Henau festeggia i suoi 15 anni di occhiali!

Il 2015 è un anno di festeggiamenti per HENAU!


Per commemorare i suoi 15 anni, HENAU lancia una collezione ispirata all’arte grafica, caratterizzata da un’estrema attenzione per la qualità del prodotto e per il design, sempre innovativo, originale, atemporale e al tempo stesso funzionale. Si sviluppano così due linee in parallelo, una “modern” e una più “classic”, entrambe frutto di un sapiente mix tra avanguardia e tradizione.

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Il lusso “Made in Italy” firmato Serà fine silk

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Made in Italy for you – la collezione in edizione limitata  “this is not a tie”


Serà fine silk, antiche sete da cravatteria danno vita a preziosi nuovi accessori: sciarpe e pochette.
Serà fine silk, brand emergente di accessori di lusso da uomo – tra cui sciarpe, pochette e cravatte – realizzati a mano in seta, appositamente prodotti in un piccolo laboratorio artigiano italiano incentra il proprio business sulla migliore seta italiana, quella dell’area di Como.

Dalla passione viscerale della creatrice di Serà fine silk, Francesca Serafin, nascono delle collezioni dedicate all’italianità e al desiderio di far vivere o rivivere una piccola esperienza italiana ogni volta che si indossa un suo accessorio.
Ogni prodotto è realizzato in Italia in numero limitato, con antiche sete rifinite rigorosamente a mano e caratterizzato per materiali di alta qualità, stampe dai colori accesi e dai motivi raffinati.

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La prima collezione era dedicata ai vini italiani, filone che viene ripreso anche per la fw15 con due nuovi modelli ispirati ad abbinamenti cromatici e olfatti connessi a vini italiani.
Per la FW15 Serà fine silk ha studiato una collezione in edizione limitata di sciarpe e pochette realizzate con tessuti vintage da cravatteria chiamata appunto “this is not a tie”.

Il concetto è modulato sulla creatività degli italiani e sulla loro abilità di reinventare personalizzando, e così un’antica stoffa da cravatta può diventare una sofisticata sciarpa o una pochette. La particolarità di questa collezione non è data solamente dall’idea sottostante e dalla pregiata seta di Como utilizzata, ma anche dalla versatilità.
Ogni sciarpa è infatti costituita da 4 pannelli differenti, associati in modo da creare un lato più estroso – realizzato con fantasie più grandi e colorate – ed un altro più sobrio – caratterizzato da fantasie piccole e classiche – consentendo alla sciarpa di poter essere utilizzata in ogni occasione e di poter assumere colorazioni diverse con la complicità del vento. I loro nomi sono ispirati ad alberi italiani, ai loro colori e profumi per evocare emozioni legate alla natura.

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Serà fine silk Mirto


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Serà fine silk Melograno


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Serà fine silk Sughera


Le pochette vengono poi declinate nelle fantasie delle sciarpe con gli orli realizzati rigorosamente a mano, così come le cravatte, dalla lavorazione tricot, presentano dettagli in seta stampata.
L’etichetta recita “Made in Italy for you”, poiché la cura per i dettagli ed il desiderio di unicità emerge non solo dalla scelta di tessuti ricercati e dalle finiture a mano, ma anche dalla presenza di una piccola guida disegnata a mano che illustra 6 diverse piegature possibili, accuratamente riposte in una scatola blu fatta a mano, chiusa da un nastro di velluto e da un sigillo a cera lacca.
Le collezioni, nonostante abbiano un marcato taglio maschile, strizzano l’occhio anche a lei. Le pochette, infatti, possono diventare accessori per capelli o raffinati bracciali, così come le sciarpe possono essere utilizzate da una donna alla ricerca di un abbinamento inusuale o da una ragazza che decida di prenderla dall’armadio del fidanzato.

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Raf Simons lascia Dior

La notizia è arrivata come un fulmine a ciel sereno: Raf Simons lascia la direzione creativa di Christian Dior. È Sidney Toledano, CEO della celebre maison francese, a darne conferma in un comunicato stampa diffuso questo pomeriggio. Lo stilista belga avrebbe motivato la sua scelta affermando di volere concentrarsi sulla sua linea e sulle sue passioni.

Direttore creativo di Dior dallo scorso 2012, Simons subentrò a John Galliano, licenziato per le sue affermazioni antisemite. Un fatturato in continua crescita per la storica maison, grazie anche all’operato di Simons.

Si chiude quindi con la collezione Primavera/Estate 2016, appena presentata a Parigi, la parentesi Raf Simons per Christian Dior. Adesso ci si interroga su chi prenderà il suo posto: tra i nomi più papabili sembra ci siano Riccardo Tisci, direttore creativo di Givenchy, e Phoebe Philo, attualmente alla guida di Céline.

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Lee Radziwill: vita di un’icona di stile

A volte anche chi ha vissuto di luce riflessa può iniziare a brillare di luce propria. È il caso di Lee Radziwill: la sorella minore dell’indimenticabile Jackie Kennedy è stata protagonista indiscussa del jet set internazionale a cavallo tra gli anni Sessanta ed Ottanta.

Socialite, PR di successo, interior designer e attrice, una personalità poliedrica e uno stile invidiabile, Caroline Lee Bouvier nasce a Southampton, New York, il 3 marzo del 1933. Le sorelle Bouvier trascorrono un’infanzia agiata, tra party esclusivi, lezioni di tennis e corse a cavallo.

Le chiamano “the whispering sisters”, per quel loro modo -un po’ infantile e complice- di appartarsi in un angolo ad ogni festa e chiacchierare tra loro. Ancora ignare del proprio destino, che porterà Jackie Lennedy Onassis ad entrare nel mito e Caroline Lee Bouvier a divenire principessa Radziwill nel 1959, le due appaiono inseparabili.

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Lee Radziwill con la figlia Tina in una stanza del loro appartamento londinese, con l’interior design curato da Renzo Mongiardino, 1966


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Lee Radziwill in uno scatto di Mark Shaw, Londra, 1962


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Lee Radziwill in un abito Nina Ricci, foto di Mark Shaw, Parigi 1962


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Lee Radziwill in Lanvin, foto di Mark Shaw, Londra, 1962


Il soprannome Lee viene dal cognome da nubile della loro madre, Janet Lee, che proveniva da una famiglia povera di immigrati irlandesi. Ma agli occhi dell’aristocrazia newyorchese le umili origini erano assolutamente da nascondere e pertanto le due sorelle non persero mai occasione per millantare discendenze aristocratiche. Il padre John Bouvier, broker di successo, soprannominato Black Jack per la sua carnagione perennemente abbronzata, amava trascorrere le sue notti tra alcol e scommesse. Fu così che il matrimonio dei genitori delle due sorelle Bouvier naufragò, fino al divorzio, arrivato nel giugno del 1940 e vissuto all’epoca come un’ombra infamante.

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Lee Radziwill in abito Christian Dior, foto di Mark Shaw, Londra, 1962


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Ancora in un abitino a trapezio Christian Dior


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Caroline Lee Bouvier è nata il 3 marzo 1933 a Southampton, New York


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La principessa Radziwill fotografata da Henry Clarke per Vogue, 1960


Jackie e Lee, cresciute in un ambiente iperprotetto, sono competitive, ambiziose ed amanti della bella vita. Entrambe aspirano ad avere amicizie influenti e a far parte dell’élite. La piccola Lee si sente meno amata rispetto alla sorella Jackie, più posata e riservata e considerata più bella esteticamente. Inoltre Jackie è più diligente a scuola e consegue ottimi risultati nello studio. Man mano nell’animo della sorella minore si fa strada un sentimento di gelosia forse mai dichiarata nei confronti di quella sorella così perfetta, sentimento che diverrà visibile anni dopo, come lo stesso Truman Capote dichiarerà apertamente. Lee al contempo viene descritta come una testa vuota arrogante e non particolarmente brillante negli studi. Appena ventenne la ragazza decide di convolare a nozze con Michael Temple Canfield. Il matrimonio viene celebrato nell’aprile 1953. Ma cinque mesi dopo Jackie le ruba ancora la scena, sposando John Fitzgerald Kennedy, bel senatore del Massachusetts nonché futuro Presidente degli Stati Uniti d’America. È l’inizio di una rivalità che durerà per tutta la vita.

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Caroline Lee Bouvier nel corso della sua vita è stata socialite, PR, interior designer ed attrice


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Uno scatto di Dennis Oulds, 1967


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Icona di stile dalla raffinata eleganza, la principessa Radziwill ha posato diverse volte per Vogue


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Germania, 1968


Il matrimonio di Lee si conclude con un divorzio, nel 1959, ma nello stesso anno la fanciulla sposa il principe Stanisław Albrecht Radziwiłł, più vecchio di lei di 19 anni. Inizia così un lungo momento di celebrità per Caroline Lee Bouvier. Nessuna è più acclamata di lei, nessun party può iniziare senza la sua presenza. La volgare definizione di arrampicatrice sociale a volte è solo questione di circostanze particolari che possono portare una donna ad interessarsi ad un certo tipo di uomo. Lee Radziwill certamente non avrebbe potuto accontentarsi di un uomo diverso: le amicizie influenti del marito fanno parte integrante della loro unione e ne costituiscono l’aspetto più eclatante. Ma Lee non si accontenta, il suo animo perennemente alla ricerca di qualcosa di più non riesce a farle vivere serenamente neanche quel matrimonio blasonato.

Icona di stile idolatrata, le viene chiesto da molti magazine di scrivere di moda, ma lei pretende cifre esorbitanti, mentre tenta senza grande successo la carriera di attrice. Intanto si profila all’orizzonte una nuova rivalità tra le due sorelle Bouvier: Jackie, ormai vedova del Presidente Kennedy, si appresta a sposare Aristotele Onassis, che sarà al centro di un inedito triangolo amoroso tra le due. Ben presto anche il secondo matrimonio di Lee naufraga, e nel 1974 arriva il divorzio dal principe Radziwill.

Celebrata da Vogue con foto patinate, la principessa vive tra viaggi in giro per il mondo ed amicizie famose, tra cui spiccano Rudolf Nureyev, Andy Warhol e Truman Capote. Indebitata fino al collo per i suoi vizi, in primis l’alcol, prova senza successo a sposare il magnate californiano degli hotel Newton Cope, ma un’ora prima della cerimonia gli amici di lui lo dissuadono dall’idea: sposare quella donna non sembra affatto una mossa intelligente. Lee si ritrova ancora una volta sola e con il bicchiere in mano. Nel 1988 sposa in terze nozze il produttore Herbert Ross, ma anche questo matrimonio culminerà in un divorzio.

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Jackie Kennedy e Lee Radziwill alla Casa Bianca, anni Sessanta


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Caroline Lee Bouvier ritratta da Andy Warhol, 1972


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Figura di spicco del jet set internazionale


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Lee Radziwill è stata inclusa nella Hall of Fame dell’International Best Dressed List


L’icona Lee Radziwill vive male, soffre di alcolismo ed è preda di demoni che neppure la vita patinata riesce a sconfiggere. Abituata a stare sotto i riflettori, nel jet set internazionale è il personaggio forse più discusso, mentre la sua bellezza fuori dai canoni vigenti affascina praticamente tutti, a partire da fotografi del calibro di Henry Clarke e Andy Warhol, suo grande amico.

Tante sono le testimonianze che la descrivono come una donna sostanzialmente arida e senza scrupoli, che seleziona gli eventuali partner solo in base allo status sociale e alla disponibilità economica. Di certo Lee Radziwill sotto i riflettori si è sempre trovata a proprio agio. Lo vediamo dalle foto in cui sorride gioiosa, tra lo sfarzo e l’opulenza di location da favola. La massima “less is more” certamente non sembrava appartenere alle sorelle Bouvier. Celebre la foto della principessa Radziwill con la figlia Tina nel suo appartamento londinese, arredato secondo il gusto ottomano dall’estro di Renzo Mongiardino. Confinata nella torre d’avorio dei suoi sorrisi perfetti e dei suoi abiti di lusso, la donna trascorre una vita spesso dura e paga sulla propria pelle il peso delle proprie scelte.

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Jackie e Lee a Londra, 1965


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Una giovane Lee ritratta da Cecil Beaton, gennaio 1951


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Lee Radziwill ritratta da Marilyn Silverstone, 1962


Lee Bouvier ha incarnato la quintessenza della classe con il suo stile e le sue mise semplicemente perfette. In bilico tra il glamour e i fasti di certi abiti da gran soirée e il minimalismo di mise semplici, come i pantaloni Capri, sdoganati dalla sorella Jackie, il suo stile è eclettico e versatile. Allure intramontabile nella figura esile, ma anche nelle imperfezioni, come gli occhi distanti e la bocca che si allarga in sorrisi forse troppo ampi rispetto ai canoni tradizionali. La sua eleganza la porta nel 1996 ad entrare nella Hall of Fame della celebre International Best Dressed List creata da Eleanor Lambert. Ma noi la preferiamo versione acqua e sapone, in spiaggia, col vento tra i capelli e il sorriso genuino.


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La paura e la politica

Lo strumento di maggiore (e in termini di efficacia migliore) controllo di un popolo è la paura. Un tempo la paura era immediatamente riconducibile a misure dirette di repressione violenta, per cui si gestiva l’opposizione attraverso la violenza diretta, in tutte le sue forme, dal carcere, ai pestaggi, alla chiusura o distruzione di sedi di partito. Questi comportamenti però, soprattutto con la diffusione dei mezzi e degli strumenti di comunicazione, finiva con il rafforzare gli oppositori di un sistema, aggregando a questi anche coloro che semplicemente non ammettevano la violenza come strumento politico. Ciò non riguarda solo regimi veri e propri, spesso usati come esempio.


Le grandi battaglie per i diritti civili negli Stati Uniti sono state vinte proprio quando leader come King hanno “usato” i sistemi di comunicazione mostrando gli aspetti più cruenti delle forme repressive di alcuni sceriffi e governatori degli stati del sud. Oggi la paura è uno strumento di propaganda politica ed economica. È una forma di paura dialettica, espressa in maniera generica ed in forme indefinite. Ne abbiamo molti esempi. La paura degli “extracomunitari” [categoria generica in cui teoricamente rientravano tutti gli stranieri, ma in maniera propagandista ovviamente solo quelli “poveri” – mica americani, canadesi, australiani, giapponesi…] colpevoli di ogni male economico e sociale degli anni novanta in Italia era il cavallo di battaglia della Lega Nord.


La paura della “chiusura degli stabilimenti” (altra categoria generica) induce all’accettazione di variazioni contrattuali, senza che spesso vi sia un nesso diretto tra causa ed effetto, e tra modifica delle condizioni e produttività. La paura di restare senza copertura sanitaria a causa della perdita del posto di lavoro ha evitato di fatto qualsiasi forma di sindacalismo e di sciopero negli Stati Uniti, soprattutto negli anni dei tagli più forti alla produzione interna sotto l’amministrazione Reagan. La paura dei “comunisti” giustificava qualsiasi azione di repressione dei diritti civili negli anni sessanta, e casualmente in maniera direttamente proporzionale cresceva l’economia. Dall’altra parte, la paura del mostro americano giustificò a lungo le repressioni di Stalin.


La paura delle “api assassine”, del “millennium bag”, sono “virus” che fanno aumentare la percezione sociale di pericoli imminenti, e come i virus sanitari sotto forma di una nuova e diversa influenza ogni anno, generano mercato, un mercato di paura: vaccini, scorte alimentari (casualmente questi allarmi coincidono con i medi di dicembre ed agosto, periodo in cui è utile alle grandi catene svuotare i magazzini). Per tutto il suo mandato George W. Bush non ha mai sostenuto un solo discorso sullo Stato dell’unione – momento costituzionalmente previsto in cui a camere unite il presidente espone i dati sullo stato dell’economia, dell’occupazione, della salute della federazione – limitandosi a dire che “siamo sotto attacco”, che la “guerra contro i nemici della democrazia e della libertà…” etc etc.


Le paure sono spesso legate a luoghi comuni veri e propri, considerati veri fatti storici e per questo nessuno prende in considerazione nemmeno l’ipotesi di verificarli. Tra questi “gli zingari rapiscono i bambini” – oddio ci sarà anche stato qualche atto simile, ma negli ultimi trentacinque anni (da quando i database europei sono in qualche modo collegati) non risulta una sola condanna definitiva per un solo caso di rapimento in tutta Europa. A Napoli grande risalto ebbe la notizia che nella zona di San Giovanni una madre aveva sorpreso degli zingari del vicino campo nomadi mentre prendevano il figlio dalla culla – subito il quartiere in rivolta assaltò il campo lì vicino; in pochissimi sanno che l’esito delle indagini fu un interesse diretto della camorra a quell’area. Una ragazza a Torino, l’anno scorso, ha dichiarato di essere stata stuprata da uno zingaro – immediata la reazione della popolazione che ha letteralmente assaltato il campo nomadi dandolo alle fiamme – quasi nel silenzio è poi passata la notizia che aveva inventato tutto per nascondere la sua relazione alla famiglia. Ecco due piccoli effetti collaterali del credere ciecamente ai luoghi comuni della paura: che vengano usati per altri scopi.


La paura di presunte armi chimiche, batteriologiche, nucleari, ha giustificato senza troppe domande la guerra in Iraq – poco conta che non siano state mai né trovate né ne sia stata data nemmeno la prova indiziaria. La paura che “tutto il sistema crollasse” ha di fatto obbligato l’amministrazione Obama a “regalare” alle banche circa 1.500 miliardi di dollari.


Da noi la paura di un colpo di stato di sinistra giustificava il congelamento della politica e della società italiana nel pentapartito. Poi, la paura di un colpo di stato di destra, giustificava lo stesso congelamento. La paura di un cambiamento della classe dirigente italiana a seguito di mani pulite fece entrare in politica Silvio Berlusconi, e la paura che “i comunisti liberticidi” andassero al governo fu il tema unico della sua campagna elettorale; chi lo attaccava era “un comunista”; chi ne metteva in evidenza dubbi sulla storia personale e finanziaria e chi poneva la questione dei conflitti di interessi, era un complottista.


Oggi, la paura di “quello che potrebbe succederci” (sic!) giustifica qualsiasi misura di tagli alo stato sociale, alla previdenza al mercato del lavoro. Ciò anche laddove è evidente che non ci sono nessi diretti, ed anche quando misure strutturali reali e realizzabili non vengono nemmeno considerate.
L’Ilva di Taranto viene sequestrata dalla magistratura (non da Greenpeace!) perché inquina, e non poco, e in maniera grave, continuata, reiterata, conclamata. L’azienda replica “se chiudete qui, chiudiamo anche altrove” (il nesso? Qualcuno lo ha davvero appurato?) Replica del ministro della giustizia (sic!): non ce lo possiamo permettere. La paura di perdere posti di lavoro in un momento difficile, annulla responsabilità e reati, e giustifica nel silenzio collettivo che sia lo Stato (non si capisce perché) a pagare un investimento di un’azienda privata, che avrebbe per altro dovuto fare dieci anni fa e con risorse proprie!


Ma la paura è uno strumento che non riguarda solo i grandi tempi, gli stati, la politica nazionale. La paura viene insinuata nel piccolo comune, e soprattutto nel cittadino comune, dal basso, nella cellula più piccola della nostra società. “Se parte il termovalorizzatore Parma diventerà come Napoli”
La migliore macchina della paura è però quella sulla “crescente microcriminalità”. “Dobbiamo organizzare le ronde per difenderci dalla criminalità crescente” tuonava la Lega – ed oggi tutti danno per certo il dato su una situazione di criminalità diffusa e capillare. È una sensazione che abbiamo “a pelle” – negarla è cecità. Ma è anche vera? O confondiamo in maniera percettiva ciò che vediamo e sentiamo con ciò che accade davvero attorno a noi? Nel nostro paese il 68% delle fiction contiene microcriminalità ed è ambientato in serie poliziesche. Il 70% delle serie che importiamo è incentrato su serie criminali, direttamente o indirettamente. Va meglio con i film, che contengono violenza quotidiana per il 40% e scene di violenza fiction per il 24%.


La cronaca, spesso nera, fa notizia, e compone una media annuale del 28% dei nostri telegiornali e il 35% degli approfondimenti, non solo serali ma anche pomeridiani. In qualche modo siamo “abituati”, è come se tutto questo fosse reale, ripetuto, reiterato. Finisce con l’essere la nostra realtà, quella vera. Che i dati abbiano evidenziato invece dal 2000 al 2008 un calo costante del 4% all’anno, con punte del 6%; che certe aree siano decisamente e fortemente al di sotto della media europea, che le nostre città “più pericolose” (come Napoli, Milano, Palermo, Roma) per quanto saltino agli onori della cronaca per singoli episodi e fatti eclatanti, abbiano una diminuzione anche del 18% della microcriminalità… sono dati (anche se veri) considerati falsi, da una popolazione che ha la percezione epidermica di essere minacciata.


Questa “cappa di paura” schiaccia la società. Non le consente nemmeno una ipotesi di cambiamento. Blocca la spesa, e giustifica qualsiasi misura “spacciata” per necessaria. Certo, non arriviamo al “patriot act” americano, ma non siamo molto distanti, soprattutto se consideriamo il sistema nel suo complesso, e se consideriamo che la piattaforma dell’informazione e dei dati personali è sostanzialmente globalizzata.
Una democrazia dovrebbe vivere il momento elettorale come uno strumento di controllo, un momento di verifica e un atto di esercizio di una funzione di gestione del potere collettivo, che prima di tutto assume alla funzione di sistema di evitare ingerenze esterne sulla collettività. Oggi viviamo come una “minaccia” anche solo l’ipotesi di andare a votare. “se andiamo a votare succede…” e la frase si completa con qualsiasi male che ciascuno può concepire come il peggiore. In questo, la paura, finisce con l’essere il migliore collante sociale e collettivo. Ma mi chiedo, che paese e che società è quella che viene tenuta insieme con la minaccia e la paura?


La ricetta è tanto semplice quanto complessa da realizzare, in un popolo che non è stato educato alla memoria storica e che è stato anestetizzato dalla difficile attività del leggere, preferendo il comodo “guardare”. Dovremmo diffidare a priori di tutti coloro che ci parlano di paura, che ci vogliono convincere attraverso una “minaccia”, che ci veicolano messaggi per evitare “un male”. Chi instilla, alimenta, produce, una paura, è sempre un manipolatore e un potenziale oppressore. E quando glielo dici, parla di teoria del complotto, di macchina del fango, di “poteri forti” che gli si oppongono – si chiude e chiude il proprio gruppo a difesa del leader, reiterando un metodo per cui “loro, i buoni, sono sotto attacco perché hanno ragione” e sono gli altri che “non vedono”.
La paura, da sempre, è la migliore arma per generare consenso. Un consenso facile, costruito solo sui timori naturali delle persone, cui non viene data la chance e la fiducia di essere davvero libere di scegliere, da sé il proprio futuro.

Tra originalità e invenzione: i fratelli Castiglioni in mostra a Milano

Omaggio ad Achille e Pier Giacomo Castiglioni” mette in mostra nello Zanotta Shop Milano, dal 21 ottobre al 7 novembre 2015, i capolavori del design italiano immaginati dai due fratelli e prodotti da Zanotta da oltre 40 anni, raccontati in un allestimento sorprendente degli architetti Calvi Brambilla e con il commento grafico di Leonardo Sonnoli. L’inaugurazione avverrà oggi giovedì 22 ottobre alle ore 19.

 

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All’inaugurazione, i contributi sotto forma di racconto di Giovanna Castiglioni (figlia di Achille, docente, curatrice dello Studio Museo del padre e vicepresidente della Fondazione omonima) e di Beppe Finessi (architetto, docente e critico di design). Sui fratelli Castiglioni molto si è detto e scritto a cavallo dei due secoli. I loro oggetti senza tempo nati da un mix di guizzo espressivo, utilità e simpatia formale restano nella memoria collettiva come pezzi d’uso quotidiano che resistono al tempo e alle mode. Molti di questi oggetti sono nei principali Musei d’arte e design del mondo, e una gran parte è tuttora sul mercato. Zanotta ha mantenuto in catalogo la quasi totalità dei pezzi che i fratelli Castiglioni hanno disegnato dal 1957 in poi, e che il fondatore Aurelio, consapevole dello straordinario valore di quei mobili e complementi, aveva messo in produzione.

 

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«Un buon progetto nasce dall’ambizione non di lasciare un segno, ma dalla volontà di instaurare uno scambio, anche piccolo, con l’ignoto personaggio che userà l’oggetto da voi progettato», dalle parole del padre Achille scelte da Giovanna Castiglioni emerge il valore di un metodo progettuale che prima i due fratelli insieme (fino alla scomparsa di Pier Giacomo) e poi Achille hanno portato avanti: un’originalissima sintesi di arti applicate, funzione e ricerca di forme e tecniche nuove, ironiche e spiazzanti. Leonardo Sonnoli, progettista della grafica per l’azienda di Nova Milanese, conferma: «Rivedo nei progetti di A. e P.G. Castiglioni per Zanotta quelle intuizioni che scaturiscono dall’osservare le cose banali che mi ha insegnato Michele Provinciali: vedere qualcos’altro quando si guarda il quotidiano».

 

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L’allestimento è una piccola sintesi dell’approccio “alla Castiglioni”, come affermano gli architetti Fabio Calvi e Paolo Brambilla: «Lavorare con questi oggetti è per noi come realizzare un sogno. Siamo due fanatici dei prodotti dei mitici fratelli, e siamo loro collezionisti seriali! Privilegiando il lato sperimentale degli oggetti dei Castiglioni li abbiamo fatti vivere in un contesto giocoso: ed ecco gli sgabelli Mezzadro (design 1957) che “arano” un pezzo di prato, i sedili Allunaggio (1965) che atterrano sul pianeta e i Sella (1957) in fuga. Ironia e funzione marciano affiancati: del tavolino Cumano (1978) abbiamo estrapolato l’appendibilità e del sedile a inginocchiatoio Primate (1970) il disegno ergonomico. Raccogliendo la sfida con curiosità e senza lasciar perdere, come esortava Achille Castiglioni».

 

Zanotta Shop, Piazza del Tricolore 2 – Milano
Dal 21 ottobre al 7 novembre
Martedì – Sabato dalle ore 10:30 alle ore 19:30

Auguri, Catherine Deneuve

Il 22 ottobre l’attrice francese Catherine Deneuve festeggia 72 anni. Diva dallo charme inimitabile, musa storica di Yves Saint Laurent e volto di maison come Chanel, l’attrice è icona di stile ed eleganza e mito vivente.

All’anagrafe Catherine Fabienne Dorléac, la sua è una bellezza algida e allo stesso tempo incredibilmente sexy, celebrata da film come Bella di giorno.

L’inimitabile carré di capelli biondi, la sofisticata eleganza, lo sguardo altero e le forme burrose. Musa di registi del calibro di Roger Vadim e François Truffaut, Catherine Deneuve è considerata tra le migliori attrici francesi; una candidatura all’Oscar come migliore attrice per il film Indocina e innumerevoli premi e riconoscimenti, dalla Coppa Volpi al David di Donatello

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All’anagrafe Catherine Fabienne Dorléac, Catherine Deneuve compie 72 anni il prossimo 22 ottobre
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Catherine Deneuve in uno scatto del 1962
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La Deneuve è musa di registi come François Truffaut e Luis Buñuel

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Musa di Yves Saint Laurent e volto storico di Chanel


Nata a Parigi da Maurice Dorléac e di Renée Deneuve, entrambi doppiatori, il debutto nel cinema avviene durante l’adolescenza. La consacrazione giunge invece nel 1967: è il film scandalo Belle de jour, di Luis Buñuel, a darle la fama mondiale. Icona di stile strizzata nei trench disegnati per lei da monsieur Yves Saint Laurent, indimenticabile il suo ruolo di borghese alla ricerca dello scandalo. In Italia collabora con registi del calibro di Marco Ferreri, Dino Risi e Mauro Bolognini.

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L’attrice nel 1960
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Catherine Deneuve ritratta da David Bailey, 1967
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Musa di Yves Saint Laurent, che la veste in “Bella di giorno”

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Conturbante e scandalosa in “Bella di giorno” di Luis Buñuel, 1967


Ambasciatrice UNESCO, la vita sentimentale della diva è stata al centro del gossip: dalla relazione con il regista Roger Vadim alle burrascose vicende sentimentali che la legano all’attore Marcello Mastroianni, da cui ha la figlia Chiara, fino al matrimonio con il fotografo britannico David Bailey. Volto storico di Chanel n°5 negli anni Settanta, la diva rappresenta ancora oggi la quintessenza dell’eleganza parigina. “Oui, je suis Catherine Deneuve”, recitava qualche anno in un famoso spot. Un nome, un mito.

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Uno scatto celebre di Helmut Newton
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Ancora la Deneuve in posa per Newton

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Uno scatto del 1970

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Catherine Deneuve ritratta da Jeanloup Sieff per Vogue, 1969



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Lo stile di Eleonora Carisi

BLONDIEFULL FOR D-ART

Viviamo in un’epoca in cui tutto è pubblico e alla luce del sole. Tutto è concesso, si può vedere e nulla rimane segreto, nemmeno quello che indossi sotto i vestiti.
Stars come Rihanna sono state grandi fan della moda trasparente, lei stessa è stata pure bannata da Instagram per averci fatto vedere troppo…
Il vedo-non vedo adesso è di tendenza sulle passarelle e nei giornali, e sembra lo ritroveremo ancora, date le nuove collezione estive.

Sappiamo tutti che le sfilate sono dei veri e propri show, una specie di mondo surreale. Nel mondo reale ovviamente un look trasparente è difficile da portare, ma allora in che modo riproporli dalla passerella alla vita reale?

Prima di tutto occorre un bel po’ di coraggio, e se accostata nella maniera giusta la trasparenza può essere molto fine e chic.
Anzitutto si potrebbe iniziare con il paneling, ad esempio unire una blusa con un mini top sotto e/o una giacca sopra, una blusa con le maniche trasparenti o un vestitino cocktail con zone trasparenti o che ne dite di una gonna trasparente con una mini sotto? Le combinazione sono infinite…
Ma prima di tutto dovrete fare un piccolo investimento in un negozio di intimo e acquistare tanta bella lingerie – necessaria per questo look!
Nelle prossime stagioni la moda vuole scoprirci e lasciar vedere un po’ di pelle; io dico “se non puoi batterli, unisciti a loro ma solamente alle tue regole”  😉



Love B

ENGLISH VERSION

We live in an era where everything is public and out in the open…Everything is out there for everyone to see and nothing is a secret anymore, not even what you wear underneath your clothes. Big stars like Rihanna have been fans of the sheer trend and even got banned of Instagram because of sharing too much info.
We’ve been seeing the transparency/sheer trend for a while now on the runways and in the magazines, and it seems it won’t be going anywhere according to the new summer collections.

But we all know that the runway shows are called shows for a reason, they are some kind of fantasy world. In real life this transparency look is a bit harder to pull off, ‘cause I definitely wouldn’t suggest anyone to wear the sheer trends without anything underneath like they do on the runways..So how can we bring it from the runway to real life?

First of all you’ll definitely be needing some guts, but if done in the right way the sheer trend can be very classy and chic.
You could work with paneling..And single pieces…For example: a sheer blouse with a little top underneath and/or a jacket on top,
a blouse with just see through sleeves or a cute cocktail dress with sheer paneling, or what about a sheer skirt with a mini underneath?
The combinations are endless….
But one thing is for sure you need to drop by the lingerie store and invest in some nice underwear because you will be needing them with this look.
In the upcoming seasons they want us to be showing some skin, I say if you can’t beat’em then join em..but only under your own conditions;)

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Long sheer dress and fur jacket @MARCO BOLOGNA
Lingerie @INTIMISSIMI
Boots @ZARA

PH BY HENRIK HANSSON WWW.HSZPRODUCTIONS.COM

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Lo stile di Eleonora Carisi

Il neo che sdoganò Cindy Crawford campeggia in bella vista su un viso pulito dall’espressività antica. Una bellezza aristocratica ed una languidezza nello sguardo, tipicamente italiana.

Eleonora Carisi oggi nel fashion biz è qualcosa di più che una semplice icona di stile: brillante manager di se stessa, ha saputo gestire mirabilmente una carriera in incredibile ascesa che l’ha portata a divenire una vera diva.

Nata a Torino, classe 1984, una personalità forte e un senso spiccato per lo stile le hanno aperto le porte della moda: it girl, influencer e trendsetter di incredibile successo, Eleonora Carisi è uno dei nomi più brillanti del panorama fashion a livello internazionale.

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Eleonora Carisi alla New York Fashion Week, febbraio 2015
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Eleonora Carisi in Michael Kors nel suo blog Jou Jou Villeroy
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Eleonora Carisi è nata a Torino nel 1984

Eleonora Carisi of Jou Jou Villeroy wearing Michael Kors floral skirt. New York Fashion Week
Icona di stile, trendsetter ed influencer, Eleonora Carisi è una delle personalità più famose del fashion biz


Dopo aver conseguito una laurea in Marketing e Comunicazione presso l’Istituto Europeo di Design di Torino nel 2006, nello stesso anno Eleonora ha aperto una piccola boutique al centro del capoluogo piemontese: è nato così You You Store, concept store che ha sdoganato l’incredibile amore per la moda di Eleonora Carisi, che l’ha portata in pochi anni a fare della propria passione un lavoro più che redditizio.

Nel 2009 l’icona di stile ha lanciato la sua prima linea d’abbigliamento: What’s Inside You -questo il nome scelto- perché la moda è qualcosa di innato, qualcosa che parte da dentro. Ma è l’anno seguente, il 2010, l’anno della svolta: Eleonora apre il suo blog Jou Jou Villeroy, un canale di lifestyle e tendenze, veicolo di pura bellezza. Quella che si respira ad ogni foto è arte pura, unita ad un’estetica perfetta. Subito balzato in testa alla classifica dei 50 blog più popolari in Italia, grazie al suo blog Eleonora Carisi è divenuta in poco tempo un’icona famosa in tutto il mondo.

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Eleonora Carisi si è laureata nel 2006 in Marketing e Comunicazione presso l’Istituto Europeo di Design di Torino
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Nel 2006 l’icona di stile ha aperto il suo concept store You You Store, nel centro di Torino
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Nel 2009 l’icona di stile ha lanciato la sua prima linea d’abbigliamento, What’s Inside You
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Nel 2010 Eleonora ha creato il suo blog, Jou Jou Villeroy

Foto tratta da Lookbook.nu    —
Uno dei suoi mille outfit imitatissimi


Regina incontrastata dei social media, come Instagram, Twitter e Pinterest, immancabile presenza nei front-row delle passerelle più famose ed icona di stile. Lei, che dal canto suo si definisce cool hunter, non sbaglia un colpo: attentissima alle nuove tendenze, curiosa, poliedrica, carpisce le novità e le rielabora secondo il suo occhio. Un appeal sofisticato e un grande carattere, dal 2011 Eleonora Carisi collabora con la versione online del magazine italiano Grazia, di cui è stata it-girl.

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Eleonora Carisi alla Milan Fashion Week Autunno/Inverno 2013
Photo by Le21eme
Foto di Le21eme
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In pizzo bianco per le strade di Milano
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Il look scelto da Eleonora per la sfilata Roberto Cavalli Primavera/Estate 2016

Total look Louis Vuitton, shoes Louboutin, sunglasses Pollini
Total look Louis Vuitton, scarpe Louboutin, occhiali da sole Pollini


La sua grande fotogenia non è passata inosservata e tanti sono i brand che se la contendono da anni come testimonial: la blogger è stata modella e musa di nomi storici della moda, tra cui Moschino, Michael Kors, Chanel, Tod’s, Gucci, Ferragamo, Redken. Bella è bella: un viso che resta impresso ed uno stile sofisticato. Ogni mise è semplicemente perfetta, curata in ogni minimo particolare: uno stile eclettico, che passa con disinvoltura dalle suggestioni anni Quaranta, nei capelli ad onde e nei tailleur pantalone con stola di pelliccia al mood glossy di gonne a ruota indossate con cocoon coat rosa baby, fino all’ironia delle stampe cartoon. Femminilità allo stato puro negli outfit scelti per il suo blog e nei lunghi abiti da diva indossati sui red carpet, ma impeccabile anche in un mood casual quando la si incontra per le strade di Milano.

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Appeal da diva alla settimana della moda di Parigi
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Eleonora Carisi ad Intimissimi On Ice
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Alla sfilata Fendi Autunno/Inverno 2014-2015

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Cool hunter e modella, Eleonora Carisi è molto seguita nei social network


Eleonora Carisi è stata designer di apprezzate capsule collection per Zalando, Patrizia Pepe e Maria Grazia Severi. Inoltre ha collaborato, in veste di guest editor, per Grazia.it, VanityFair.it, Elle.it ed Elle Girl China, solo per citarne alcuni. Icona di stile tra le più copiate, ha calcato i red carpet più importanti, dal Festival del Cinema di Venezia al Festival di Cannes; presenza fissa ai Nastri d’argento e al Taormina Film Festival, la sua eleganza innata continua a mietere consensi.


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Slim Aarons: il fotografo dei divi

Slim Aarons: il fotografo dei divi

Corpi abbronzati, piscine che riflettono i raggi del sole, yacht e ville nobiliari. A volte si può fare la differenza non tanto per lo stile quanto per i soggetti che si sceglie di fotografare. Slim Aarons è il genio fotografico che ha legato indissolubilmente il proprio nome ai divi del jet set internazionale.

Da Marilyn Monroe a Salvador Dalí, da icone fashion del calibro di Gloria Guinness e Babe Paley fino ad esponenti dell’intellighenzia: farsi immortalare dall’obiettivo di Slim Aarons era già uno status symbol.

All’anagrafe George Allen Aarons, il fotografo nacque a Manhattan il 29 ottobre 1916. Universalmente riconosciuto per le sue foto patinate tra yacht e località extra lusso, dalla Sardegna alla Costa Smeralda, da Saint Tropez a Porto Ercole, fino a Cortina d’Ampezzo, nessuno come lui ha immortalato la bella vita a cavallo tra gli anni Cinquanta e gli anni Ottanta.

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L’attrice austriaca Mara Lane a bordo piscina in un costume Jantzen, Hotel Sands, Las Vegas, 1954
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Laguna Beach, San Diego, California, 1957
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Lago Tahoe, Nevada, 1959
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Penthouse Pool, 1961

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Ospiti a Villa Nirvana, di proprietà di Oscar Obregon, Las Brisas, Acapulco, 1972


Ma L’ironia della sorte vuole che il fotografo più patinato abbia iniziato la sua carriera immortalando situazioni assai diverse da quelle del bel mondo: arruolatosi a 18 anni, divenne fotografo di guerra durante il secondo conflitto mondiale, ottenendo anche diverse medaglie all’onore.

La lezione che Aarons impara dai combattimenti è che l’unica spiaggia degna di essere ritratta vuole ragazze seminude e abbronzate. Amante della bella vita, i bombardamenti e le sofferenze della guerra lasciarono in lui cicatrici profonde. Forse per esorcizzare tutto questo, trasse la sua ispirazione da situazioni mondane e dalla tranquillità della vita patinata.

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Carla Vuccino e Marina Rava, Capri, 1958
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Bettina Graziani in Costa Smeralda,1964
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Kevin McClory e sua moglie Bobo Segrist a Nassau, 1967
Teddy Stauffer con Dorothy Webb e Mrs. Ray Rogers, Acapulco, Messico, gennaio 1961
Teddy Stauffer con Dorothy Webb e Mrs. Ray Rogers, Acapulco, Messico, gennaio 1961
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Sciatori a Verbier, 1964
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Catherine Wilke, Capri, 1980
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Gloria Guinness in pigiama palazzo Halston nella sua casa di Acapulco, febbraio 1975

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La principessa Carolina di Monaco col suo cagnolino Tiffany, Montecarlo, 1977


Dopo la guerra Aarons si trasferisce in California ed è lì che inizia a fotografare le celebrità. La sua foto più celebre si intitola “Kings of Hollywood” ed è un ritratto di Clark Gable, Van Heflin, Gary Cooper e James Stewart durante la vigilia dell’anno nuovo del 1957, intenti a rilassarsi in un bar vestiti di tutto punto. Le fotografie di Aarons apparvero su LIFE, Town & Country e Holiday, solo per citare alcuni tra i più importanti magazine dell’epoca.

Nei suoi scatti non utilizzò mai ne stylist nè truccatori. Costruì la sua carriera sulla massima “Fotografare persone attraenti intente a fare cose attraenti in luoghi attraenti”. In fondo anche quella è cronaca: le sue foto testimoniano la vita dell’high society a cavallo tra due generazioni e forse anche più. Vero e proprio testimone oculare di una rivoluzione che ha investito la moda, gli stereotipi e la cultura: dalle foto anni Cinquanta, che immortalano pin up a bordo piscina, agli scatti più hot degli anni Settanta, con ragazze in topless a bordo di yacht extralusso o una Marisa Berenson strizzata in bikini estremamente audaci.

Marisa Berenson, 1968
Marisa Berenson, 1968
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Ragazze immortalate sullo yacht di Dino Pecci Blunt, 1967
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Sardegna, 1967
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C.Z. Guest col figlio, Palm Beach, 1955
Laura Hawk al Tempio di Poseidone, Paestum, agosto 1984
Laura Hawk al Tempio di Poseidone, Paestum, agosto 1984
Carlton Hotel, Cannes, France,1958
Carlton Hotel, Cannes, France,1958
Lake Tahoe, Nevada 1959
Lago Tahoe, Nevada 1959

In piscina, Las Brisas Hotel, Acapulco, Mexico, 1972
In piscina, Las Brisas Hotel, Acapulco, Messico, 1972


Si dice che l’appartamento in cui vive il protagonista de “La finestra sul cortile” di Alfred Hitchcock, interpretato da James Stewart, fu modellato proprio sull’appartamento di Aarons: viene da chiedersi quanto ci sia della personalità di Aarons nell’ex fotografo di guerra allergico alle crinoline degli abiti indossati da Grace Kelly. Quasi un paradosso, per chi ha costruito la sua carriera sul lusso.

Sfarzo, magnificenza, ostentazione: è questo che trapela dalle sue foto, per un’eleganza assolutamente sfrontata. Esagerazione, perché no, c’è anche questo negli scatti che immortalano milionari intenti a guidare spider che in realtà sono motoscafi, o ancora divi del jet set che festeggiano a bordo piscina party esclusivi, tra un bicchiere di champagne e l’ultimo gossip. Ma è un piacere per gli occhi, soffermarsi su quegli scatti dal sapore antico eppure quantomai attuale.

Princess Colonna and her third son, Prospero 1960 Slim Aarons Dolce Vita
La Principessa Colonna col suo terzogenito Prospero, 1960
Donna Anna Monroy di Giampilieri immortalata nella cornice di Villa Spedalotto, Palermo, 1984
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Slim Aarons immortalò divi ed esponenti dell’aristocrazia
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Roberta Droulers con le sue due figlie, Nathalie e Virginie a Villa D’Este, Como, 1984

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Cap Eden Rock Antibes, Francia, 1969


Slim Aarons è scomparso nel 2006 a Montrose, New York. Il suo patrimonio fotografico è immenso: una sua fotografia oggi vale moltissimo. Ma incommensurabile è il valore a livello storico: nessuno mai è riuscito ad immortalare certo lifestyle in modo così mirabile. Ma nelle sue foto non c’è solo il mare o le ville extra lusso: protagoniste dei suoi celebri scatti sono state anche le dimore storiche che hanno visto immortalati nomi dell’aristocrazia italiana ed europea, in una serie esclusiva denominata “Dolce Vita”. Fotografie che sono vere e proprie opere d’arte. Per veri intenditori.

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Lo stilista greco Dimitris Kritsas con quattro modelle nel tempio di Poseidone, Capo Sounion, luglio 1967
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Hotel Carlton, Cannes, 1958
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Norina Pisciotto nella villa dello zio Franco Zeffirelli, Positano, 1984
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L’attrice Tania Mallet alle Bahamas

Vacanzieri ad Algarve, Portogallo, 1973
Vacanzieri ad Algarve, Portogallo, 1973



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Balmain per H&M

Francesco Cenedese su democrazia diretta e M5S

Conosce il ‘sistema operativo’ Rousseau lanciato recentemente da Grillo e Casaleggio? Le sembra valido dal punto di vista tecnico?



Dobbiamo fare due doverose premesse. 
La prima è che va dato atto al Movimento 5 Stelle di essere attualmente il partito politico che ha la maggiore interazione con il proprio elettorato ed ancor più ai propri iscritti. Questo è un dato di fatto che nel “mercato politico” ha una sua precisa quotazione. Del resto quale ruolo reale hanno gli iscritti agli altri partiti politici? Almeno formalmente il M5S è alla ricerca e si è dotato di strumenti se non partecipativi almeno dialogici diretti. Il resto – tra cui gli esiti – sono ovviamente discutibili. Esattamente come molto spesso – ed anche in questo caso – il metodo scelto è strumentale a due obiettivi: portare acessi (e quini introiti) al blog di Grillo, e, sempre attraverso questi accessi generare “reputation” politica, ovvero alimentare la percezione di acentralità ed interesse. 
La seconda premesa è tecnica. Rousseau non è un sistema operativo, almeno se stiamo alle definizioni tecniche e ci atteniamo ad una proprietà di linguaggio. Casaleggio lo sa bene e gioca sul gioco di parole “sistema operativo” per interndere “il sistema con cui il partito è operativo ed opera”.

Si tratta – semplicemente – di un’insieme di applicazioni, o meglio di un menù di sezioni in cui compiere certe azioni, che vanno dal consultare documenti, commentare, votare… tutti strumenti straordinariamente utili a generare accessi e numero di pagine viste, con un’esponenzialità di cui noi stessi come navigatori non ci rendiamo conto. 
Faccio un esempio: per partecipare ad una votazione online vengono effettuati non meno di 11 click, ovvero “11 visualizzazioni di pagina”. Se consideriamo che ne hanno fatte oltre 66 in un anno e che hanno partecipato mediamente 48mila persone… i conti sono presto fatti.
Con la nuova piattaforma i numeri si raddoppiano, se non triplicano.

Concretamente si tratta di un’area ad accesso riservato in cui condividere commentare “partecipare” alle iniziative legislative in Europa, in Parlamento e nei consigli regionali. Uno strumento anche di “contatto” tra gli iscritti, che potranno anche votare, commentare o informarsi. 
Da un punto di vista dei materiali non molto più di quanto non sia già disponibile in rete.
Semmai organizzato meglio – da chi conosce i sistemi di social aggregation – e “messo tutto insieme” in un luogo unico che riceverà visite esponensiali in termini di traffico web. 
Molte di queste informazioni sono già in tutti i siti di tutti i partiti politici. Qui si può accedere solo se sei iscritto – e non è materiale disponibile al pubblico. In più puoi votare, e va poi declinato il peso e il senso di questo voto caso per caso.


Quali sono i potenziali problemi che vede in Rousseau? Crede sia possibile garantire l’imparzialità visto che il tutto è gestito dalla Casaleggio Associati?


Dobbiamo chiarire. L’unico luogo in cui conterebbe l’imparzialità (meglio definirla neutralità o terzietà) sarebbe nel processo di votazione. Questo è difficilmente garantibile in ogni momento di vita interna di ogni partito politico. Certo, che tutto avvenga in digitale e soprattutto che avvenga su una piattaforma “interna” gestita internamente non è indice di “certezza terza”. 
Provocatoriamente potremmo chiedere perchè non usare le piattaforme messe a punto dal PirateParten tedesco, ma la risposta è facile: sarebbe “altrove” e non porterebbe accessi al blog.
 Casaleggio ripete spesso che sono votazioni certificate da “un soggetto esterno” che però non certifica alcun risultato, ma solo il rispetto del percorso indicato e che ci siano o meno violazioni esterne della piattaforma, ma non ha alcun modo di certificare il risultato.
 Le consultazioni “in sé” sono già manipolate, ad esempio allargando o stringendo gli orari in cui si può votare, o con quanto preavviso comunico una data di votazione è chiaro che “modifico” quanto meno il grado di partecipazione, che quando è più ristretto, tanto più darà un risultato maggiormente ortodosso rispetto alla linea ufficiale, mentre ampliando la partecipazione generalmente aumento il numero dei votanti “critici”. È semplice ingegneria sociale se vogliamo, e chi si ocupa di web e social network queste cose le sa bene.
 Oltre questo è chiaro ed evidente il rischio che “uno vale uno” e “decidono i cittadini” siano degli slogan e che poi “il risultato finale” sia qualcosa di scritto altrove e da qualcun altro. Sia chiaro, il tema non è se ciò avvenga o meno o in che misura concretamente avvenga. Il tema è che nessuno garantisce con certezza che non avvenga e che non possa avvenire.


Il recente referendum in Grecia è stato lodato da molti come un esemplare esercizio di democrazia. Lei pensa che sia stato giusto consultare i cittadini su un tema complesso come quello delle negoziazioni tra creditori e lo stato sul debito?


Io credo che sia un bene per la democrazia informare. E un bene per un Paese che i propri politici abbiano ben chiaro che il proprio mandato è a tempo, e che di fronte a scelte che travalicano il destino di una generazione occorrono almeno due cose: un ampio consenso parlamentare (oltre la semplice maggioranza di governo) e un “mandato straordinario” popolare. 
Del resto anche da noi è previsto un referendum in caso di modifiche particolari dell’assetto costituzionale, indipendentemente dalle due letture parlamentari. Il che ci riporta al concetto di un “mandato politico straordinario aggiuntivo”.
Fatta questa premessa però la politica dovrebbe impostare la propria comunicazione esattamente in questi termini: spiegare il contenuto della scelta da compiere, e non trasformare (come quasi sempre accade) un referendum in un sondaggio politico su questa o quella maggioranza, o su questo o quel leader. O peggio leggere in questo modo il risultato referendario.
 In Grecia oggi, in Italia nel 2016 o 2017 che sia…


Crede sia pratico consultare gli iscritti su temi anche complessi o ‘market sensitive’?


Doveroso. E la domanda – anch’essa provocatoria – è perchè tutti i partiti non lo facciano.
 Semmai anche mostrando e proponendo ciascuno un proprio modello differente, alternativo, così che possiamo tutti confrontarci su quale sia il migliore, come migliorarlo e come rendere questi strumenti “imparziali”. 
Chiaramente è una provocazione perchè se al popolo del centro destra venisse chiesto se sono a favore o contrari a primarie interne di coalizione, cosa pensate risponderebbero? Se chiedessimo ai cittadini se vogliono che i candidati (italicum o meno) siano scelti con primarie (chiuse o aperte) o dalle segreterie di partito, secondo voi cosa sceglierebbero?
 Tutti esiti che minerebbero alla base molte delle scelte politiche dei leader, scelte su cui si basa il loro potere, la propria maggioranza o le proprie clientele.
 Molti parlamentari da queste scelte – a torto o a ragione – sarebbero spazzati via. Non che sia un bene o un male, ma è la democrazia, e non la si accetta “a pezzi”.


In questo senso, crede possa funzionare la democrazia diretta proposta dal M5S?


No. La democrazia diretta non esisterebbe, non è mai esistita e non può esistere.
 Esistono varie forme di delega, e soprattutto varie forme di controllo e contrappeso dei poteri.
 Molti di questi controlli e contrappesi non dipendono solo dalle leggi ma soprattutto dai popoli. 
In Inghilterra se un parlamentare non risponde ai giornalisti la sua carriera politica è finita.
 Negli Stati Uniti uno scandalo che dovesse uscire anche su un sito o su un blog farebbe aprire un’inchiesta immediatamente. In Francia un servizio televisivo ha mostrato il ministro della sanità che andava a teatro con l’auto di servizio: solo per questo ha pagato settecento euro di multa e ha dovuto chiedere scusa pubblicamente. In paesi come la Germania, la Francia, l’inghilterra, anche i giornali più schierati – dichiaratamente – “danno la notizia”, anche se questa tocca la propria parte politica, con il risalto che merita la notizia in sé, non in base alla propria fede. È questo che i cittadini si aspettano.
Questi sono esempi di controllo democratico. Anche se non sono espliciti in leggi o regolamenti o nella Costituzione. Perchè la democrazia è, in fin dei conti, la percezione che ne hanno nella pratica quotidiana i cittadini e quanta pressione in tal senso riescono ad esercitare sui propri politici a che si adeguino.


I cittadini possono essere sempre abbastanza informati per esprimere una decisione? Uno dei benefici della democrazia rappresentativa è che vi sono degli esperti che si occupano della legislazione in vari settori. Come possono i cittadini fare delle scelte migliori degli esperti?



Quasto sarebbe vero in teoria. Se guardiamo alla prassi abbiamo avuto medici ministri della sanità che sono stati peggiori della storia, ed abbiamo avuto ottimi politici che senza essere tecnici puri hano saputo impostare una visione complessiva che ha miglioratomolto i settori di cui si sono occupati. Abbiamo una presidente della commissione antimafia che sino al giorno prima dichiarava tranquillamente che di mafia non sapeva nulla. E se guardiamo alla composizione delle commissioni parlamentari non sempre abbiamo esperti che le compongono.
 Al politico non deve essere richiesto (solo) di essere un tecnico, ma soprattutto di avere una visione politica complessiva, possibilmente almeno di medio-lungo termine.
 Per il resto esistono i tecnici e funzionari dei ministeri, i consulenti esterni, le audizioni…
 Ed anche qui interviene la partecipazione democratica, e la percezione della democrazia.
 Negli Stati Uniti esistono ampi canali aperti attraverso cui i cittadini possono interagine con le commissioni, con i parlamentari, esistono soggetti come lobby (le più potenti in termini elettorali sono quelle ambientaliste e degli insegnanti per esempio) o semplici think-thank che possono interagine sul processo legislativo di singole leggi.
 Ecco, usare i nuovi strumenti tecnologicamente disponibili per favorire la partecipazione dei cittadini è qualcosa che da noi va importato in maniera strutturale. Anche perchè i cittadini hanno una formazione, un lavoro, interessi, competenze, che possono essere utilissime in occasioni specifiche e tecniche. 
Tutto questo non è certo democrazia diretta, ma non solo è utile ai processi legislativi, ma soprattutto ad un rapporto diretto tra cittadini e Stato e migliora la percezione del concetto stesso di democrazia, per cui diventi parte delle scelte, e senti come tuo anche il dovere del controllo.