenapoleone, ma anche in pellicole impegnate, diretta da maestri del calibro di Clint Eastwood. Nel 2001 il debutto a Broadway, mentre tra i suoi ultimi film spicca Io sono l’amore, di Luca Guadagnino, e Matrimoni e altri disastri.

Foto di Patrick Lichfield
Foto di Patrick Lichfield
Marisa Berenson in una foto di Arnaud de Rosnay, anni Sessanta
Marisa Berenson in una foto di Arnaud de Rosnay, anni Sessanta
Marisa Berenson negli anni Sessanta, foto di Jeanloup Sieff
Marisa Berenson negli anni Sessanta, foto di Jeanloup Sieff
Su Vogue Italia 2001, foto di Steven Meisel
Su Vogue Italia 2001, foto di Steven Meisel

Marisa Berenson immortalata da Robert Mapplethorpe, 1983
Marisa Berenson immortalata da Robert Mapplethorpe, 1983


La sua vita ha visto anche momenti molto difficili, come l’incidente automobilistico avvenuto in Brasile in cui la diva è rimasta coinvolta, che le ha sfregiato la parte sinistra del viso. Ma quello che poteva essere un dramma irreparabile, per Marisa Berenson, ha visto invece un lieto fine: l’ex top model è stata infatti una peziente di Ivo Pitanguy, pioniere della chirurgia estetica, che le ha ridato la bellezza. Un’altra tragedia invece ha scosso la sua vita, stavolta senza il lieto fine: l’amata sorella Berry ha perso la vita l’11 settembre 2001, a bordo dell’aereo che da Boston si è schiantato contro la Torre Nord. Lei stessa invece si trovava in volo da Parigi a New York. Una perdita che l’ha aiutata a riscoprire la fede, come raccontato dalla stessa Berenson nella sua autobiografia. Un anello appartenuto a Berry verrà ritrovato a Ground Zero un anno dopo la tragedia.

(Foto cover Irving Penn per Vogue, settembre 1967)


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