Ignazio Marino le dimissioni e la bellezza del Campidoglio

Le note vicende di Ignazio Marino, sindaco di Roma, e delle sue dimissioni minacciate-presentate-ritirate-ripensate-ecc. hanno ancora una volta acceso i fari dei mass-media di tutto il mondo sul Campidoglio, sede dell’Amministrazione Comunale della Città Eterna. Tutte le televisioni e gli altri moderni marchingegni si sono attivati, fermandosi in modo particolare su quella famosa piazza e sugli splendidi palazzi che la circondano.
Distraendoci un po’ dalla cronaca, alziamo lo sguardo verso un orizzonte più ampio. Ecco, in breve, qualche notizia su questo luogo, il cui nome ha accompagnato costantemente la storia di Roma. E non solo: se la sede del Congresso degli Stati Uniti d’America si chiama Capitol, qualche motivo ci sarà!


Ignazio Marino le dimissioni e la bellezza del  Campidoglio


Tra i sette colli che formarono il primo nucleo abitativo di Roma, il Campidoglio, pur essendo il più piccolo, assunse ben presto un ruolo centrale soprattutto per motivi religiosi. Su questo colle infatti, come racconta Tito Livio (Ab Urbe condita, I, 10), Romolo fece portare le armi di uno dei re sabini da lui sconfitto, per appenderle ad una quercia sacra a Giove. Davanti alla quercia, poi, il mitico fondatore di Roma edificò una capanna e un altare per offrire sacrifici alla somma divinità. Da questa iniziale esperienza nascerà un tempio dedicato a Giove Capitolino, così chiamato a causa del luogo, tempio che diventerà il più importante santuario del mondo romano.

Di fronte al tempio di Giove sorse un altro luogo sacro dedicato a Giunone. Inoltre, alla destra della cella di Giove, c’era il tempietto di Minerva: in tal modo si formò la cosiddetta “Triade Capitolina”.
In una società che, a differenza delle moderne democrazie occidentali, non separava la religione dallo stato, è evidente che ben presto il Campidoglio divenne anche centro politico della città. I monumenti, che nel corso dei secoli ne occuparono l’area, guardavano verso il Foro che sorge ai suoi piedi.

Con l’avvento del cristianesimo in Roma, assistiamo a due fenomeni parzialmente contraddittori.
Il primo è la perdita dell’importanza religiosa del Campidoglio a favore di altri luoghi, specialmente il Laterano e in un secondo momento il Vaticano. L’altro fenomeno è una certa sopravvivenza del valore simbolico dell’antico colle: in Campidoglio, ad esempio, si installò Cola di Rienzo quando prese il potere e Francesco Petrarca vi fu incoronato poeta. Perciò, nonostante una sostanziale decadenza di tutta la zona, restarono in piedi alcuni palazzi sorti durante il medio evo sulle rovine dei templi pagani: ad esempio, la chiesa e il convento di Santa Maria in Aracoeli erano stati edificati là dove una volta sorgeva il tempio di Giunone, i cui ultimi imponenti ruderi furono distrutti nel 1911 per innalzare l’Altare della Patria.

Giungiamo, così, al periodo rinascimentale, quando i papi decisero di mettere ordine, salvando nella misura del possibile le tracce dell’antichità e dando nuove impostazioni ai diversi quartieri dell’Urbe.


Ignazio Marino le dimissioni e la bellezza del  Campidoglio


Questo è un disegno risalente alla prima metà del Cinquecento: si nota chiaramente che la parte anteriore della collina è in stato di abbandono, mentre la statua equestre dell’imperatore Marco Aurelio già appare davanti al palazzo centrale. La statua vi fu collocata nel 1538 da Michelangelo, per incarico di papa Paolo III. Dunque il disegno prospetta la situazione del colle quando Michelangelo iniziò a mettervi mano.
Nonostante le difficoltà del luogo scosceso e caotico, il grande artista concepisce l’idea di un complesso nel quale il tutto è più importante delle single parti. Imprime all’area una forma trapezoidale, in modo che colui che vi accede venga inserito in uno spazio che va progressivamente dilatandosi.
Anche le singole opere, tuttavia, manifestano una grande armonia e bellezza.

Tornando alla figura 1, notiamo l’edificio centrale, il Palazzo Senatorio, che Michelangelo trasforma da fortezza medievale in dimora rinascimentale, mentre a destra appare il Palazzo dei Conservatori, una creazione originale del genio toscano, e a sinistra il Palazzo Nuovo, realizzato da Giacomo della Porta e Girolamo Rainaldi in un sostanziale rispetto del disegno del Maestro.
Altra opera insigne è, come si diceva, la collocazione della statua di Marco Aurelio. Trasferita sul colle capitolino proprio in vista dei progettati rinnovamenti, essa è posta su un punto leggermente a cupola: ciò sia per un motivo pratico, quello di favorire il deflusso dell’acqua piovana, sia per un valore simbolico, cioè indicare il vero centro della piazza con una figura emblematica dell’antico impero e far risaltare in tal modo il potere politico che il Campidoglio continua a rappresentare.

La statua, che ora vediamo in copia poiché l’originale è all’interno dei Musei Capitolini, è il nucleo centrale di uno spazio in movimento. La superficie della piazza è animata da un gioco di linee che riproduce su un piano le costolature ricurve di una cupola intersecantesi tra loro. È questo un ulteriore elemento di dialogo con l’altra cupola, quella di San Pietro, che in quegli anni il Maestro andava progettando ed eseguendo.

Alber Elbaz lascia Lanvin

Non si può mai star tranquilli, è proprio il caso di dirlo: dopo l’inaspettato divorzio tra Raf Simons e Dior tocca ora a Lanvin creare scalpore.

Aber Elbaz, dopo quattordici anni alla direzione creativa della celebre maison francese, ha lasciato il suo incarico.

A dare per primo la notizia è stato il sito Women’s Wear Daily: secondo rumours fidati, il designer israeliano avrebbe maturato la decisione di abbandonare la maison a causa degli ormai insormontabili contrasti con la dirigenza aziendale del marchio, in primis con Shaw-Lan Wang e Michèle Huiban, CEO di Lanvin.

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Classe 1961, Alber Elbaz è nato a Casablanca

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Lo stilista israeliano era alla guida della maison dal 2001


Una riunione straordinaria convocata questo pomeriggio tra i vertici del brand e i dipendenti avrebbe visto Elbaz fare già le valigie e lasciare il suo studio in Rue du Faubourg Saint-Honoré. Ora riflettori puntati sul suo successore.

Certo è che questi divorzi in seno alle maison più autorevoli del panorama internazionale non sono passati inosservati agli occhi degli addetti ai lavori. Se è vero che la moda è una tra le più nobili forme d’arte, assai difficile appare talora il connubio tra le strategie di marketing e le ispirazioni -mutevoli e assolutamente scevre dalle logiche di mercato- dei loro direttori creativi. Una piccola rivoluzione che sta suscitando clamore nel fashion biz, ma che auspichiamo possa magari riportare le case di moda a riscoprire la propria essenza più autentica.


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Il Pd e lo psicodramma da primarie

In origine doveva essere lo strumento di modernizzazione e caratterizzazione del Partito Democratico. La via per selezionare e far crescere una classe dirigente, per la scelta dei candidati, per ascoltare e recepire forze ed energie dai territori, dalle storie locali, dalla sempre evocata società civile.
Oggi questo strumento ha più le sembianze della sempreverde notizia di gossip politico di cui parlare, e spesso sparlare, finanche per attaccare e ridicolizzare la partecipazione democratica del partito erede dei “grandi partiti di massa” del novecento.
Mentre a livello nazionale le primarie sono state il momento attraverso cui si è celebrato il rinnovamento del partito, e senza le quali da Renzi a Civati a Marino a tanti giovani deputati non avrebbero avuto nemmeno la possibilità di emergere e vincere, sotto Roma questo cambiamento non solo non si è visto, e anzi lo strumento delle primarie è stato riciclato per consolidare, con sporadiche eccezioni, la vecchia classe dirigente.


Eppure dovremmo ricordare che fu l’allora giovane segretario provinciale del Pds, Andrea Cozzolino, che anzitempo, per superare un’impasse a Ercolano, propose le primarie interne per la scelta dei candidati. Sarà per questo che ancora oggi ne è un tale fan che non se ne perde una.
Le primarie, al sud, e in particolare in Campania, sono finite con l’essere lo strumento più patologico per misurare le alleanze correntizie e i rapporti di forza interni, senza consentire la minima possibilità di un qualsiasi nome non contemplato.
La classe dirigente dal primo Antonio Bassolino non ha alcuna novità. I nomi che emergono sono gli stessi da oltre venticinque anni. Andrea Cozzolino, Umberto Ranieri, Antonio Bassolino, Vincenzo De Luca. Dietro di loro la stessa classe dirigente che era “il nuovo” venticinque anni fa e che ricordiamo assessori e dirigenti proprio in quegli anni: Valeria Valente, Massimo Paolucci, Graziella Pagano. Accanto a loro i vari Manfredi, Impegno, Marciano: una generazione che non ha sostituito la vecchia, e che di certo le persone oggi faticano (non poco, purtroppo anche per loro) a vedere come “il nuovo”. Nonostante l’età e i tempi.


A ben vedere oggi le primarie non le vogliono coloro che attendono una candidatura blindata decisa altrove, in una sorta di rendita di posizione. Non la vuole “la maggioranza”, che con le primarie rischia di vedere messa in discussione una certa leadership. Non se le possono permettere coloro che aspirano a ruoli da assessore e che probabilmente non avrebbero preferenze sufficienti nemmeno per diventare consigliere comunale. La parola d’ordine per costoro è “cercare un’intesa, ascoltare, riflettere, trovare soluzioni unitarie…” che si traducono nell’accordarsi oggi per il ruolo di domani.
Quello che emerge è un partito che parla nelle sue stanze, tra persone che ricordano un potere di un’altra era geologica. Si risponde con il citare Renzi, il cambiamento, la svolta, le riforme. Ma quando vai nel merito di un progetto per il territorio, e poni il tema di chi dovrebbero essere gli assessori, su quale programma e per fare che cosa, emerge tutto il vuoto di non avere una visione politica di insieme. Tipico di chi – non più abituato ad essere opposizione – ha perso anche questi cinque anni per ripensare autocriticamente se stesso e formulare una proposta politica credibile e veramente alternativa. Tempo perso in inutili rancori, spesso personali, in personalismi, caccia alla rendita di posizione ed all’auto riciclaggio, e qualche volta a leccarsi le ferite.
Ad oggi il pd non ha un candidato e non ha un percorso chiaro per individuarlo, e ancora una volta si cerca la strada di una scelta calata dall’alto, ennesima pietra lapidaria su una classe dirigente sempiterna.


De Magistris ha un suo zoccolo duro non inferiore al 20-25%. Il Movimento 5 Stelle ha un suo bacino abbastanza solido non inferiore al 20-25%. Il centro destra unito ha il suo storico, consueto 35-37%. Ciò che resta è il Pd. Meno qualche punto percentuale ad una sinistra con cui non si vuole né può alleare. E meno le sempre presenti liste civiche, candidati di opportunismo e opportunità, varie ed eventuali.


Le primarie, vere, aperte alla società civile, con una classe dirigente che per una volta con senso di responsabilità facesse un sacrosanto passo indietro, alla ricerca di qualcosa di diverso, sarebbero la via per trovare non solo un’alternativa credibile a De Magistris ma soprattutto per riprendere un dialogo tra politica e città che si è perso da troppo tempo. Ma il vero avversario a tutto questo è proprio la stessa classe dirigente del pd, nel suo insieme. Se ne facessero una ragione.

BLONDIEFULL FOR D-ART

Fino a qualque tempo fa il vinyl aveva una brutta reputazione, nel senso che nella moda era considerato un materiale poco chic.
Sono contenta di poter dire che le cose sono cambiate, ed il vinile è diventato finalmente un trend. Io lo adoro.
Oggi si possono trovare accessori e abbigliamento in vinile: pantaloni, gonne, giacche, cappotti, scarpe, stivali, borse, e anche cappelli.

Un total look in vinile è eccessivo, ma combinando i giusti pezzi, darà quel tocco in più al tuo outfit.

Io per esempio ho optato per questo pantalone (non tanto lucido) a vita alta.
E’ proprio il pantalone che rende il look meno serio di quello che sarebbe stato con un pantalone nero normale, con questo accostamento è sempre elegante, ma chic.

Probabilmente molti di voi penseranno che il vinile non sia così semplice da portare. Io non vi consiglio certo di imitare le grandi pop star, tipo Lady Gaga o Nicky Minaj, che nei loro video appaiono super coperte da vinile…loro possono permettersi tutto proprio perché sono delle pop-star!
Apparire è bello, sì, ma non nel modo sbagliato.

Cerchiamo piuttosto di combinarlo con dei pezzi più classici: una blusa, una t-shirt con una giacca o anche un bel maglione.
E vedrete che il vostro unico pezzo in vinile si noterà (anche se solo un accessorio) e farà diventare il vostro look più originale.
Potete combinarlo all’ infinito senza stancarvi. Io rimango una fan del vinile!

E voi siete pronti a provarlo?

Love B

ENGLISH VERSION

 

Until some time ago vinyl had a pretty bad rap.It wasn’t considered fashionable chic;)

But I am happy  that things have turned around and vinyl has become a huge trend and I love it.

You can find all sorts of vinyl clothing. You name it, it is out there: pants, skirts, coats, jackets, boots, shoes, bags and even hats.

Of course to put a whole vinyl look together would be a bit much but combined in the right way I think it will give that extra flavor to your outfit.

 

I for example opted for this highwaisted comfortable (not so shiny) vinyl pants.

And I think the pants is what makes this whole look a bit less serious then for example it would be with normal black pants. But still remaining classy and chic.

 

Now most of you think it is hard to wear but it really isn’t. Of course you need to like it to wear it but  it is important how to combine it without going in the wrong direction.

I wouldn’t suggest you’d try and imitate pop stars like for example Lada Gaga or Nicky Minaj in their videos ‘cause… well they are pop stars and can get away with anything.

Now you want to stand out but obviously not in the wrong way.

 

Try to combine it with more classic pieces if you will, a blouse, a T-shirt with a jacket or even a nice big sweater.

And you will see that your one vinyl piece (even if it would be only an accessory) will stand out and actually make your look chic.

It can be combined endlessly and it will not tire.. I am fan.

Are you willing to give it a try?

Love B

 

Cape/Mantle @ HENRY COTTONS

Blouse @ HENRY COTTONS

Pants @ SUOLI

Shoes @ CESARE PACIOTTI

Bag @ SERAPIAN

Glasses @ RAYBAN


PH BY HENRIK HANSSON    WWW.HSZPRODUCTIONS.COM


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Fashion Trend Autunno/Inverno 2015: Venere in pelliccia

La stagione fredda è ormai alle porte. Quello che si preannuncia come il più freddo inverno nella storia è facilmente gestibile se si indossano i capi giusti.

Le passerelle Autunno/Inverno 2015-2016 parlano chiaro: largo alle pellicce, che siano ecologiche o meno. La tendenza protagonista delle sfilate A/I vede infatti la pelliccia protagonista assoluta.

Tanti sono i brand che hanno portato in passerella il nuovo trend, dai modelli declinati in colori fluo, protagonisti delle collezioni di Moschino, Philosophy by Lorenzo Serafini, fino alle proporzioni oversize viste in passerella da Louis Vuitton. Fur coat da indossare praticamente su tutto, dai maxi abiti ai jeans con cuissardes o stivali fino alle minigonne o agli abiti da gran soirée. La pelliccia diventa capo passepartout, che aggiunge un tocco sofisticato a qualsiasi mise.

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Carolyn Murphy in pelliccia Gucci, foto di Patrick Demarchelier per Tatler Russia, settembre 2014
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Natasha Poly indossa una pelliccia colorata
Philosophy by Lorenzo Serafini
Philosophy by Lorenzo Serafini
Moschino
Moschino

Louis Vuitton
Louis Vuitton


Eleganza classica ed evergreen in passerella da Giorgio Armani, che propone colori inediti, come il blu elettrico, per le sue pellicce lavorate. Un tocco retrò e colori neutri visti invece da Blugirl, che propone anche pellicce multicolor, in linea con le tendenze attuali. Da Fendi sfila l’opulenza tipica della maison, da sempre amante dei fur coats. Il mitico brand porta in passerella anche dei dettagli in pelliccia, come negli originalissimi stivaletti, quasi dei calzari, ricoperti interamente di pelo. E se gli animalisti avranno certamente da obiettare, tante sono le varianti ecologiche: perché si può essere altrettanto eleganti anche nel pieno rispetto dei nostri amici animali.

Il brand inglese Missguided (https://www.missguided.co.uk) propone per l’Autunno/Inverno 2015-2016 sfiziose versioni in pelliccia sintetica in nuance delicate e assolutamente imperdibili, come il rosa nude. Warehouse ( http://www.warehouse.co.uk) propone invece colori come il grigio, su un modello a pelo lungo, rigorosamente in pelliccia sintetica. Perfetto su tutto, dai jeans ai capi più femminili, faux fur è sinonimo di must have incontrastato per la stagione invernale.

Blugirl
Blugirl
Fendi
Fendi
Giorgio Armani
Giorgio Armani
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Kate Upton per Vogue Italia, novembre 2012
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Eniko Mihalik fotografata da Terry Richardson per Harper’s Bazaar US, novembre 2011
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Charme e posa da diva per Carolyn Murphy, ritratta da Patrick Demarchelier per Tatler

Come una diva, in pelliccia rosa baby: Carolyn Murphy per Tatler Russia, settembre 2014


Colori glossy e proporzioni oversize caratterizzano il brand Tzarina Furs (http://www.houseoftzarina.com/): il lusso si mixa ad un amore incontrastato per lo stile e le tendenze: vastissima la scelta, dai modelli classici ai faux fur coats coloratissimi, declinati in sfiziose tinte pastello, assolutamente imperdibili.

La pelliccia, capo principe del guardaroba femminile, ha visto negli ultimi anni una nuova vita, grazie a modelli che l’hanno resa un capo adatto alle più svariate occasioni. Per uno styling perfetto, si può seguire l’esempio di un’autentica icona di stile, quale è Kate Moss, e abbinare la pelliccia (meglio se ecologica!) ad un semplice maxi dress in lana e a stivali. Un capo che dona subito una nuova allure, sulle orme delle dive del passato.

Tzarina Fur
Colori pastello e charme nei modelli proposti da Tzarina Furs
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Un modello Warehouse
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Rosa nude per la pelliccia sintetica di Missguided
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Kate Moss
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Nancy Berg fotografata da Erwin Blumenfeld per Vogue, novembre 1954

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Must have incontrastato di stagione, la pelliccia dona a tutte un tocco di classe



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L’ingannevole mondo dei Social Network debutta a teatro

I Social Network sono ormai entrati così a fondo nelle vite di tutti che quasi non si fa più caso: non ci si sofferma più ad ammirare un tramonto perché si è troppo impegnati a fotografarlo, ed ancora si può conoscere a fondo un illustre sconosciuto, dai connotati fisici e carattere ai gusti di ogni specie, fino ai dettagli più intimi della vita privata e lavorativa, solo seguendone gli aggiornamenti di status.


Il carattere iperbolico e narcisistico dei social crea spesso un senso di inadeguatezza: ciò che è esposto è una realtà enfatizzata, camuffata, avvolta dall’ingannevole patina dei filtri di Instagram e il risultato è sentirsi esclusi da tutto ciò, non provando reale immedesimazione e condivisione.

Eppure è sempre più frequente non distinguere quella linea sottile, quasi impercettibile, che però separa nettamente il mondo social dalla realtà tangibile.


L’ingannevole mondo dei Social Network debutta a teatro


A moltissimi è capitato, almeno una volta, di provare un sentimento di esclusione, accedendo a Facebook al termine di una giornata storta e, di fronte al tripudio di allegri selfie, ritrovarsi a pensare: ‘qui sono tutti felici tranne me’! E ci si vorrebbe omologare a quello stato di felicità apparente, a quella perfezione che dal di fuori sembra non appartenerci fino in fondo. Di questo sentito senso di esclusione ne discutono già le più influenti università del mondo.


Ma è un sentimento che accomuna un po’ tutti, dando vita a molte reazioni, a volte anche di tipo artistico: sensazione condivisa quella da cui è scaturita anche una riflessione teatrale nella nuova commedia scritta, diretta e interpretata da Maurizio Canforini, che in seguito all’entusiasmo del pubblico, già dopo il primo ciclo di repliche, e anche per la nuova stagione, torna in scena al teatro L’Aura, dal 29 ottobre all’8 novembre.


“Tutti felici, tranne me…”, è infatti la prima commedia teatrale dedicata all’ingannevole mondo dei Social Network, si presenta come indagine dai toni leggeri ma anche riflessivi, fra le relazioni sentimentali 2.0 in cui ‘realtà’ e ‘mondo virtuale’ si sovrappongono senza però mai coincidere.

Salviamo i nostri poeti dalle nostre parole

È da qualche tempo che agli annunci di ritiro di questo o quel cantautore spuntano commenti decisamente discutibili. È certamente uno degli effetti dell’allargamento della capacità di comunicazione della nostra società. È un fatto normale – che appartiene alla vita dell’uomo – quello di “smettere” un certo mestiere o comunque, con il tempo, cambiarne le forme ed i modi con cui lo si esercita. È stato così per i Modugno, per Claudio Villa, per Mina, per Battisti, solo per citare alcuni grandi. Eppure, da loro avremmo dovuto imparare una lezione importante. L’uomo cambia le forme con cui si esprime nel tempo, ma il poeta è malato della sua sensibilità, e il massimo che gli è concesso è cambiare la forma, e cambiare i tempi, ma non certamente di smettere. Ma nell’era del tutticommentanosututto e in cui si confonde la libertà di espressione con il diritto di esprimersi necessariamente su tutto, anche su quello di cui non si sa, accade sempre più spesso che non ci si soffermi a riflettere. Ed ancora più spesso accade che per “emergere fuori dal coro” e per qualche minuto di apparente celebrità ci si trasformi in carnefici, e si scordi molto delle persone di cui si parla e della cui vita si commenta.


È bastata una querela di Vasco Rossi ad un sito di “satira” per scatenare l’inferno contro Vasco – e non una sola riga quando i gestori del sito hanno riconosciuto che Vasco aveva ragione, hanno chiesto scusa, hanno ammesso le proprie responsabilità, e Vasco Rossi ha ritirato semplicemente la querela – per altro querela giunta dopo che per tre volte il suo ufficio stampa aveva chiesto la rettifica, senza nemmeno ricevere risposta. Forse il sito voleva solo un po’ di pubblicità… non pensate? Trovo scandalosa, sempre di recente, la polemica tra i fan di Vasco e quelli di Luciano Ligabue. Come se ci potessero essere fazioni tra contenuti, per altro simili, a guardare le parole. Eppure è storia antica, i fan di questo o quell’autore teatrale, di questa o quella commedia o tragedia, dimentichi che “dietro” non vi era il teatro, ma la “visione politica” rappresentata – e spesso quelle faziosità erano “pagate”. Le società dovrebbero tutelare ed avere a cuore, e difendere e conservare come doni preziosi unici e irripetibili i propri poeti. Lo dovrebbero fare per quella straordinaria capacità di macinare la realtà e restituircela senza digerirla e giustificarla con occhi nuovi e diversi.


Per mostrarci chi e cosa siamo, e chi e cosa siamo diventati. Da sempre certe critiche – a Guccini, a De André, a Pasolini, a De Filippo – mi sono sembrate il frutto autentico di quella malattia che tutti abbiamo – la cecità nel non vedere quello che vedono loro. E per non metterci in discussione, preferiamo sparargli addosso. Da sempre. E forse per sempre. Nelle tribù africane o in quelle del deserto australiano – quelle che consideriamo incivili – gli “anziani”, i poeti, i cantastorie, gli artisti, i pittori, i “maestri”, non accumulano ricchezze ma vengono mantenuti dalla comunità – come patrimonio sociale e irrinunciabile. Chi sono i “non civilizzati”? …vorrei essere anche io così non civilizzato! Per tornare a Vasco Rossi, vi dirò come la penso. Penso sia una “bella persona” nonostante tutto. È uno che è sempre stato pronto e disponibile a regalare una sua canzone a questo o quell’artista “pop” che affrontava un “momento di stanca” e che è “tornato in auge” grazie anche al fatto di poter dire “è una canzone scritta da Vasco”. È uno che ci ha raccontato la vita, e non avrebbe potuto farlo in una certa maniera senza averla vissuta in un certo modo. Ma con tanti eccessi, il signor Vasco Rossi non si è mai nascosto, ha sempre ammesso, ha sempre riconosciuto, sempre dichiarato, sempre pagato tutto di persona senza facili scorciatoie e scappatoie, ci ha messo la faccia e se ne è assunto le responsabilità. Ed è uno che avendo pagato sempre e tutto, nonostante tutto, non ha mai preteso di essere o si è spacciato per “modello di vita”, non ha mai fatto la morale a nessuno, non si è mai candidato in politica, non ha mai fatto la predica moralista, a differenza i tanti altri che con troppa faciltà (almeno quanta scarsa memoria) gli sparano addosso.


Ai fan di Luciano Ligabue dico solo una cosa: senza Vasco, non esisterebbe la musica di Luciano Ligabue. Qualche mese fa ha annunciato il suo ritiro dai concerti il maestro Fossati, ultimo grande della scuola genovese. Oggi lo dice – come pensiero ed intenzione – quella roccia granitica che è Francesco Guccini. Dire “sono stanco” – oggi – è un atto di poesia ed umanità – rispetto ai sempiterni belli che stanno in tivvù a dirci cosa fare e quando farla – ad esprimere opinioni tuttologhe su tutto e tutti – senza ritirarsi mai… Pretendere di non fare la “rockstar a vita” è un atto di resistenza umana – e di questo dovremmo dire un altro grazie a un poeta – che si ritira ma non smetterà di scrivere sino a che morte non lo separi da questo mondo… (un pò destino, un pò talento, un pò condanna).


Invece di leggere affermazioni sul quanto hanno guadagnato per “potersi permettere il lusso di ritirarsi” (il che evidenzia solo una insana invidia) vorrei leggere qualcosa di meno di sdolcinati e mielosi elogi funebri in vita e mi basterebbe un semplice grazie. Grazie per quello che continueranno (e lo sappiamo tutti) a scrivere e raccontarci. Grazie per le parole riuscite, per i versi perfetti, e grazie per quelli ancora sconnessi, ma che aprono la strada e lasciano aperto lo spiraglio per il cimento di nuovi “poeti”. Grazie per le parole raccontate, per l’energia trasmessa, per le storie rinarrate, per i ricordi che ciascuno di noi ha, nella sua propria individuale vita, legati ineluttabilmente a questa o quella canzone, a quella strofa, a quel verso. Grazie per gli occhi sul nostro mondo, e per avercelo restituito tradotto con nuova linfa. Semplicemente… …il resto sono e restano chiacchiere da osteria. Vorrei chiudere con due video – il primo di Pasolini, sugli intellettuali il secondo, è il ricordo di Pasolini per voce di Eduardo De Filippo.

Mario Cresci contrappone fotografia e realtà nella mostra “In Bilico nel Tempo”

Nicoletta Rusconi Art Projects, in collaborazione con la Casa d’Aste francese Artcurial, presenta In Bilico nel Tempo, la mostra di diverse serie di opere composite di Mario Cresci che si terrà fino al 31 ottobre presso la sede di Artcurial a Milano (Palazzo Crespi, corso Venezia, 22) e che sarà accompagnata dal testo critico di Marco Tagliafierro. Cresci, autore eclettico che spazia tra disegno, fotografia, video e installazioni, indaga il linguaggio visivo tramite una contrapposizione tra la fotografia e la verità del reale.

 

Autoritratto (foto di Mario Cresci)
Autoritratto (foto di Mario Cresci)

 

In mostra ci saranno diversi lavori, il cui filo conduttore che le pone in relazione diretta è soprattutto un “tempo altro”, il tempo dell’arte, per citare lo stesso Mario Cresci: un tempo che le riguarda trasversalmente tutte. Soggetti/oggetti dei lavori esposti sono opere d’arte storiche, sia dipinti, sia fotografie, sia architetture di altri autori, appartenenti a epoche diverse, qui poste da Cresci in una condizione paritetica, di equivalenza, svelando così l’incipit del progetto espositivo.

 

Mario Cresci, Equivalents (2014) installazione, Pinacoteca di Brera, 2014 11 stampe True Fine Art Giclée su carta Hahnemühle baryta,100% cotone
Mario Cresci, Equivalents (2014)
installazione, Pinacoteca di Brera, 2014
11 stampe True Fine Art Giclée su carta Hahnemühle baryta,100% cotone

 

Varcata la soglia, il visitatore si imbatte in Equivalents (2014): sei metri di sguardi, ovvero undici fotografie di undici ritratti, dipinti da altrettanti maestri. Ritratti che Cresci ha portato a una dimensione omogenea, ponendoli sullo stesso piano, virandoli tutti sui toni del blu e allineandoli sulle lettere, una per fotografia, che insieme compongono la scritta EQUIVALENTS. Si avverte in quest’opera una riflessione dell’autore sulla storia della fotografia, in particolare sul lavoro di Alfred Stieglitz.

 

Mario Cresci, dalla serie “I rivolti”, Contessa di Castiglione #2 (2013) stampa su carta Hahnemühle 100% cotone piegata a mano
Mario Cresci, dalla serie “I rivolti”, Contessa di Castiglione #2 (2013)
stampa su carta Hahnemühle 100% cotone piegata a mano

 

Procedendo da destra e da sinistra, è la volta dell’opera I Rivolti (2013), due stampe su carta cotone, piegate come arditi, azzardati origami, appartenenti a una serie di fotografie, in questo caso di un celebre scatto di Pierre-Louise Pierson ritraente la Contessa di Castiglione. Scrive Cresci: “Il foglio di carta assume valenza materica, che non tradisce la fotografia ma certamente non appartiene ai suoi canoni: diventa volume, oggetto”. Il suo è un percorso visivo fatto di fotografie che hanno come comun denominatore l’intensità dello sguardo, che attira e magnetizza quello dello spettatore: un invito quindi a riflettere sulla magia dell’incrocio di sguardi.

 

Mario Cresci, dalla serie “Luce ridisegnata” (2012) stampa True Fine Art Giclée su carta Hahnemühle baryta,100% cotone
Mario Cresci, dalla serie “Luce ridisegnata” (2012)
stampa True Fine Art Giclée su carta Hahnemühle baryta,100% cotone

 

La riflessione sulla pratica del vedere, guardare e osservare si evidenzia in un’opera della serie Luce Ridisegnata (2012) dedicata al gioco delle geometrie di cornici quadrate, ovali e rotonde che interagiscono con la luce, inseguendo un nitido desiderio di astrazione. Afferma Mario Cresci: “La luce emerge dal vincolo reale della cornice, che appare così ridisegnata da una incomprimibile luminosità interna”.

 

Mario Cresci, A rovescio 02 (2010) stampa True Fine Art Giclée su carta Hahnemühle baryta,100% cotone
Mario Cresci, A rovescio 02 (2010)
stampa True Fine Art Giclée su carta Hahnemühle baryta,100% cotone

 

Su entrambi i lati dell’ingresso dello spazio espositivo sono disposti quattro lavori dal titolo Luce, della serie Dentro le Cose (2011), pensata per Palazzo dei Pio, a Carpi. Una serie che si focalizza sulle ampie finestre del palazzo emiliano, finestre schermate dalla luce proveniente dall’esterno tramite teli bianchi. La luce pare comparire per affioramento dalle tele, mosse come vessilli dall’artista per dinamizzare la staticità di una visione che senza quel gesto sarebbe stata condannata a un’inutile fissità. Una piccola stanza laterale accoglie, presentandola da un punto di vista inedito, la serie A Rovescio (2010) concernente il  retro di tele lacerate esposte su cavalletti. Un’attenzione già altre volte riservata dall’autore al tema del restauro delle opere.

 

Mario Cresci, D’après Parmigianino,”Autoritratto allo specchio convesso”,1524, (2015) stampa True Fine Art Giclée su carta Hahnemühle baryta, 100% cotone
Mario Cresci, D’après Parmigianino,”Autoritratto allo specchio convesso”,1524, (2015)
stampa True Fine Art Giclée su carta Hahnemühle baryta, 100% cotone

 

A chiudere il percorso espositivo ci sarà un’opera della serie D’Aprés, ispirata al celebre autoritratto del 1524 del Parmigianino, che ritrae il pittore manierista riflesso da uno specchio convesso che ne deforma l’immagine. Cresci prende l’autoritratto e vi sovrapppone in trasparenza la fotografia di una parte del suo studio riflessa da uno specchio convesso. In un’ulteriore sovrapposizione, Cresci aggiunge figure geometriche sempre in trasparenza: un immaginario contenuto di segni, forme e colori che lo lega intimamente a questo capolavoro.

 

Mostra aperta al pubblico da lunedì a venerdì dalle ore 10.00 alle ore 18.00.

Lo Sposalizio della Vergine di Rosso Fiorentino

Strano linguaggio, quello di Giovan Battista di Jacopo, detto il Rosso Fiorentino: proprio nel cuore di quel rinascimento, che cercava proporzione e armonia anche nelle scene tragiche (vedi la Pietà di Michelangelo in San Pietro), lui cerca tensione e bizzarria anche nelle scene idilliache. In tal modo il Rosso contribuisce all’evoluzione dello stile classico trasformandolo in manierismo, che da lì a poco darà origine al barocco.


Rosso Fiorentino era nato a Firenze nel 1495. Fin dalle prime opere aveva evidenziato una strana inquietudine, un senso di anarchia nei confronti delle regole o delle convenzioni artistiche, un violento espressionismo. Le sue figure sono «personaggi scheletrici dal volto paonazzo, con espressione vaga o diabolica», come dice un grande storico dell’arte, Francesco Negri Arnoldi.


È evidente che, date simili premesse, Rosso non incontrò molto successo in città. Altri lavori potette eseguire a Piombino e soprattutto a Volterra. Nel 1523, tuttavia, ottenne un incarico di un certo prestigio: gli fu commissionato un quadro per una cappella nella basilica fiorentina di San Lorenzo, la chiesa frequentata dai Medici, che, appunto, ne ospita le tombe. Un ricco mercante della città del giglio, Carlo Ginori, volle decorare la sua cappella di famiglia con la raffigurazione del matrimonio tra la Madonna e San Giuseppe. Rosso Fiorentino si mise all’opera e realizzò un capolavoro di straordinaria intensità.

Lo Sposalizio della Vergine è ancora là, sull’altare della cappella. Perciò può essere ammirato nel suo contesto originario e non in un luogo “neutro” quale un museo.


La scena presenta i due sposi, Maria e Giuseppe, nell’atto dello scambio dell’anello nuziale in presenza di un barbuto sacerdote solennemente vestito. In primo piano appaiono due donne sedute sui gradini, ambedue rivolte verso la coppia; la donna a destra, più giovane, regge un libro aperto: potrebbero essere il simbolo, rispettivamente, della Sibilla e della Profezia, cioè la rivelazione donata da Dio al mondo pagano e al popolo ebraico, come un decennio prima aveva mirabilmente proclamato Michelangelo nella Cappella Sistina. Nello sposalizio di Maria e Giuseppe si realizza, dunque, un disegno che Dio aveva annunziato come una promessa all’umanità.


Rosso Fiorentino Lo sposalizio della vergine


I due sposi, a loro volta, sono circondati da un nugolo di personaggi, parenti e amici invitati alle nozze: «fantasiosa ricchezza e varietà dei motivi, de tipi, i colori battuti dalla luce fredda, il clima arcano e irreale del suo mondo astratto», commenta ancora il Negri Arnoldi.

Un particolare colpisce l’attenzione dell’osservatore: la figura di San Giuseppe. Noi siamo abituati a considerare lo sposo di Maria come un vecchio e umile falegname ebreo; qui, invece, appare come un giovane aristocratico fiorentino! Come spiegare questa differenza rispetto a tutta la tradizione iconografica?


A questo punto occorre prendere in considerazione un ultimo personaggio, il frate che appare sulla destra. Si tratta di San Vincenzo Ferrer, domenicano spagnolo, che, con le dita della mano, indica in quale modo dobbiamo guardare quella coppia.

Nel Cinquecento si riteneva che Vincenzo Ferrer avesse predicato su San Giuseppe, sostenendo che il rappresentarlo vecchio sarebbe stato non solo antistorico ma perfino offensivo nei confronti del santo: Giuseppe, quando sposò Maria, era giovane!

Perché, allora, immaginarlo anziano? La sua tarda età serviva a sottolineare la perpetua verginità di Maria (“la sempre vergine Maria”, proclama la Chiesa). Giuseppe, vecchio e addirittura decrepito, sarebbe stato per lei non uno sposo e un compagno di vita, ma quasi un nonno, la cui impotenza senile avrebbe garantito la verginità della sposa. In questa ottica la scelta di castità matrimoniale, compiuta anche da Giuseppe, non sarebbe frutto della sua virtù e della sua libera decisione, ma della ormai inevitabile decadenza della natura.


È contro questa mentalità che San Vincenzo avrebbe combattuto. Forse non è vero; ma certamente alcuni predicatori la pensavano così. E questa mentalità confluisce nel nostro dipinto.

Rosso Fiorentino morirà nel 1540 a Fontainebleau in Francia, dove era stato chiamato alla corte di Francesco I e dove avrebbe contribuito a diffondere l’arte italiana in quella nazione che, proprio in quegli anni, si avviava a uscire dal suo medio evo.

N.MERAVIGLI COLLEZIONE PRIMAVERA/ESTATE 2016

N.MERAVIGLI PRIMAVERA/ESTATE 2016

In occasione della settimana della moda milanese, la giovane designer Ana Almeida e Pedro Melo, suo compagno, hanno presentato il loro primo progetto creativo, nella splendida cornice di Palazzo Turati, in via Meravigli.
Qualità e attenzione per i dettagli sono l’anima di questo giovane brand che vuole identificarsi in uno stile sofisticato che rispecchi l’immagine di una donna moderna e con un forte spirito romantico. Una filosofia creativa che trae ispirazione dall’haute couture, applicata al design di una collezione prét-a-porter che unisce modernità e tradizione sartoriale, ricercatezza e qualità.

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Natural Wonder è la parola chiave. L’ispirazione è la bellezza naturale.
Profili zoomorfi si trasformano in patterns tridimensionali su trasparenze leggere, gli abiti dal taglio sartoriale, si ispirano ad una donna cosmopolita, amante dell’eleganza in ogni occasione.
I capi si colorano di stampe finemente accennate, che giocano con trasparenze e con colori che ricordano le tonalità naturali del sabbia e del corallo, del blu navy e del bianco.

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I pantaloni delineano silhouette leggere, disegnate su asimmetrie impercettibili ma essenziali, sintomo del sottile legame tra tradizione sartoriale e innovazione.
Le giacche in seta, materiale che predomina la collezione, si arricchiscono di fodere in nuance e zip metallizzate a contrasto, gli abiti cadono leggeri, destrutturati da plissé in perfetto accordo con l’anima sporty-chic del brand.

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È proprio il plissé l’elemento principe, dona al capo leggerezza e tridimensionalità, il ricamo si pone come struttura portante, accentuando i volumi. Un design innovativo ma permanentemente legato alla tradizione.

 

SARTORIAL TOUCH 2.0 – Una serata dedicata al Gentleman Contemporaneo

SARTORIAL TOUCH 2.0
Una serata dedicata al Gentleman Contemporaneo


IL 21 ottobre 2015, in occasione del Festival del Cinema, nella lounge del Regina Hotel Baglioni di Via Veneto, una serata ad alto tasso di eleganza per celebrare il gentleman contemporaneo e la sua estetica.

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Panetta Sartorial Touch 2.0


Eternalshoes.it, il primo sito online a proporre servizi di riparazione di scarpe di lusso , insieme alla storica sartoria Panetta Tailor, atelier del lusso maschile per antonomasia, Agalma Medusae, Kinloch e altri brand legati al mondo sartoriale e Made in Italy, hanno presentato le proprie realtà all’interno della splendida cornice dell’Hotel.

Manuel Martinelli, Ceo e founder di Eternalshoes, ha colto l’occasione romana per presentare la nuova linea di calzature artigianali firmate Eternalshoes, in vendita nel sito www.eternalshoes.it, e da settembre disponibili anche presso la sartoria Panetta Tailor e l’e-store dell’atelier sartoriale.

Panetta Sartorial Touch 2.0
Panetta Sartorial Touch 2.0


Ambasciatore della serata l’attore di fiction Ernesto D’Argenio che è arrivato con auto d’epoca indossando uno spezzato doppiopetto verde, stringate Eternalshoes e accessori Kinloch e Agalma Medusae (gemelli in pietra lavica). E ancora il blogger Giorgio Giangiulio, fino all’attrice Nathalie Rapti Gomez, solo per citare alcuni nomi tra le personalità e vip presenti all’evento.

Panetta Sartorial Touch 2.0
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