Christian Louboutin sceglie le curve

La rivoluzione curvy passa anche per un brand del calibro di Christian Louboutin: la celebre maison delle scarpe più ambite da ogni donna sceglie come testimonial della sua linea di rossetti una modella curvy.

Lei è Clémentine Desseaux e il suo nome è destinato ad entrare nella storia: è la prima volta in assoluto che un brand di lusso si affida ad una modella curvy per pubblicizzare i propri prodotti. Una svolta epocale che sfida i canoni estetici vigenti.

Labbra carnose ed efelidi, la bella Clémentine veste una taglia 48. Un volto perfetto dalla grande sensualità, e uno charme da ragazza della porta accanto. Camaleontica come solo le grandi modelle riescono ad essere, la giovane top model curvy è originaria della Francia ed ha 27 anni.

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Clémentine Dessaux è il volto scelto da Christian Louboutin per la linea make-up
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Taglia 48 ed efelidi per la top model francese

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Clementine Desseaux ha ventisette anni


Il brand fondato nel 1992 sceglie la bellezza di Clementine Desseaux per rappresentare la nuova linea di make-up: un segnale forte, che testimonia come le regole della bellezza stiano cambiando. La modella ha dichiarato quanto le sue morbide curve e le lentiggini all’inizio della sua carriera l’abbiano penalizzata e ha auspicato l’avvento di una nuova estetica che possa mettere fine ai pregiudizi.


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Buon compleanno, Jane Birkin!strong>

Buon compleanno, Jane Birkin!

Spegne oggi 69 candeline Jane Birkin. Bellezza iconica degli anni Sessanta e Settanta, spregiudicata, maliziosa come nessuna, l’attrice e cantante britannica non ha perso assolutamente il suo celebre fascino.

La caratteristica frangetta, il sedere rotondo immortalato in foto scandalose al fianco di Serge Gainsbourg: non c’è dettaglio della vita di Jane Birkin che non sia divenuto iconico, dai suoi amori ai suoi film. Incarnazione dello stile fresco eppure sofisticato tipicamente anni Sessanta, l’attrice è uno dei volti più noti e più chiacchierati degli ultimi cinquant’anni.

Nata a Londra il 14 dicembre 1946, Jane Mallory Birkin discende da una famiglia che ha fatto fortuna con l’industria del merletto nel Nottinghamshire. Il fascino doveva essere nel DNA, dal momento che una sua prozia, Winifred (Freda) May Birkin, poi sposata con William Dudley Ward, fu amante del Principe di Galles (il futuro Edoardo VIII del Regno Unito, nonché Duca di Windsor). Il padre della bella Jane, il maggiore David Birkin, era stato comandante della Royal Navy ed eroe della seconda guerra mondiale e fu coinvolto anche in vicende di spionaggio; la madre era l’attrice e cantante Judy Campbell (pseudonimo di Judy Gamble), famosa per le sue interpretazioni nei musical di Noël Coward.

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Jane Birkin è nata a Londra il 14 dicembre 1946

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L’attrice ha raggiunto la fama mondiale con il film “Blow-up” di Michelangelo Antonioni


Occhi da cerbiatto e fascino torbido che fa capolino dietro l’aria innocente, Jane comincia la carriera di attrice teatrale all’età di 17 anni: siamo nella Swinging London e il suo stile ammalia un nome storico della moda made in UK del calibro di Ossie Clark. Successivamente Jane fa il suo esordio come cantante in un musical: è in questo contesto che conosce il compositore inglese John Barry (autore anche di alcune musiche per i film di James Bond): tra i due nasce una relazione che sfocia in un matrimonio celebrato quando Jane ha appena 19 anni. Dalle nozze nasce la prima figlia della futura icona di stile, Kate Barry, nata nel 1967 (scomparsa prematuramente a Parigi, probabilmente suicida, l’11 dicembre 2013, dopo essere precipitata dal quarto piano del suo appartamento nel XVI Arrondissement).


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L’esordio cinematografico di Jane Birkin avviene con il film “Non tutti ce l’hanno” (The Knack …and How to Get It) di Richard Lester, ma è con la pellicola successiva, l’indimenticabile Blow-up di Michelangelo Antonioni, che l’attrice ottiene la fama. Una scena la immortala in topless: la bellezza acqua e sapone la rende immediatamente un’icona della scena londinese. Nel 1968 l’attrice si trasferisce in Francia: qui avviene l’incontro della vita, con il cantante e musicista Serge Gainsbourg, con cui intraprende una relazione che durerà fino al 1980. Una coppia inimitabile, il fascino di lui capace di sposarsi così bene con la bellezza di lei, musa quasi forgiata dalle mani esperte e dalla fantasia del grande cantautore francese. Nel 1969 arriva la canzone scandalo, con tanto di gemiti e sospiri, Je t’aime…moi non plus, originariamente incisa da Gainsbourg insieme a Brigitte Bardot e poi cantata invece con la Birkin. Due anni più tardi, nel 1971, nasce Charlotte Gainsbourg, che diventerà anche lei attrice e cantante.

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La bellezza acqua e sapone di Jane Birkin l’ha resa una grande icona di stile

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L’attrice ne “La piscina” del 1969


Al termine della relazione con Gainsbourg, Jane Birkin ha continuato con grande successo la carriera di attrice. Inoltre la diva ha trovato un nuovo amore nel regista francese Jacques Doillon, da cui ha avuto la figlia Lou, nata nel 1982 e divenuta famosa come modella. Una carriera sfolgorante nel cinema e nel teatro, un’immagine che le ha permesso di divenire una vera e propria icona, un’esperienza anche come fashion designer al fianco della figlia Lou (le due hanno firmato insieme una collezione per il brand La Redoute), Jane Birkin ha anche una borsa a suo nome, la mitica Birkin firmata Hermès, che la diva ha recentemente rinnegato per motivi ambientalisti. Vero e proprio oggetto di culto, It Bag tra le più costose al mondo (il prezzo varia dai 6.000 ai 120.000 euro), la celebre borsa porta il nome dell’attrice, che però lo scorso luglio ne ha disconosciuto la paternità.

Oggi la diva compie 69 anni: bellezza naturale, fieramente contraria alla chirurgia estetica, gli anni non ne hanno minimamente scalfito la classe e il grande fascino.


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C. Z. Guest: icona dell’American style

C. Z. Guest: icona dell’American style

I riflessi che i raggi del sole disegnano su una piscina, capelli biondi mossi dal vento e dalla brezza del mare, poco distante, sorrisi bianchi illuminano labbra di un rosa appena accennato. È questo lo sfondo su cui si stagliava la vita di C. Z. Guest, socialite ed indimenticabile icona di stile. Emblema dell’American style, presenza fissa dell’International Best Dressed List, C. Z. Guest incarnò la quintessenza dello chic, col suo stile acqua e sapone, tra polo e bermuda. La bionda icona fu anche attrice, giornalista, autrice, guru del giardinaggio, provetta cavallerizza e fashion designer.

All’anagrafe Lucy Douglas Cochrane, la futura icona di eleganza nacque a Boston, in Massachusetts, il 19 febbraio del 1920, in una famiglia dell’alta borghesia. Il padre, Alexander Lynde Cochrane, è un banchiere. Il nome di C. Z. deriva dal soprannome Sissy: era questo il suono che il fratello emetteva quando la chiamava “sister”. C. Z. cresce come una splendida ragazza: impressionante è la somiglianza giovanile con Grace Kelly. Durante una fase d ribellione giovanile, durante i suoi vent’anni, la bionda C. Z. si trasferisce ad Hollywood, dove inizia una carriera come attrice. Successivamente si sposta in Messico, dove posa in déshabillé per Diego Rivera: il dipinto che la ritrae nuda venne poi appeso al bar dell’Hotel Reforma. Quando il futuro marito di C. Z., il giocatore di polo Winston Frederick Churchill Guest, venne a conoscenza del ritratto, esclamò: “Oh no, sei stata una cattiva ragazza, tesoro”.

Il matrimonio tra i due venne celebrato l’8 marzo 1947. Winston Frederick Churchill Guest era figlio di Frederick Guest, a sua volta figlio di Ivor Bertie Guest, primo Barone Wimborne, e di Lady Cornelia Henrietta Maria Spencer-Churchill (figlia di John Spencer-Churchill, settimo duca di Marlborough), e per discendenza materna era cugino primo di Sir Winston Churchill. Le nozze ebbero luogo nella casa del celebre scrittore Ernest Hemingway, all’Avana, Cuba. La coppia ebbe due figli, Alexander e Cornelia Guest.

C.Z. Guest in Mainbocher, foto di  Irving Penn
C.Z. Guest in un tailleur Mainbocher, foto di Irving Penn


C.Z. Guest ritratta da Cecil Beaton per Vogue, aprile 1953


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C. Z. Guest, all’anagrafe Lucy Douglas Cochrane, nacque a Boston il 19 febbraio del 1920


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C.Z.Guest in un abito Mainbocher, 1950


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C. Z. Guest fu antesignana dello stile preppy


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La socialite fu anche provetta cavallerizza, esperta di giardinaggio, attrice e fashion designer


La classe innata di C. Z Guest ottenne numerosi riconoscimenti: giovanissima aveva già posato per Harper’s Bazaar per l’obiettivo di Louise Dahl-Wolfe; successivamente posò per Irving Penn e Cecil Beaton, prima di ottenere la copertina di Town & Country, nel novembre 1957. Ritratta anche da Salvador Dalí, Kenneth Paul Block e Andy Warhol, la sua vita lussuosa, tra party a bordo piscina e residenze principesche, la rese musa indiscussa del fotografo Slim Aarons. Inoltre nel luglio del 1962 ottenne la cover di TIME magazine e fu protagonista di un articolo che ritraeva l’alta società americana. Nel 1959 fu inserita nella Hall of Fame dell’International Best Dressed List creata da Eleanor Lambert nel 1940.

La socialite amava vestire in modo essenziale e semplice: antesignana dello stile preppy, che incarnò brillantemente, tra polo, bermuda, tutine e prendisole, C. Z. Guest fu l’emblema di quell’eleganza tipicamente americana a cui oggi guardano designer come Ralph Lauren e Tommy Hilfiger. Adorata per i suoi look iconici, promosse strenuamente i designer americani, come il couturier Mainbocher, ma anche Oscar de la Renta, che fu suo intimo amico e che dichiarò più volte di essere stato ispirato da lei.

C.Z. Guest su Harper’s Bazaar, gennaio 1950. Abito Mainbocher, foto diLouise Dahl-Wolfe
C.Z. Guest su Harper’s Bazaar, gennaio 1950. Abito Mainbocher, foto diLouise Dahl-Wolfe


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La socialite a Villa Artemis, ritratta da Slim Aarons


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Un velo di abbronzatura, un fiocco tra i capelli e pochissimo make up: queste erano le regole di stile di C. Z. Guest


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Rosa pastello e linee pulite: lo stile preppy deve moltissimo a C. Z. Guest


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C.Z. Guest con Joanne Connelly a Palm Beach, 1955, foto di Slim Aarons


Una bellezza classica e naturale ed una predilezione per outfit sporty-chic, C. Z. Guest boicottava il make up, puntando ad un’eleganza casual. Potremmo definirlo effortlessy chic: poche ma preziose regole erano i pilastri su cui si basava la sua eleganza, come indossare una semplice t-shirt di colore bianco, illuminata da labbra colorate di rosa e da un filo di abbronzatura, o legare i biondissimi capelli con un fiocco di seta, o, ancora, indossare l’immancabile filo di perle bon ton, unico vezzo che si concedeva, nella sua proverbiale avversione per i gioielli. Il suo stile oh so preppy le aprì con facilità le porte dei più esclusivi circoli fashion, e il suo matrimonio la rese protagonista indiscussa del jet set internazionale. C. Z. Guest teneva molto al suo ruolo di socialite e si divertiva a posare per le cover e a rilasciare interviste. Lo stile per lei era qualcosa di innato, parte integrante della sua stessa essenza. D’altronde nella sua sfera di amicizie figuravano icone del calibro di Babe Paley, la duchessa di Windsor, Diana Vreeland, Barbara Hutton, Gloria Guinness, Joan Rivers e Diane von Fürstenberg. Inoltre fu uno dei cigni della corte di Truman Capote. Sopravvissuta al cancro, definì lo stile “questione di sopravvivenza, l’avere affrontato tante avversità senza darlo a vedere”.

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Il bianco era il colore prediletto dall’icona di stile


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C. Z. Guest a Villa Artemis, costruita sulla falsariga dei templi greci


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C.Z. Guest davanti la piscina di Villa Artemis, Palm Beach, 1955. Foto di Michael Mundy


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Foto di Slim Aarons, circa 1955


Premium Rates Apply. circa 1955:  Mrs F C Winston Guest (1920 - 2003) (aka Cee Zee Guest) with her dogs in front of the Grecian temple pool on her ocean-front estate, Villa Artemis, Palm Beach, Florida.  (Photo by Slim Aarons/Getty Images)
Villa Artemis, Palm Beach, Florida. Foto di Slim Aarons, 1955


Con la duchessa di Windsor
Con la duchessa di Windsor


In un libro a lei dedicato, dal titolo “C.Z. Guest, American Style Icon”, edito da Rizzoli, Susanna Salk traccia un ritratto intimo della trendsetter americana. C.Z. Guest amava stare all’aria aperta e il suo look acqua e sapone testimonia in primis le sue passioni, come andare a cavallo, giocare a tennis e occuparsi dei suoi amati giardini. La socialite divenne grande esperta di giardinaggio, scrisse rubriche su numerose riviste e fu autrice di ben tre testi sull’argomento, creando anche dei guanti che andarono a ruba, rendendola anche genio ante litteram delle strategie di marketing. Nonostante la vita lussuosa non era una snob, ma riteneva le buone maniere e la gentilezza vincenti in ogni campo. Come scrive William Norwich nell’introduzione al volume di Susanna Salk, C. Z. Guest fu “campionessa di meritocrazia”. Una vera e propria avversione nei confronti dei privilegi, la socialite riteneva doveroso cercare di elevarsi e primeggiare in qualcosa, fosse lo sport o altro, indipendentemente dall’appartenenza all’élite. A differenza della maggior parte delle donne del suo rango, C. Z. Guest non temeva di avventurarsi fuori dai ristretti confini tracciati dalla scala sociale: ce la descrivono sempre pronta ad abbracciare il nuovo, l’ignoto, il suo indomito spirito ribelle le faceva amare l’avventura e l’esotico, facendole preferire gli stivali da cavallerizza al filo di perle. La sua ricchezza non pesava su chi le stava accanto: il suo sorriso faceva sentire chiunque a proprio agio. Perché, si sa, la vera eleganza non ha bisogno di ostentare alcunché.

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C. Z. Guest col marito Winston Frederick Churchill Guest in una foto di Slim Aarons


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C. Z. Guest nella sua residenza di Templeton: la socialite fu provetta cavallerizza


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Uno scorcio della residenza di C. Z. Guest a Templeton


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Ancora interiors della tenuta di Templeton


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Il celebre ritratto di C. Z. Guest eseguito da Salvador Dalí


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C.Z. Guest con la figlia Cornelia nel 1986. Foto di Helmut Newton


Uno scatto del 1959
Uno scatto del 1959


La sua grande passione per il giardinaggio iniziò un po’ per caso: dopo una rovinosa caduta da cavallo, nel 1976, le venne chiesto dal New York Post di scrivere una rubrica sul tema. Nacque così il materiale che raccolse nel suo primo libro, First Garden, che fu illustrato dal suo amico Cecil Beaton.

D’inverno C. Z. Guest viveva nella sua residenza a Palm Beach, la celebre Villa Artemis, mentre nei mesi caldi si divideva tra il suo appartamento di Manhattan e Templeton, la sua proprietà nel Connecticut. Come ella stessa dichiarò nel corso di un’intervista rilasciata a Vogue, fu proprio a Templeton che la socialite trovò la propria dimensione più autentica, dedicandosi alla caccia e prendendosi cura dei suoi giardini e dei suoi cani. Tantissimi -si stima 10 o 15- i suoi fidati amici a quattro zampe furono immortalati anche nei quadri delle sue residenze e talvolta comparivano nelle foto in braccio alla bionda padrona. L’interior design di Templeton venne curato da Stephane Boudin e Maisin Janson con mobilio e arredi di grande valore artistico -come il celebre ritratto realizzato da Salvador Dalí– che la resero più simile ad un museo. Villa Artemis, la residenza di Long Island, comprendeva invece 28 camere: la piscina in marmo bianco, set iconico delle indimenticabili foto di Slim Aarons, e l’architettura che ricalcava fedelmente i templi greci resero la villa con vista sull’oceano emblema della bella vita.

C. Z. Guest fu anche fashion designer: la sua prima linea comprendeva prevalentemente maglioni di cashmere dalle linee essenziali. La collezione fu presentata nel 1985, durante una sfilata del celebre Adolfo Domínguez. L’anno seguente, nel 1986, la socialite mise a punto una collezione di sportswear in limited edition. Nel 1990 brevettò un repellente contro gli insetti e altro materiale per il giardinaggio, ottenendo anche lì grande successo.

C.Z.Guest in una foto di Peter Stackpole, ottobre 1947
C.Z.Guest in una foto di Peter Stackpole, ottobre 1947


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C. Z. Guest fu socialite di cui si ricorda la gentilezza d’animo, come testimoniato dai suoi amici storici, come Diane von Furstenberg


C.Z. Guest e Peter Lawford, 1961
C.Z. Guest e Peter Lawford, 1961


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C.Z.Guest sulla copertina di Town & Country, Novembre 1957


L’icona di stile morì l’8 novembre del 2003 a New York, all’età di 83 anni, a causa di difficoltà respiratorie. Truman Capote, l’amico di una vita, tracciò un ritratto di C. Z. Guest che ce la restituisce nella sua struggente spontaneità: “I suoi capelli, divisi al centro e più chiari del Dom Pérignon, erano più scuri di una gradazione rispetto all’abito che indossava, un Mainbocher bianco in crêpe de Chine. Nessun gioiello, pochissimo trucco; solo la perfezione del bianco su bianco… Chi l’avrebbe mai detto che dentro questa signora che sapeva di fresca vaniglia si celava un autentico maschiaccio?”

Diane von Fürstenberg ne ricordò la semplicità, la gentilezza e la generosità. “Nulla in lei appariva falso o costruito”– disse la stilista. “Era una donna autentica, di una naturale bellezza e dalla classe innata”. La classe di una vera bellezza americana.

(Foto cover Slim Aarons)


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CRONACHE VINTAGE – IL TURBANTE: L’ORIGINE, GLI USI, LE DIVE

È giunto il momento per me di dedicare un po’ di questo spazio a un accessorio che definirlo vintage è quanto mai riduttivo: sto parlando del turbante. Da patita di storia del costume, ho sempre sfogliato le pagine di libri che mi raccontavano della vita di donne carismatiche, originali, eccentriche, le quali indossavano questi copricapi con una disinvoltura che invidiavo. Il suddetto oggetto misterioso accresceva il loro fascino, le rendeva “diverse”… dovevo averlo!


Il turbante è stato avvolto tante e tante volte, ha ricoperto tanti e tanti uomini e donne, che la sua storia sembra quasi infinita, tanto quanto tutta quella stoffa che lo ha reso popolare.

Giunse in Europa, tra il XV° e il XVI° secolo, per mezzo dei Turchi che lo chiamavano tulbent (termine che a sua volta deriva dal persiano dulband). Ma in oriente solo gli uomini lo indossavano (peraltro, io ho il feticcio degli uomini col turbante!). Una volta approdato nel nostro continente, le donne lo hanno voluto e se lo sono preso (e il vizio di rubare dal guardaroba di lui divenne una consuetudine!).


All’inizio del Novecento, quel gran genio di Paul Poiret non solo liberò le donne dal busto per restituirle ad un abbigliamento più comodo (grazie a dio!), ma riformò la moda investendola di quel gusto esotico che lo rese celebre: kaffettani e kimono, tuniche e calzoni alla turca e turbanti. Poiret ne adornò il capo delle sue modelle e delle sue fedelissime clienti, impreziosendolo con piume, perle e pizzi. D’altro canto, le influenze estetiche dei paesi lontani non erano casuali, dal momento che nel 1909 si esibirono per la prima volta a Parigi i Balletts Russes: gli allestimenti e i costumi di Sherazade o di Le Dieu Blue ispirarono non solo Poiret, ma l’arte, la moda, la vita dei parigini e degli europei. E io vorrei tanto una magica macchina del tempo per farmi catapultare direttamente a casa dell’artista parigina di cabaret Gaby Deslys, per prendere un te con lei mezze ignude e con in testa un bel turbantone!


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Peggy Guggenheim in Paul Poiret, Man Ray


Gaby Deslys


 Il turbante divenne poi parte del look dei gloriosi anni ’20, insieme ai capelli alla maschietta, al trucco vivace e agli abitini charleston: ecco a voi la flapper-girl, la cui silhouette slanciata doveva essere giustamente proporzionata da copricapi non voluminosi.


Kiki de Montparnasse in “Violon d’ Ingres”, Man Ray, 1924


Fu poi la volta degli anni ’40, e di una su tutte: Elsa Schiaparelli. La stilista che stravolse nei termini dell’irriverenza la moda internazionale, non poteva non indossare o fare indossare i turbanti in abbinamento alle sue note mise stravaganti.


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Elsa Schiaparelli


Più in generale, durante questo periodo l’austerità della guerra invogliò le donne a coprirsi la testa con cappelli e turbanti eleganti ed estrosi: un modo con cui ovviare alla semplicità delle vesti o al fatto di non avere i mezzi economici per curare i capelli, che così venivano sapientemente nascosti (lo faccio anche io, quando ho un tornado per la testa). La scrittrice femminista Simone de Beauvoir ne fu una fervida indossatrice e finì con l’esserne fedele fino alla fine dei suoi giorni.


Simone de Beauvoir


E ancora, i turbanti delle eleganti donne della buona borghesia degli anni ’50, copricapi che arricchivano ulteriormente mise estremamente femminili, dalle gonne a ruota ai vitini da vespa ai guanti, al trucco evidente e il turbante non faceva altro che esaltare i visi decoratissimi delle LADYLIKE di quegli anni.


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Turbanti, 1959


Siamo giunti, a questo punto, ad una fase storica per questo oggetto che un’immagine su tutte può sintetizzare al meglio:


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Nel ritratto qui in alto, la modella, Marina Schiano, indossa un abito della collezione “anni ’40” di Yves Saint Laurent. La schiena si intravede grazie ad una profondissima scollatura coperta da pizzo nero. Sul capo, un turbante di velluto molto voluminoso nel quale sono raccolti i capelli. Il collo è nudo. Il risultato è sofisticato e sensualissimo. Impariamo, ragazze, impariamo!


La donna, fra i ’60 e i ’70 fu colei che nutrì un gran desiderio di ribellarsi alle autorità, della famiglia, della chiesa, dello stato, battendosi per un mondo migliore, aderendo così ai vari movimenti di contestazione indossando un abbigliamento “trasandato”, ma fu anche colei che che apprezzò l’avvento del prêt-àporter, di quei meravigliosi vestiti del supremo Yves, che proprio nel 1976/77 propose la celebre collezione russa: “voluttuosi vestiti ricamati, galloni dorati, passamanerie, boleri decorati…” e turbanti (“La moda, Il secolo degli stilisti, di Charlotte Seeling per Konemann). Le influenze esotiche, i rimandi a Paul Poiret sono evidenti, la sua grandezza risiedeva nel contagiare le donne al punto da renderle delle eclettiche  hippy di lusso. YSL sempre sia lodato!


Collezione russa, Yves Saint Laurent
Collezione russa, Yves Saint Laurent


Infine, negli anni ’80, la donna indossò il fascinoso copricapo accostandolo al noto power dress dell’epoca. “Dressed for success”, sembravano esclamassero queste nuove abitanti della giungla urbana, agguerritissime nel tentativo di imporsi in un mondo, quello professionale, fatto di uomini, indossando giacche dalle spalle importanti e pantaloni, ingraziandoli con accessori femminei.


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In conclusione, il turbante risulta un accessorio da sempre utilizzato e mi piace credere che un po’ sia per un desiderio comune alle donne di evadere, di immaginarsi in posti lontani, dalla Russia all’India all’Africa: la mia testa viaggia e con un turbante in testa lo fa molto di più!

Lo stile di Anna Dello Russo

Eccentrica, sopra le righe, a dir poco stravagante: definita da Helmut Newton una “maniaca della moda”, Anna Dello Russo è una star indiscussa del fashion biz. Una carriera inseguita ad ogni costo dalla fashion editor di origine pugliese.

Classe 1962, Anna Dello Russo nasce a Bari in una famiglia borghese, assai lontana dalla moda. Il padre è psichiatra e la madre casalinga. Ma la giovane ha una personalità granitica e un’unica ossessione: la moda. Inizia così la parabola di quella che è considerata oggi una delle personalità più influenti a livello mondiale, in fatto di stile, nonché una delle firme più autorevoli di Vogue, la Bibbia della moda per antonomasia.

La storia di Anna Dello Russo rappresenta il coronamento di un sogno, perseguito con tenacia e un talento innato: dal Sud Italia la signora della moda ha costruito un impero lavorando sodo, in barba ai detrattori che pure non mancano. Amata ed odiata in egual misura, il suo è un curriculum di tutto rispetto, che l’ha resa una delle stylist più famose al mondo oltre che un’icona di stile internazionale.

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Anna Dello Russo è nata a Bari il 16 aprile 1962
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La celebre fashion editor è stata definita da Helmut Newton una “maniaca della moda”

Anna Dello Russo alla Paris Fashion Week, Autunno/Inverno 2014-15 in Valentino
Anna Dello Russo in Valentino alla Paris Fashion Week, Autunno/Inverno 2014-15


Dopo aver conseguito una laurea in Arte e letteratura presso la Domus Academy di Milano, Anna Dello Russo inizia la sua brillante carriera in Condé Nast, dove trascorrerà oltre diciotto anni. Dapprima viene assunta da Vogue Italia, per cui lavora come fashion editor per oltre venti anni. Dal 2000 al 2006 è direttrice de L’Uomo Vogue. Dal 2006 ad oggi lavora come fashion editor di Vogue Japan.

Una carriera variegata, che la porta a vestire gli insoliti panni di speaker radiofonica per Radio Deejay nel 2011, e nel 2012 a creare una limited edition per il colosso svedese low cost H&M, per cui posa anche come modella delle sue stesse creazioni in stile barocco. Creatrice anche di Beyond, la sua fragranza venne confezionata in un packaging a forma di tacco a spillo, in linea con la personalità effervescente della fashion editor.

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La fashion editor a Parigi nel 2009
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Dal 2000 al 2006 Anna Dello Russo è stata direttrice de L’Uomo Vogue
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Anna Dello Russo ha uno stile eccentrico ed è attratta dagli eccessi

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Anna Dello Russo in Moschino


Avida collezionista di moda e gioielli, fashionista nell’anima, Anna Dello Russo vive a Milano con il suo cane, di nome Cucciolina, in una casa museo-mausoleo, nei pressi di Corso Como. Come lei stessa ha dichiarato in un’intervista al Corriere della Sera, di case ne ha in realtà due: una è quella in cui abita mentre l’altra è interamente adibita a contenere il suo incredibile guardaroba. Uno zerbino firmato Chanel dà il benvenuto alla sua dimora che comprende oltre 4.000 paia di scarpe e collezioni di vestiti e gioielli che la stylist custodisce gelosamente, dopo averli indossati solo una volta. Irriverente e autoironica, dopo il divorzio ha riciclato lo strascico del suo abito da sposa firmato Dolce & Gabbana, usando i 18 metri in pregiato chiffon di seta per fare le tende di casa.

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La stylist ha firmato anche una collezione per H&M nel 2012
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Anna Dello Russo posa con il suo cane, di nome Cucciolina
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Anna Dello Russo ha iniziato la sua carriera nella redazione di Vogue Italia
Photo credit: Getty Images
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Cocoon coat rosa baby e turbante esagerato: Anna Dello Russo adora trasgredire con i suoi look


Autentica trendsetter, pasionaria della moda, il suo sito web è opulenza allo stato puro e consacrazione iconoplastica dello stile a trecentosessanta gradi. Ironia, freschezza e quel pizzico di leggerezza che rese grande anche un nome storico della moda, del calibro di Diana Vreeland.

Definita “l’eroina di stile del XXI secolo”, icona gay venerata per le sue mise eccentriche, Anna Dello Russo adora la provocazione e il kitsch. Assolutamente contraria ad ogni forma di conformismo, le giacche blu dei politici italiani la annoiano, mentre trova affascinanti -per sua stessa ammissione- gli eccessi, la magia degli opposti e quel pizzico di cattivo gusto che, sapientemente dosato a capi haute couture, crea uno stile inimitabile. Con lei riscopriamo l’aspetto ludico della moda, che è in fondo niente più che un gioco. Futurista e rivoluzionaria, considera Rihanna e Miley Cyrus un fenomeno che ci porterà in una dimensione nuova, sebbene ora non possiamo comprenderne a pieno la portata storica.

Gli opposti fanno da sempre parte della sua personalità: androgina eppure femminile, spontanea e insieme diva, genuinamente frivola. In tempi in cui l’arroganza sembra dettare legge, scoprire che Anna Dello Russo non ha neanche un ufficio e si circonda di assistenti rigorosamente di sesso femminile che sembrano adorarla anche per la sua simpatia, ci fa apparire la celebre icona molto più umana di quanto potessimo immaginare.

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Androgina e sofisticata, Anna Dello Russo è considerata una delle più famose icone fashion a livello mondiale
Anna Dello Russo alla sfilata Armani Privé
Anna Dello Russo alla sfilata Armani Privé
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Caroline Trentini per Vogue Japan, ottobre 2015. Foto di Giampaolo Sgura e styling di Anna Dello Russo
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Eccesso e ironia negli editoriali firmati Anna Dello Russo. Foto tratta da Vogue Japan, novembre 2015

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Servizio realizzato a Roma da Anna Dello Russo


Il suo stile è in continua evoluzione e Anna Dello Russo si dichiara felicemente infedele tanto nella vita quanto nella moda; perfettamente a suo agio in ogni outfit, dal mix & match al tailleur Saint Laurent fino al lungo Valentino e agli amatissimi Dolce & Gabbana. Dall’animalier allo sparkling, la parola d’ordine è osare: la stylist non disdegna gli accostamenti più arditi e decanta dal suo sito le sue massime in fatto di stile, dalla doccia fashion -ottimo antidoto ad una giornata uggiosa- alla scelta di capi da sera- paillettes comprese- da indossare in pieno giorno. Scioccare è il fil rouge del suo manifesto stilistico, per una moda vissuta come dichiarazione della libertà individuale. La fashion editor ammette che occorre una buona dose di spirito di sacrificio per ottenere l’outfit perfetto da indossare nel front row delle sfilate, mentre auspica l’avvento di una democrazia della moda, che non guardi le taglie.

Anna Dello Russo ha firmato con i suoi styling alcuni degli shoot più iconici degli ultimi anni: uno stile definito e altamente riconoscibile, che ostenta creatività e genio ribelle, temerarietà e spirito camaleontico, per una donna consapevole della propria forza.


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Gucci Pre-Fall 2016: ironia in chiave vintage

Anne Hathaway in dolce attesa

Anne Hathaway sarà presto mamma. L’attrice premio Oscar aspetta il primo figlio dal marito Adam Shulman. Le prime foto appena diffuse rivelano una gravidanza felice e immortalano la futura mamma in una mise sportiva, molto diversa dai look sofisticati che siamo abituati a vederle sfoggiare sui red carpet. Una gravidanza tenuta nascosta fino ad oggi, sebbene l’attrice avesse già manifestato chiaramente la sua intenzione di diventare presto mamma.

La diva, diventata famosa grazie al film cult “Il Diavolo veste Prada”, è sempre impeccabile, sia che venga paparazzata a spasso per New York sia che si tratti di gala ufficiali. Classe 1982, Anne Hathaway incarna da sempre una bellezza discreta e raffinata. Immortalata come una novella Audrey Hepburn su diverse copertine di magazine patinati, sorriso rassicurante e occhi da cerbiatta, Anne Hathaway è considerata un’icona di bellezza.

Ma la diva è recentemente balzata agli onori delle cronache per un primato assai poco carino che si contenderebbe con un’altra star del calibro di Gwyneth Paltrow, ovvero quello della donna più antipatica di Hollywood. Considerata troppo perfettina e fredda, l’attrice starebbe infatti antipatica a numerosi fan, che in rete si scatenano a criticarla in tutto, a partire dai look sfoggiati, anche i più eleganti. Dal canto suo Anne Hathaway posta sui social network foto che la immortalano in pose buffe, sperando forse di fornire un’immagine di sé meno rigida.

Anne Hathaway a fianco del marito Adam Shuman. (Foto Kikapress)
Anne Hathaway a fianco del marito Adam Shulman. (Foto Kikapress)
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Un look ispirato ad Audrey Hepburn in “Colazione da Tiffany”
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Anne Hathaway è nata nel 1982

Anne Hathaway per Glamour UK ottobre 2015
Anne Hathaway per Glamour UK ottobre 2015


Impossibile dimenticare Andy Sachs, la timida assistente di Meryl Streep alias Miranda Priestley ne “Il Diavolo veste Prada”: una pellicola che ci ha fatto sognare, mostrando le peripezie della tipica ragazza della porta accanto piombata all’improvviso negli ambienti fashion. Di quel film, che ad Anne Hathaway ha dato la fama internazionale, ricorderemo per sempre la magistrale interpretazione di Meryl Streep come anche le mise create per l’occasione da un genio della moda del calibro di Patricia Field.

Anne Hathaway e Chris Pine per Teen Vogue 2004
Anne Hathaway e Chris Pine per Teen Vogue 2004
Anne Hathaway in Alexander McQueen e velo New York Vintage su Interview Magazine
Anne Hathaway in Alexander McQueen e velo New York Vintage su Interview Magazine
L'attrice a spasso per New York
L’attrice a spasso per New York

L'attrice agli Oscar del 2013
L’attrice agli Oscar del 2013


Vincitrice del Premio Oscar come migliore attrice non protagonista per la sua interpretazione di Fantine ne Les misérables di di Tom Hooper, basato sul celebre romanzo di Victor Hugo, l’attrice è convolata a nozze nel 2012 con l’attore Adam Shulman, da cui ora attende il primo figlio. Anne Hathaway è cresciuta in una famiglia cattolica e durante l’adolescenza ha anche accarezzato l’idea di prendere i voti. Dopo una relazione con l’imprenditore italiano Raffaello Follieri, conclusasi a causa del coinvolgimento di lui in vicende giudiziarie, la bella Anne ha trovato l’amore nel collega Shulman.

Mise romantiche per l'attrice americana
Mise romantiche per l’attrice americana
Anne Hathaway al MET Gala 2015
Anne Hathaway al MET Gala 2015

Anne Hathaway ne "Il Diavolo veste Prada"
Anne Hathaway in Chanel ne “Il Diavolo veste Prada”


Bellezza algida e labbra carnose, Anne Hathaway appare sempre perfetta sul red carpet: il suo stile predilige abiti da gran soirée dal grande impatto scenografico. Brand prediletti Valentino e Giorgio Armani. Non vediamo l’ora di vedere i look prémamam dell’attrice.


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Prima alla Scala: lo stile, questo sconosciuto

Prima alla Scala: lo stile, questo sconosciuto

È l’evento culturale più glamour e prestigioso, fulcro della tradizione italiana per antonomasia: in un Teatro alla Scala blindatissimo causa allarme attentati lo scorso 7 dicembre si è svolta la consueta Prima. Quest’anno è toccato alla Giovanna d’Arco di Giuseppe Verdi.

Il tempio della lirica, addobbato con dei gigli bianchi in omaggio alle vittime dell’attentato che ha avuto luogo a Parigi lo scorso 13 novembre, si è aperto al pubblico per un evento che da tradizione non smette di appassionare. Grande successo e ben undici minuti di applausi per Anna Netrebko, Francesco Meli e Devid Cecconi, protagonisti della rappresentazione di quest’anno, insieme a Riccardo Chailly, che ha diretto magistralmente l’Orchestra.

Con biglietti che hanno sfiorato la cifra record di 2.500 euro, la Prima alla Scala si riconferma come l’evento più esclusivo di Milano: appuntamento da non perdere assolutamente, sia per la crême che per le celebrities desiderose di apparire ad ogni costo, in barba agli allarmismi. Come di consueto largo a pellicce, gioielli vistosi, smoking passepartout. Ma la classe sembra essere ancora una volta la grande assente, tranne rare eccezioni. Non convince Agnese Landini Renzi: la professoressa non brilla in fatto di stile e neppure l’abito in pizzo nero disegnato per lei da Ermanno Scervino riesce nell’ardua impresa di conferire femminilità alla First Lady italiana. Nude look e appeal sofisticato per l’abito monospalla dalle preziose lavorazioni in pizzo: ma il sex appeal resta la grande incognita.

Mood tirolese tra maxi gonna in raso verde en pendant con inedito papillon e bolero in pelliccia dello stessa nuance: è apparsa così Daniela Santanchè, a fianco del compagno Alessandro Sallusti. La sua è stata la mise che in assoluto ha destato più clamore da parte dei media, che non hanno perso occasione di criticarne il look alquanto improbabile. La parlamentare dal canto suo si difende strenuamente e cita il designer reo di aver scelto per lei il bizzarro outfit: trattasi di Diego Dossola, titolare della boutique Ultrachic, di Milano. Lo stilista, classe 1975, originario di Vimercate, è titolare insieme alla socia Viola Baragiola, della boutique sita nel cuore di Milano: il piccolo atelier propone capi ironici e divertenti, ma la mise sfoggiata dalla Santanchè non convince assolutamente.





Certamente nella Prima alla Scala non ritroviamo più nulla o quasi del glamour che caratterizzava tale evento nei tempi andati: e se la massima del “less is more” non ha mai trovato grande seguito tra le attempate signore del foyer, convinte da sempre che la mera ostentazione sia sinonimo di stile, è pur vero che ormai le vestigia di un tempo sono solo un ricordo lontano: per rendersene conto basta osservare nel parterre una Efe Bal in Roberto Cavalli con scollatura hot, intenta ad auspicare il ritorno alle case chiuse e la solita Valeria Marini, che punta tutto sul sandalo in vista, tra un’esplosione di botox e glitter all over. Sabina Negri, ex compagna del ministro Calderoli, sfila in un improbabile abito da dark lady: completano il look una serie di tatuaggi che inneggerebbero a suo dire alle religioni monoteiste, simbolo di pace in tempo di guerra. Risaliamo la china del bon ton con Giovanna Salza, moglie di Corrado Passera, che sfoggia un abito nero profilato di viola con annessa mantella, mise funzionale a nascondere le forme arrotondate dalla gravidanza. Nel parterre della serata evento anche couturier storici come Renato Balestra e Raffaella Curiel.

Spiccano come perle rare in questo ambaradan Nathalie Dompè, aggraziata come poche in un Valentino dalle suggestioni surrealiste, e Margareth Madè in Armani: l’attrice è stata la più fotografata della serata, insieme al nuovo fidanzato, il collega Giuseppe Zeno, anche lui vestito Giorgio Armani. Total look white e consueta classe per l’etoile Carla Fracci ed eleganza d’altri tempi per Roberto Bolle.

Vincitrice morale della serata Patti Smith: la diva della musica New Wave sfida l’etichetta e il bigottismo imperante sfoggiando con ammirevole nonchalance un berretto di lana, tailleur pantaloni e anfibi dal mood country. In un tripudio di botox il suo viso marcato da qualche ruga e i lunghi capelli lasciati grigi incarnano la classe di chi non ha nulla da dimostrare e ci impartiscono una grande lezione di stile. Meditate.


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Stampe: tra storia e curiosità

Stampe: tra storia e curiosità

Paisley, pois, righe, pied de poule: sono le stampe più comuni dei capi del nostro guardaroba, ormai entrate di diritto nel vocabolario della moda. Ma da dove vengono e qual è la storia di queste fantasie che da tempo immemore abbelliscono i nostri capi? È la domanda che si è posta la giornalista Jude Stewart, che ha ricostruito fedelmente la storia dei tessuti stampati, partendo da documenti antichissimi: Patternalia è il risultato di questa inedita inchiesta. Il volume, appena pubblicato, traccia la storia delle più comuni stampe, dai pois al paisley.

Scopriamo così che i pois erano poco usati in epoca medievale, in quanto ricordavano i rush cutanei tipici delle malattie esantematiche, mentre il pied de poule deve il suo successo ai cappotti inglesi da caccia. Le righe, oggi considerate chic, erano invece prerogativa di carcerati e prostitute, almeno durante il Medioevo. Nel XIII secolo era in voga addirittura un codice, le lex sumptuaria, che regolamentava l’uso delle righe: facilmente visibili, esse si addicevano a prostitute e carcerati perché li avrebbero resi facilmente riconoscibili e controllabili ai fini della sicurezza pubblica. Un sottobosco di emarginati che già nell’iconografia medievale era raffigurato vestito a righe; considerate volgari e abominevoli, venivano usate per umiliare chi le indossava, secondo quanto ricostruito anche da Mark Hampshire e Keith Stephenson nel loro libro Communicating with pattern.

Appeal sofisticato per il giglio, altro pattern molto diffuso. Tradizionalmente associato agli antichi blasoni nobiliari, spesso prerogativa dell’aristocrazia francese, il giglio veniva utilizzato invece per marchiare criminali e schiavi, e chiunque fosse assoggettato allo stato francese. Il verbo francese fleurdeliser (giglio in francese si dice “fleur-de-lis”) indicava la pratica di «marchiare con il giglio»: il Code noir promulgato nel 1685 da Luigi XIV di Francia -che regolamentava la vita degli schiavi neri nelle colonie francesi- rese il giglio simbolo di tortura: gli schiavi che cercavano di fuggire sarebbero stati marchiati a fuoco col simbolo di un giglio, prima di essere mutilati e uccisi, ad eventuali ulteriori tentativi di fuga.





Tanti sono i testi che trattano dell’insolito tema dei tessuti stampati: Steven Connor, professore di storia culturale all’Universita di Cambridge, ha ricostruito la storia dei pois. Considerata la difficoltà di tracciare in modo equidistante i pallini senza l’aiuto di macchine, la fantasia era scarsamente utilizzata in epoca medievale. I pois irregolari venivano infatti accuratamente evitati perché considerati di cattivo auspicio, dal momento che la loro forma ricordava malattie mortali, come la lebbra, la peste bubbonica, il vaiolo.

Amata dai figli dei fiori e dai nostalgici dei Seventies, il paisley o cachemire è emblema del boho-chic: una storia antichissima sarebbe all’origine della fantasia, che si sarebbe diffusa migliaia di anni fa nel territorio a cavallo tra India e Pakistan, corrispondente agli attuali Iran e Kashmir. Originariamente chiamato būtā o boteh, che significa fiori, la stampa ricorda in effetti un fior di loto, anche se molti vi vedono una corrispondenza con le più svariate immagini. Gli antichi babilonesi paragonavano la figura ai datteri, simbolo di prosperità e abbondanza. Paisley è anche il nome di una città scozzese specializzata nella produzione di scialli con questo motivo, da qui il nome della fantasia.

Tradizionalmente associato allo stile più sofisticato, dopo avere attraversato indenne più di mezzo secolo, dagli anni Cinquanta ai favolosi Swinging Sixties, arrivando incolume fino ai giorni nostri, il pied de poule è forse il tessuto più amato. Il suo nome in francese significa letteralmente “zampa di gallina” e le sue origini sono alquanto misteriose: pare che derivi dalle mise utilizzate dai pastori scozzesi delle Highlands, la regione montuosa della Scozia. La stampa avrebbe avuto come fine quello di camuffare gli schizzi di fango. Il termine inglese per indicare il pied de poule è houndstooth, dai molari dei cani da caccia. Tradizionalmente associato all’aristocrazia terriera inglese, il tessuto veniva considerato consono alla caccia, ma senza perdere il glamour. Sdoganato da Edoardo VII di Inghilterra, a inizio Novecento, il pied de poule è arrivato fino ai giorni nostri, ed è ancora amatissimo.


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Addio a Krizia

Pratica che ti passa. Le 5 interessanti novità da non perdere per gli appassionati di yoga

Sempre più italiani si approcciano all’antica disciplina scegliendola come propria filosofia di vita. Per questo motivo D-Art sceglie di portarvi alla scoperta delle ultime tendenze e curiosità inerenti lo yoga.



A qualche giorno dalla conclusione dello Yoga Festival Milano 2015, edizione particolarmente significativa, trattandosi di quella decennale, si è sancito un punto sulla situazione dei praticanti della disciplina in Italia. E’ una comunità che cresce giorno dopo giorno, fatta di persone affascinate dal suo valore millenario, intente a trovare il proprio equilibrio interiore attraverso la filosofia.
Nello spazio di circa 4500 mq, presso il Superstudio di via Tortona, sono state ospitate oltre 80 scuole di yoga e vari espositori, 5 sale per le pratiche, 2 sale conferenze, un ristoro biologico e una sezione speciale per i più piccoli.
Un’occasione per scoprire tutte le novità per gli yogi, molte delle quali ancora in fase di startup.
Ed ecco che D-Art va alla ricerca delle 5 più innovative curiosità, dentro e fuori dal festival, per garantire ai propri lettori la possibilità di essere al passo con i trend anche in fatto di benessere psicofisico.


1. Approdato nel 2012 a Milano, grazie a Antonio Spera, il Bikram yoga a caldo si pratica in pochissime altre città. Presso il suo centro, che ha sede in via Spontini, si svolgono anche laboratori di hatha yoga, hot flow e workshop di aggiornamento e perfezionamento periodici. Le lezioni durano 60 e 90 minuti e si sviluppano attraverso 26 āsana, vale a dire posture, e 2 particolari esercizi di respirazione a 40 gradi. Ogni sistema del corpo umano insieme agli organi interni lavora profondamente. Di lezione in lezione si impara a concentrare la mente sulle proprie capacità di resistenza, a controllare il respiro e a acquistare consapevolezza del collegamento tra mente e corpo perfezionando forza e flessibilità. Il Bikram prende il nome dal suo ideatore Bikram Choudhury, pluripremiato campione internazionale di yoga e mentore di molte celebrities hollywoodiane, conosciuto dallo stesso Spera nel 2010. Una pratica che può essere svolta dai 9 ai 99 anni, che può ridurre i sintomi di molte malattie croniche ed è un’ottima attività di prevenzione.


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2. E’ proprio nella programmazione annuale dei workshop di Spera Bikram Yoga che si incrocia l’insegnante statunitense Benjamin Sears, ideatore di LuxYoga, uno spazio aperto a tutti gli appassionati, nel cuore della Provenza, che mixa una full immersion nella disciplina a una vacanza nel segno del luxury. Aperto nel 2007, la villa che lo ospita vede lo svolgimento di classi giornaliere e consente ai propri ospiti di essere coccolati dallo chef residente intento a preparare solo pasti con prodotti bio. Al termine di ogni classe viene offerto un drink ayurvedico da gustare prima di tuffarsi in piscina. Gli ospiti, inoltre, possono usufruire di massaggi sul patio con una splendida vista sul Mediterraneo e gustare selezionati vini rossi locali. Escursioni e lezioni di cucina non mancano per completare il confronto con gli altri yogi, provenienti da ogni parte del mondo. Un modo per incrementare la pratica, massimizzare il proprio potenziale e ricevere nozioni extra rendendo LuxYoga un’esperienza unica nel suo genere e impossibile altrove.


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3.
Lusso e esclusività personalizzata anche per My Ginny, il servizio “à porter“ di ginnastica femminile a corpo libero, fortemente ispirata dallo yoga, atta a modellare la figura di ogni donna. Partendo anche dai principi della ginnastica Vedres, della danza, del pilates e della ginnastica posturale, si riescono a creare piccole coreografie mirate all’allungamento, stiramento, scioglimento degli accumuli di grasso, rassodamento e benessere della schiena e cervicale. A idearla è la poliedrica trainer Costanza Sibio che, con l’utilizzo di un tamburello scandisce il ritmo da seguire durante le lezioni che sono sempre diverse e mai annoianti. Le possibilità di svolgimento sono tante e tutte personalizzate, da sole, a casa o a lavoro, la Sibi vi raggiungerà ovunque vogliate per consentirvi di essere in forma e di rilassare lo spirito e il corpo.





4. Dal personal trainer al personal food coach, specializzato in consigli per coloro che vogliono affiancare alla pratica yoga uno stile alimentare in linea. Dopo essersi formata sulla tematica, Gioia Camillo, già food blogger e chef vegana di Bacche di Gioia, è in grado di dare suggerimenti personalizzati su come nutrirsi evitando tutto ciò che è tossico per l’organismo. In quattro settimane, tempo idoneo per sviluppare un nuovo stile di vita a tavola, attraverso chiacchierate informali e consulenza illimitata, porta i suoi assistiti alla scoperta della loro essenza e dei loro desideri, nel segno dell’armoniosità del proprio organismo.


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5. Ma chi sono e che volto hanno i maestri che diffondono la disciplina nel nostro Paese? E’ l’arcano che viene svelato da Georgia Nuzzo, fotografa ufficiale della Federazione Mediterranea Yoga dal 2008, per la quale realizza reportage fotografici.
“Equilibri Yoga” è la sua ultima personale nella quale si focalizza su ritratti di 16 maestri in āsana.
Presentata proprio allo Yoga Festival questi ultimi sono colti in differenti posizioni che lasciano captare la personale determinazione spirituale. Un connubio di forza fisica e mentale che sancisce la perfezione raggiunta da chi svolge la pratica da anni. La naturalezza dei loro movimenti supera, per chi osserva i magici scatti su sfondo nero, la reale difficoltà.
Negli eleganti ritratti ritroviamo i maestri: Jacopo Ceccarelli, Perumal Koshy, , Willy Van Lysebeth, Roberto Miletti, Antonio Nuzzo, Walter Ruta, Gualtiero Vannucci, Piero Vivarelli, Jayadev Jac e Barbara Woehler.



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Nomi noti settorialmente ai quali si aggiungono quelli meno conosciuti ma ugualmente appassionati e coinvolgenti. Secondo le statistiche , infatti, nel 2016 si prevede un incremento di praticanti e insegnanti intenti a approcciarsi alla disciplina nelle sue varianti classiche e in quelle sperimentali, pronti a alimentare un mercato satellite fortemente in crescita.

Addio a Krizia

Si è spenta nella sua abitazione di Milano, all’età di 90 anni, Mariuccia Mandelli, in arte Krizia. A dare la notizia dell’improvviso malore, fatale alla celebre designer, il cda di M.K.K. spa.

Nata a Bergamo il 31 gennaio del 1935, Krizia si affermò ben presto divenendo protagonista indiscussa della moda italiana. Il caschetto scuro, il sorriso ironico e lo sguardo curioso, impossibile non conoscere Mariuccia Mandelli: quel nome scelto dall’ultimo Dialogo di Platone, perfetto per designare la sua moda concettuale e architettonica. Mariuccia Mandelli era figlia di un’Italia abituata a lavorare sodo e a fare sacrifici: un’attitudine per il taglio e cucito coltivata con grande disciplina, sullo sfondo del dopoguerra e con un padre intento a dissipare il patrimonio familiare per i suoi vizi; poi gli studi in Svizzera e quella cattedra come insegnante a cui la giovane rinunciò in nome della moda, per aprire un laboratorio a Milano, con l’amica Flora Dolci. Linee pulite ed essenziali caratterizzarono quei primi capi sperimentali.

Nel 1957 la giovane designer si distinse nell’ambito di un’esposizione al SAMIA (Salone mercato internazionale dell’abbigliamento), attirando l’attenzione anche di Elsa Robiola, celebre firma del giornalismo di moda italiano. Nel 1964 presentò una sua collezione a Palazzo Pitti, a Firenze, ottenendo il premio “Critica della moda”. Se inizialmente Mariuccia Mandelli vendeva le sue creazioni ai negozi, fu grazie all’obiettivo di Elsa Haerter, fotografa della rivista Grazia, che il suo nome cominciò a girare nei negozi più importanti. Le sue collezioni degli anni Sessanta prediligono i contrasti, come il bianco e nero optical, e la minigonna, che in Italia fu sdoganata anche grazie a lei, sulla scia di Mary Quant.





Dopo le nozze con Aldo Pinto, celebrate in Giamaica nel 1965, crea la collezione Kriziamaglia, e nel 1971 si aggiudica il premio “Tiberio d’oro” grazie ad un paio di hot pants ad alto tasso di sensualità.

Da lì la conquista del mercato internazionale con il suo brand: Krizia propone uno stile eccentrico ma sofisticato, specchio dello stile degli anni Ottanta. I materiali innovativi, come il sughero, la gomma e l’anguilla, e le forme insolite delle sue creazioni le valgono il soprannome di “Crazy Krizia”, assegnatole dalla stampa americana. Acclamata dai mercati esteri, amata tra le altre da Marella Agnelli e Lady Diana, la consacrazione avviene con un ritratto firmato Andy Warhol: Mariuccia Mandelli brilla nel firmamento della moda mondiale, dimostrando doti imprenditoriali notevoli, oltre ad un talento senza pari. Negli anni Ottanta il suo prêt-à-porter è salutato con clamore, mentre la stilista firma una linea uomo che ottenne grande successo; indimenticabili le maglie con gli animali, mentre nel 1980 arriva la prima fragranza firmata Krizia. Nel 1986 la stilista ottiene la massima onorificenza italiana, divenendo Commendatore della Repubblica Italiana, unica donna accanto a nomi del calibro di Giorgio Armani, Gianfranco Ferré, Valentino Garavani e Gianni Versace.

Gli anni Novanta la vedono indagata nel maxi processo Mani Pulite, con l’accusa di aver pagato delle tangenti, ma segue la piena assoluzione nel 1998. Recenti le collaborazioni della designer con Alber Elbaz, Jean-Paul Knott, Giambattista Valli, mentre nel 2014 il marchio fu rilevato dal gruppo cinese Shenzhen Marisfrolg Fashion. La stilista si è spenta improvvisamente nella serata di ieri nella sua abitazione milanese, accanto al marito Aldo Pinto. A gennaio avrebbe compiuto 91 anni. Dichiaratasi sempre di sinistra, Mariuccia Mandelli auspicava l’avvento di una generazione di giovani talenti e -schietta come sempre- non perdeva occasione per evidenziare la mancanza di umiltà che caratterizzava diversi addetti ai lavori. Con lei scompare un tassello fondamentale della moda italiana.

China Machado: la bellezza che ruppe tutti gli schemi

Zigomi pronunciati e labbra a cuore, un volto dall’espressività altera si mixa ad una sensualità felina, che fa capolino, quasi come una forza primordiale, dalle crinoline dei lunghi abiti in taffettà: China Machado è uno dei personaggi più interessanti del fashion biz.

Una vita in cui il destino ha messo più volte lo zampino, una lunga carriera come modella, iniziata un po’ per caso, una bellezza che ha stravolto i canoni vigenti all’epoca, sfidando le cortine fumogene dettate dal razzismo: China Machado è fashion editor, mannequin, icona di stile e produttrice televisiva.

Una lunga e sfolgorante carriera con un mentore d’eccezione, Richard Avedon, China Machado è stata la prima modella asiatica ad apparire su un magazine di moda. Correva l’anno 1959 e la splendida mannequin, scoperta dall’inossidabile Diana Vreeland, compariva nella sua maestosa bellezza sulla cover del numero di febbraio di Harper’s Bazaar.

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China Machado per Harper’s Bazaar, Novembre 1962, foto di Melvin Sokolsky
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China Machado è nata a Shanghai nel 1928
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China Machado in un abito Ben Zuckerman per Harper’s Bazaar, New York, 6 novembre 1958. Foto di Richard Avedon

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China Machado è stata musa storica di Richard Avedon


All’anagrafe Noelie Dasouza Machado, la modella è nata a Shanghai nel 1928. Sangue misto nelle vene, tra Sud-Est asiatico, India e Portogallo, China Machado è cresciuta parlando alla perfezione quattro lingue: l’inglese, il francese, il cinese e il portoghese.

Un’infanzia segnata in modo indelebile dalla guerra ma anche dalla povertà e dalla malattia: a sette anni rischiò la vita per complicazioni derivanti da un’infezione multipla, tra tifo, febbre paratifoide e meningite. Era il 1937 e si racconta che, mentre il prete stava per somministrarle l’estrema unzione, i giapponesi bombardarono l’ospedale di Shanghai dove la piccola era ricoverata. “La combattente che è in me venne fuori”, ha dichiarato più volte l’icona di stile ripensando a quel periodo della sua infanzia.

Superata la quarantena e recuperata la salute, la giovane trascorse i suoi primi 16 anni di vita a Shanghai; poi iniziò a viaggiare con la famiglia, tra Argentina, Spagna e Perù, prima di stabilirsi in Europa.

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La mannequin è stata la prima modella asiatica ad ottenere la cover di un magazine di moda
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China Machado in pigiama palazzo Galitzine, foto di Richard Avedon, 1965
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China Machado ritratta da Avedon a La Pagode d’Or, Parigi, gennaio 1959
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China Machado, foto di Richard Avedon per Harper’s Bazaar, Parigi, agosto 1961

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China Machado per Harper’s Bazaar, foto di Frank Horvat, Roma, 1962


All’età di 19 anni China Machado conobbe Luis Miguel Dominguín, torero di grande fascino. Con lui si trasferì a Roma, dove prese parte a numerose pellicole cinematografiche. La bellezza esotica di China mieteva i primi consensi ma i modelli di riferimento a cui la giovane si ispirava erano donne occidentali, come Rita Hayworth, Vivien Leigh e Ava Gardner. Sarà proprio quest’ultima, femme fatale dalla personalità esplosiva, a rubarle l’amore di Dominguín. Al termine di quella relazione la giovane si trasferì a Parigi, dove la sua vita cambiò per sempre.

La sfrontata bellezza di China Machado ruppe il sistema di vero e proprio apartheid che caratterizzava la moda degli anni Cinquanta. Lei, che non aveva mai fatto alcun pensiero sul mondo fashion, venne notata durante un party e si ritrovò letteralmente catapultata sulla passerella di una maison storica del calibro di Givenchy. In soli due anni la modella -che cambiò in quel periodo il proprio nome in China- calcò le passerelle più prestigiose, da Dior a Valentino, da Balenciaga fino a Pierre Cardin. Elegante e sensuale, divenne musa di Hubert de Givenchy, per cui lavorò tre anni, conseguendo un primato storico: fu infatti la mannequin più pagata d’Europa, con guadagni che sfioravano i mille dollari giornalieri. Protagonista dei party più esclusivi, a cui presenziava accompagnandosi ad artisti del calibro di Pablo Picasso ed Andy Warhol, nel 1957 sposò l’attore Martin LaSalle da cui divorzierà nel 1965, dopo aver dato alla luce due bambine. La coppia si stabilì a New York City e fu qui che, nel 1958, avvenne l’incontro decisivo per la carriera di China. Tramite la fashion editor Diana Vreeland la modella ebbe modo di incontrare Richard Avedon. Col grande fotografo nacque subito una grande amicizia ma anche un sodalizio artistico che produsse risultati di portata storica.

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Musa di Hubert de Givenchy, China Machado calcò le passerelle più importanti, da Dior a Balenciaga
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La mannequin in uno scatto del 1961
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New York, Harper’s Bazaar, 1964, foto di Jeanloup Sieff
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China Machado per Harper’s Bazaar, styling di Diana Vreeland e foto di Richard Avedon

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China Machado e Alberto Moravia, foto di Frank Horvat per Harper’s Bazaar, Roma, 1961


Definita da Avedon “la donna più bella del mondo”, per vedere pubblicate le foto che immortalavano la sua musa dalla bellezza esotica, Avedon dovette superare le barriere razziali e il bigottismo imperante, per cui era inconcepibile vedere in copertina una modella asiatica. La Hearst, casa editrice di Harper’s Bazaar, temeva che quelle foto avrebbero causato la disdetta di molti degli abbonamenti alla celebre rivista di moda. L’editore dell’epoca, Robert F. MacLeod, disse a chiare all’incredulo Avedon che quelle foto non potevano essere pubblicate perché la ragazza non era bianca. Ma è pur vero che non si diventa leggende per caso: Avedon si dimostrò inossidabile nella sua battaglia a favore della bellezza, arrivando a minacciare la storica casa editrice di rinunciare al contratto come fotografo di Harper’s Bazaar. Alla fine Avedon la spuntò e salutò orgogliosamente l’uscita del numero di febbraio del 1959: la bellezza aveva vinto. Ma forse la portata storica di quella battaglia non era ancora del tutto chiara, all’epoca. Il successo di China Machado aprì la porta alle modelle di colore, da Iman a Naomi Campbell, da Jourdan Dunn a Sessilee Lopez.

China Machado in Guy LaRoche
China Machado in Guy LaRoche
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All’anagrafe Noelie Dasouza Machado, la modella cambiò il proprio nome in China quando iniziò a sfilare
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La bellezza esotica di China Machado immortalata da Peter Basch in uno scatto risalente agli anni Cinquanta
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China Machado in un abito Patrick de Barentzen, foto di Richard Avedon
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China Machado è tornata a posare come modella, firmando un contratto con la IMG alla veneranda età di 80 anni

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L’icona di stile ha lavorato per ben 11 anni come fashion editor di Harper’s Bazaar


Nonostante il suo incredibile successo China Machado non si dichiarò mai entusiasta del lavoro di modella, e -incredibile ma vero- lei, dal viso così perfetto, non si ritenne mai particolarmente bella, come ha più volte dichiarato in numerose interviste. La collaborazione tra la modella e Avedon durò tre anni, successivamente ai quali China Machado fu assunta -ironia della sorte- dallo stesso Harper’s Bazaar come Senior Fashion Editor, per poi assumere l’incarico di Fashion Director. Dal 1962 l’ex modella lavorò per 11 anni nella redazione dello storico magazine. Come fashion editor il suo era un approccio alla moda istintivo e spontaneo. Convinta per sua stessa ammissione di non avere -a differenza delle sue colleghe- un senso innato per lo stile, China Machado prediligeva comfort e sobrietà, indossando spesso pantaloni.

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China Machado ritratta da Bruce Weber per Vogue Italia luglio 2015
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China Machado ritratta da Richard Rutledge
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Contraria alla chirurgia estetica, China Machado appare ancora oggi bellissima e naturale
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Ironica e dalla grande personalità, China Machado ha lavorato anche come costume designer e produttrice televisiva

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China Machado fotografata da Glen Luchford per V Magazine, 2010


Nel 1989 l’icona di stile China Machado venne celebrata con l’inserimento nella celebre International Best Dressed List, creata nel 1940 da Eleanor Lambert. La modella ebbe due figlie dall’attore Martin LeSalle, Blanche ed Emmanuelle. Rumour vociferano di una sua liaison con William Holden. Attualmente la modella vive a Long Island col suo nuovo marito Riccardo Rosa.: nel corso della sua lunga carriera ha lavorato anche come costume designer e produttrice televisiva e ha cresciuto le sue due figlie come madre single. Dopo aver ultimato la sua autobiografia è stata immortalata in tempi recenti da Bruce Weber per W Magazine: è così che, a oltre mezzo secolo dal suo ritiro dalle passerelle, China Machado è tornata a posare come modella, con un contratto firmato con la celebre agenzia IMG alla veneranda età di 80 anni. Il passare del tempo non ha cambiato i suoi zigomi, le labbra e gli occhi felini sono sempre gli stessi, come anche l’autoironia. E a chi le chiede quali siano i suoi segreti di bellezza, lei risponde, spiazzando gli increduli interlocutori: “Non ho mai fatto una dieta, non ho mai fatto ginnastica, mangio come un maiale e bevo- soprattutto vodka. E fumo, anche.” Perché la personalità è glamour.


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